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Situazione politica italiana

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TUTTI CONTRO TUTTI.
E TUTTI CONTRO IL PROLETARIATO

Indice

Il numero era lontano dalle cifre sparate dai leaders polisti, ma il corteo anti-finanziaria del 9 novembre, è stato senza dubbio di massa. Non c’era solo ceto medio, invocato dal Cavaliere come "l’animale da soma che lavora per tutti", ma c’erano anche vasti settori "popolari", soprattutto del sud, tra cui AN vanta, ormai, un sicuro insediamento.

La piazza non chiedeva aggiustamenti o correzioni, dialoghi o patteggiamenti, ma di mandare a casa Prodi e il suo governo di comunisti. L’obiettivo era sostenuto con una decisione e un livore che i capi del centro-destra avevano, ormai, dismesso. La mobilitazione di piazza gli ha restituito, almeno per qualche giorno, lo smalto e la fermezza che avevano perduto. Berlusconi è sembrato addirittura trasfigurato, come trasfuso da nuova linfa vitale: gliela forniva la piazza. Quelle migliaia cui lui non riusciva da tempo a offrire una direzione chiara, glie l’avevano, alfine, offerta loro. E' la massa del Polo che dirige i suoi capi, gli mostra l’obiettivo (giù il governo Prodi!), gli offre lo strumento: la propria forza e determinazione. Berlusconi, più d’ogni altro capo, ha raccolto il messaggio, e nelle ore successive alla manifestazione ha lanciato un’offensiva a "tutto campo" contro la sinistra, contro il regime che sta costruendo, "fascista e antidemocratico" in politica (l’Ulivo s’appropria della RAI e d’ogni carica pubblica, il governo espropria il parlamento imponendo delle riforme senza dibattito parlamentare) e "comunista" in economia, perché si prefigge di "espropriare la borghesia utilizzando la leva fiscale".

Gli ingredienti per dare l’assalto al governo c’erano tutti. Il Polo, già maggioranza elettorale (al proporzionale), si trovava per le mani una forte disponibilità alla mobilitazione di piazza. L’avversario era in difficoltà, trovandosi a gestire una finanziaria di tagli e tasse superiori a quelli programmati. Secondo logica avrebbero avuto interesse a disfarsi di Prodi tanto il grande capitale quanto buona parte della piccola-borghesia, i ceti medi accumulativi.

Il primo perché avrebbe dovuto ormai rendersi conto che un governo condizionato da sinistra e sindacati non potrà mai realizzare in pieno e con l’urgenza dovuta l’obiettivo che conta: smantellare lo stato sociale e abbattere i salari per ri-capitalizzare le aziende al fine di procurargli i mezzi finanziari per partecipare alla guerra aperta sui mercati mondiali da protagoniste e non da vittime, continuamente a rischio di essere emarginate o acquisite da aziende estere più grandi, se non proprio distrutte (come puntualmente capita da un po’ di anni in qua a tutte le grandi aziende italiane, ultima l’Olivetti. Rimane ormai solo la Fiat -e anche lei affatto in buone acque-).

I ceti medi accumulativi hanno buone ragioni di temere di essere chiamati a contribuire a risanare i conti pubblici in misura maggiore di quanto abbiano fatto finora. Un governo di sinistra non dà garanzie di far gravare il risanamento pubblico e il rilancio del grande capitale unicamente sulla classe operaia e sul lavoro dipendente. Per di più in un momento in cui l’andamento dell’economia mondiale non concede speranze di futuro migliore. Da ciò la loro rabbia anti-sinistra.

Con questo patrimonio reale (elettorale e di piazza) e con quello potenziale (appoggio del grande capitale, rabbia dei ceti medi), il Polo avrebbe potuto portare un duro affondo contro Prodi. Invece, in pochi giorni, ha quasi completamente dilapidato il patrimonio, non è riuscito a far cadere il governo, non è riuscito neanche a condizionarlo seriamente sulla finanziaria, e, dulcis in fundo, ha riconsegnato alla Lega Nord l’esclusiva di reale opposizione al governo, di unico partito che offre una soluzione seria alla "rivolta fiscale", per lo meno del nord: la secessione, ovvero la scomparsa di quello stato centrale indebitato fino al collo e incapace di fermare la corsa agli aumenti del prelievo fiscale.

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Primo assente: il partito unitario della borghesia

Perché la destra non ha sfruttato fino in fondo l’occasione per mandare a casa Prodi? Le motivazioni conducono tutte a una sola risposta: la borghesia italiana non riesce a trovare la forza, l’unità di programma, l’organizzazione per sferrare contro il proletariato (e, di conseguenza, contro le organizzazioni sindacali e politiche che lo rappresentano) l’attacco a fondo che, pure, le leggi di mercato rendono sempre meno rinviabile.

Il grande capitale non ha appoggiato l’accelerazione contro Prodi, temendo l’acuirsi dello scontro sociale e politico. Per lo stesso motivo teme il ritorno, all’immediato, di un governo di centro-destra, e continua ad affidare al centro-sinistra il compito di "limatura consensuale" del proletariato, sperando di ripetere lo schema dell’accordo sulle pensioni Dini-sindacati, con la variante quantitativa (tagli più pesanti a pensioni, sanità, sul mercato del lavoro, ecc.). Quest’azione "lima" effettivamente il proletariato, lo costringe a nuove tagli e rinunce, ma non è assolutamente in grado di "portare l’Italia in Europa", e ancor meno di riscattare l’imperialismo italiano dalla serie B in cui è già retrocesso. La grande borghesia è consapevole dell’insufficienza di questa politica, ma conta, tuttora, con stupefacente irresponsabilità, di poter beneficiare del gioco dei rimandi, come un Romiti che continua a proporre la tesi che puntare a rinviare di qualche anno l’ingresso nella moneta unica non sia il peggiore dei mali. Con l’influenza e il potere internazionale che la borghesia italiana attualmente si ritrova -pari a zero- pretende di poter convincere i partner-concorrenti a concederle ulteriori sconti sui tempi di una contesa internazionale, che sfugge, peraltro, al controllo di qualunque istituzione o governo, dettata, com’è, dalle impersonali leggi del mercato, del capitale.

Ma lo stesso Polo è politicamente al di sotto della bisogna. I suoi leaders e gran parte delle sue truppe sono ancora succubi del passato consociativista, e con ciò incapaci di prospettare un’azione reale di scontro profondo e di gestire, con la forza adeguata, l’inevitabile approfondirsi delle esplosioni sociali. Né il contributo che viene da AN facilita la soluzione del busillis, al contrario lo complica ulteriormente: l’anti-liberismo, lo statalismo, il meridionalismo degli ex-missini si coniugano con l’ansia di dimostrare il definitivo trasloco nelle schiere "democratiche", con quel che ne consegue quanto a uso dei mezzi di lotta politica (i governi non si scacciano con la piazza, ma in parlamento, con le elezioni, con l’appello alla Corte Costituzionale, ecc.).

A ciò si somma l’infinita lotta tra capi, i trabocchetti, le intese "col nemico", lo spirito vanesio di tanti parvenu sull’avanscena -più sono in alto, più sono vanesi, come Fini, convintosi di essere un grande "politico", salvo infilare una bufala dietro l’altra, l’ultima in quel di Milano quando giurava, in un cinema, che ormai il Polo aveva messo, con la manifestazione di Roma, "la Lega in un angolo", mentre fuori i leghisti sfilavano a centinaia di migliaia, rimpolpati, proprio, dagli errori e dalla inconcludenza del Polo...-.

Non è facile per la destra uscire dalle sue difficoltà, considerata anche la permanente incapacità del Cavaliere di porsi e di porre il tema e l’urgenza della costruzione di un vero partito, programmaticamente fondato, organizzato e votato con coerenza allo scontro.

Un pantano di cui la borghesia italiana ha già dato ricorrenti esempi storici e da cui non riesce a sollevarsi, neanche per ritrovare una propria unità politica. Rincorsa dei propri interessi di clan, schegge impazzite nella magistratura, pezzi di stato in lotta tra loro, burocrazia famelica e ostica a ogni innovazione, lotta al coltello l’un contro l’altro, soddisfazione nel veder perire un concorrente anche quando è tutto il sistema-paese che ci perde (esempio recente: il crollo della Olivetti -per di più con il palese intervento di centri finanziari stranieri, abituati ormai a scorazzare senza ostacoli nelle questioni economiche e politiche italiane- e le dichiarazioni di gioia di esponenti della destra per la fine del nemico-De Benedetti), dimostrano come la situazione vada precipitosamente verso uno sfascio totale, di cui la Lega rappresenta il meglio piazzato dei possibili beneficiari. Che Berlusconi e D’Alema siano, personalmente, consapevoli dell’imminente sfascio, non comporta in nessun modo che trovino il modo per impedirlo.

Nel quadro generale di difficoltà e confusione diviene sempre più complicato anche un’altro dei metodi che, tradizionalmente, la borghesia italiana ha usato per conquistarsi spazio, quello di ricorrere all’aiuto di qualche alleato estero, o, come più spesso ha fatto, di conquistarsi la benevolenza di più alleati, che sono magari in lotta tra di loro. Esperta a entrare nello scontro dalla parte del vincitore, e solo quando è chiaro chi sarà a vincere (come nel primo conflitto mondiale), o a cambiare, al momento opportuno, alleanza (come nel secondo), la borghesia italiana conta di poter ricorrere ancora a questa sua "risorsa", giocando sui due tavoli. Da un lato, chiede aiuto agli USA prospettandogli di fungere da "quinta colonna" per evitare che l’Unione Europea divenga mai un serio avversario del predominio americano sul mondo; dall'altro, invoca la comprensione tedesca prospettando per un'Europa senza Italia una debolezza intrinseca nello scontro con gli altri giganti mondiali. A entrambi, poi, chiede aiuto per piegare il proletariato.

Questo giochetto (che, peraltro, non fa neanche in modo unitario, ma, come sempre, dividendosi per camarille), però, non la favorisce affatto: nello scontro tra loro, i giganti, questa volta, troveranno (i segnali sono, ormai, evidenti) molto più conveniente spartire l’Italia -come nel ’43-, con una Germania che s’impossessa delle aree economicamente più significative, e gli USA che s’appropriano di un pezzo di penisola adatto a essere trasformato in una portaerei con la duplice funzione di gendarme contro la rivolta delle masse del terzo mondo e di argine all'"espansionismo" tedesco.

Quanto all’aiuto contro il proletario, alla borghesia italiana non lo nega nessuno degli alleati. Ma anche sotto questo aspetto la soluzione di dividere il paese contiene un grande vantaggio: quello di dividere, anzitutto, il proletariato, con ciò riducendone in sommo grado la forza, fino al punto di costringerlo a sottomettersi a quelle condizioni di sfruttamento contro le quali tuttora fa resistenza.

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Ma l’attacco anti-operaio non si ferma

Pur con tutto il marasma in cui si agita non è, comunque, da credere che la borghesia si astenga dal condurre contro il proletariato una costante azione di spoliazione, comprimendo i salari, riducendo lo "stato sociale", precarizzando il rapporto di lavoro, cercando, soprattutto, di minarne la forza e la coesione organizzata, come dimostra l’attacco di Federmeccanica allo stesso contratto nazionale dei metalmeccanici.

Per rendere ancora più efficace il suo attacco mette a frutto anche la mobilitazione delle destre. Federmeccanica e Confindustria ne hanno tratto vigore nel negare il rinnovo ai metalmeccanici, e nuova forza ne ha tratto anche la destra dell’Ulivo (Dini & c.) che ha ripreso con più determinazione la strategia di spostare al "centro" il governo, stringendo i tempi per l’estromissione di Rifondazione dalla maggioranza e cercando di controbilanciare gli interessi "sovrarappresentati" (!) dei lavoratori con quelli dei ceti medi, artigiani, imprenditori. L’inasprirsi della lotta di costoro e del grande capitale può produrre diverse soluzioni (ulteriore arretramento di Rifondazione, con la disponibilità a tagliare pensioni e stato sociale, contro-ribaltone per far fuori il Prc e imbarcare i Casini e i Buttiglione, governo di "larghe intese" da D’Alema a Berlusconi), ma ognuna di esse avrà innanzi l’identico problema: sferrare un assalto decisivo alle condizioni proletarie, tanto più duro quanto più ritardo si accumula, per "liberare" finalmente una massa di capitale sufficiente a sostenere il capitale nazionale, piccolo e grande, nella guerra sui mercati. E, per far questo, serve ben altro che rieditare governi -sia pur sempre meno- consociativisti.

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Secondo assente: il partito del proletariato

Il proletariato, da parte sua, continua a subire i colpi, cercando di parare e contenere quelli più devastanti. Per far ciò, non solo continua a contare sui sindacati, ma spera che il governo Prodi, "vigilato" da Pds e Rifondazione, realizzi il miracolo di "salvare" l’economia nazionale senza imporgli troppi sacrifici e senza imporli solo a lui. Una sua parte sempre più grande, in verità, non ripone più fiducia in questa linea e ha cominciato a orientarsi verso la Lega al nord e verso soluzioni "meridionaliste" al sud. Gli uni perché ormai convinti che lo stato nazionale unitario non sia altro che una gigantesca sanguisuga insaziabile, che prosciuga tanto i salari quanto i profitti delle imprese, impedendo ai primi di essere decenti e alle seconde di sopravvivere. Gli altri perché temono che l’"egoismo" del nord li precipiti nella miseria totale e sotto il completo dominio della mafia.

I rischi di disfacimento della tenuta unitaria della classe operaia si vanno, insomma, moltiplicando. La lotta contrattuale dei metalmeccanici sembra offrire ancora una tenuta piuttosto solida, ma se non riuscirà a mantenere in modo concreto gli impegni -difesa del contratto nazionale con un aumento salariale che non sia al di sotto di quanto richiesto- si accentuerebbe anche in questo settore del proletariato il rischio di frammentazione lungo linee aziendaliste, localiste, e, soprattutto, esplicitamente leghiste.

La politica della sinistra, da parte sua, non fa nulla per interrompere queste linee di divisione e frammentazione, anzi vi aggiunge il proprio contributo. D’Alema, per preparare il terreno a una revisione al ribasso delle pensioni, va persino rispolverando i toni berlusconiani contrapponendo ai "garantiti" operai i "non garantiti" giovani, donne, disoccupati. Centra sempre più insistentemente sul "liberalismo" i programmi del Pds, giura sul federalismo e non rifiuta ormai neanche di parlare di salari differenziati per zone geografiche. Il tutto in nome, ovviamente, degli interessi dell’"economia nazionale".

Il Prc e Bertinotti stanno vendendo illusioni micidiali sulla loro politica di "difesa degli interessi" proletari, volendo far credere di essere riusciti a condizionare e modificare la politica di Prodi e, addirittura, di aver dimostrato che sia possibile cambiare persino la "politica europea" (Liberazione, 6.10). Cercano di nascondere i (non pochi) arretramenti già fatti per rimanere nella maggioranza (Bertinotti -l'Unità 12.11- sconsolatamente lo ammette: facciamo un passo avanti e due indietro), e, soprattutto, contribuiscono a far vivere una parte importante dei militanti proletari in una sorta di sbornia, da cui sarà difficile uscire quando "all’improvviso" le politiche anti-operaie si faranno ben più dure. Senza considerare i danni che il Prc subirà come partito rinnovando la divisione tra i "duri" e i nuovi "garaviniani" che proporranno ulteriori arretramenti pur di dare sostegno a un governo pur sempre "più di sinistra" di un governo di destra.

Da parte sindacale sembrano affiorare -almeno nella CGIL- risposte meno arrendevoli alla "pressione dei mercati", della borghesia e di Prodi. Cofferati ha minacciato lo sciopero contro Prodi sulla finanziaria e, ha reiterato la minaccia per bloccare l’anticipo della revisione della riforma pensionistica per la quale ormai si battono apertamente Veltroni e Prodi. Ma, pur volendo -per pura ipotesi- ammettere che la risposta su singoli aspetti possa essere coerente (il che è impossibile conoscendo la consolidata sensibilità dei sindacati per le ragioni dell’"economia nazionale"), essa sarebbe del tutto inefficace a stabilire un argine di difesa capace di restituire al proletariato la fiducia in sè stesso, nelle sue forze, nella necessità di conservare la sua unità organizzata. Anche una lotta salariale più determinata di quella attuale di Fiom-Fim-Uilm e un deciso rifiuto a rivedere ancora al ribasso le pensioni, non risolverebbero alcuno dei problemi, se poi si continua ad accettare le finanziarie (che impongono "meno" sacrifici agli operai, ma che, comunque, ne impongono), a sottoscrivere i "patti per il lavoro" che danno spazio alla flessibilità, alla divisione e allo scontro tra lavoratori di aree diverse, e se si continua a inseguire il federalismo come perno di una riforma che possa avere ricadute positive anche per gli operai. Di questo passo è inevitabile che tra gli operai i programmi leghisti (nordisti o meridionalisti) si facciano sempre più spazio.

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Riprendere la lotta, riconquistare l'autonomia politica di classe.

Il proletariato può organizzare seriamente la difesa dei suoi interessi di classe alla condizione che non li sottoponga più agli interessi dell’altra classe, del capitalismo. E’ questa, ormai, la questione che emerge dall’oggettività dello scontro. La sola lotta sindacale, la sola difesa del salario non valgono a nulla se poi si cede nei confronti dei bilanci statali, della competitività delle imprese, della flessibilità, di un governo "amico", ecc. D’altra parte, la sottomissione agli interessi del capitalismo neanche consente una lotta salariale "seria"...

La difesa delle condizioni di vita e di lavoro del proletariato non può più essere garantita in alcun modo dal capitalismo, neanche tramite l’imposizione a esso di un compromesso simile a quello vigente negli ultimi decenni (nella riforma o nella riedizione del quale si ingegnano rispettivamente il Pds e il Prc) e che il capitalismo stesso sta smantellando sistematicamente. Può essere realizzata solo come difesa di interessi di classe contrapposti a quelli della classe avversaria. Perciò, il recupero di una forte autonomia di classe, di una decisa opposizione al capitalismo, del programma comunista e del suo partito, non sono un "di più" o un "a sè stante" rispetto allo svolgimento della lotta, ma devono avvenire contemporaneamente a esso, e servono a consentire che esso davvero si dia.

La classe operaia, i comunisti, tutti i militanti di classe, non devono astenersi da alcuno degli scontri che la borghesia provoca, su qualunque terreno si sviluppino. Ma da essi, e in essi, è urgente che cominci a riemergere una tendenza politica che riaffermi la necessità dell’autonomia di classe, del programma e del partito comunista. L’intera lotta di resistenza di tutta la classe contro le strategie di destra, di centro-sinistra, leghiste, ecc. ne sarebbe potentemente rafforzata. E con essa sarebbe finalmente rilanciata la prospettiva storica di abbattimento del sistema capitalista.

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