Dossier "La crisi del Golfo"

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CONTRO L'AGGRESSIONE IMPERIALISTA
DALLA PARTE DEGLI SFRUTTATI ARABI E ISLAMICI

COME SI È ARRIVATI ALLA ATTUALE CRISI

Indice


Un esame storico-materialista dell'attuale crisi del Golfo, volto a chiarire i compiti di lotta anti-capitalisti del proletariato e dei comunisti nel quadro delle contraddizioni e delle forze materiali in gioco, è quanto ci prefiggiamo, ad un primo livello di approfondimento, con questo numero del "Che fare", dedicato quasi per intero alla guerra del Golfo. La modestia dei mezzi a nostra disposizione è lungi dal consentirci di pubblicare "in tempi reali" un giornale che sia perfettamente tempestivo. Siamo convinti, però, che l'inevitabile décalage tra momento della confezione e momento della diffusione della nostra stampa, se lascerà qualche vuoto per quel che riguarda gli ultimissimi avvenimenti, non potrà intaccare il significato globale della nostra analisi e della nostra posizione. È proprio su questo terreno che, per nulla impressionati dal fatto di essere in controcorrente perfino rispetto agli "umori" dell'ambiente "rivoluzionario", chiamiamo al confronto quanti si rifiutano di arruolarsi nel fronte di guerra imperialista e sono attenti alle ragioni ed al programma dell'internazionalismo proletario autentico.

L'aggressore è l'Occidente

Per venire a capo delle cause prossime determinanti lo scontro in corso Golfo, è indispensabile in prima orza ritornare sulle caratteristiche di fondo della ripresa economica deanni '80. In polemica con la propaganda dominante che la presentava come il punto di partenza di un universale (e più d'uno aggiungeva: definitivo) "rinascimento" del capitalismo, non ci siamo mai stancati di etere che essa, viceversa, non costituiva sotto nessun aspetto un vero ovo ciclo di sviluppo. Era, dicevamo, una ripresa drogata e polarizzante; drogata dalla spesa bellica e dall'indebitamento statale degli USA; polarizzante sia perché realizzata sulla pelle del "Sud" del mondo, sia perché conseguita con una spremitura sul lavoro senza precedenti della classe operaia metropolitana. Una ripresa che esasperava gli antagonismi e le sperequazioni del sistema capitalistie perciò, in ultima analisi, accentuava i fattori di instabilità del dominio sociale e politico della borghesia. Sul n. 17 del nostro giornale - ci si perdoni la lunga citazione - nel pieno del carnevale sul capitalismo trionfante sul "comunismo", scrivevamo:

"L'Occidente - è vero - ha potuto allontanare da sé, momentaneamente i passaggi più scardinati della propria (del sistema capitalistico, intendiamo dire, e non evidentemente del solo Occidente, n.) crisi, ma solo condizione di accentuare al massimo il proprio essere imperialista e capitalista, e cioè i suoi meccanismi di sfruttamento esterno e interno. Con quali costi e con quali conseguenze?

"Stretta nella morsa del capitale finanziario e delle spietate leggi del mercato, una crescente parte del Sud" del mondo va ormai al dissesto strutturale, al caos economico e sociale. Non soltanto si è bloccato lo "sviluppo del sottosviluppo", fosse pure squilibrato e sperequato, ma è iniziato un vero e proprio ciclo di regresso che colpisce anche i paesi meno arretrati (…).

"L'epoca della crescita "per tutti", ancorché diseguale, è tramontata. Travolgendo come muri di carta straccia norme, convenzioni, patti, confini e difese nazionali, il capitalismo occidentale, forte della sua superiore centralizzazione (e delle sue armi), sta abbattendo tutte le barriere che in qualche modo si frappongono, nel Terzo Mondo, alla sua opera di espropriazione, di supersfruttamento e di saccheggio.

"Questo ciclone, messo in moto - per l'appunto - dai primi spasmi della crisi unitaria del sistema capitalistico, sta attraversando, con tempi e gradi di violenza (molto) diversificati l'intero campo dei paesi dominati o controllati dall'imperialismo. Da un lato determina la rovina delle fragili strutture produttive dei giovani capitalismi, dall'altro ne risucchia verso di sé (Occidente - n.) le risorse, imponendone - dopo il suo passaggio - una "ricostruzione" ancora più subordinata al "centro". Così facendo, però, l'Occidente avvince ed avvicina a sé la "periferia" più (se possibile - n.) di prima, e si espone crescentemente ai contraccolpi d'ogni sorta che ne deriveranno.

"Se, erroneamente, l'America Latina appare da qui lontana, si guardi alla regione medio-orientale. Qui crisi economica, inasprimento dei conflitti di classe e lotta rivoluzionaria all'imperialismo stanno alimentandosi a vicenda, dall'insurrezione iraniana in poi, su scala sempre più vasta. Se l'Iran post-Khomeini pare disponibile, in quanto entità borghese, ad attenuare quella lotta all'imperialismo che mai ayatollah e mullah hanno condotto fino in fondo, non possono e non vogliono farlo, invece, le masse sfruttate arabe e "islamiche". Mentre il fuoco dell'Intifada palestinese è tuttora acceso, altri fuochi d'improvviso ardono: in Algeria, in Giordania, in Egitto".

Non crediamo di dovere aggiungere molto, salvo che ci si deve guardare dall'attribuire tutto ciò, al modo dei cristiani o dei "pacifisti" all' "egoismo" ed alla "cecità" dei governanti dell'Occidente ovvero, secondo gli stereotipi di un'ideale Europa "diversa" rispetto agli USA, alla vocazione di gendarme internazionale di questi ultimi soltanto. Gli uni e gli altri finiscono per focalizzarsi nella propria critica "contro" gli USA (l'attore principe in scena!) in nome di una cosiddetta "alternativa" cristiana, pacifista - per l'appunto - …od europea (il che è lo stesso!). Ma di che si tratta? Chi non ha cervello, cuore e sangue per denunciare i meccanismi che determinano l'attuale attacco congiunto contro le masse arabe (ché di questo, e non di S. Hussein, si tratta) non può permettersi di atteggiarsi a "diverso" e "alternativo". Orbene, quali sono le forze motrici dell'attuale (non casuale, non surrogabile - in ambito capitalista) politica di tutto l'Occidente, cristianucci compresi, verso il Medio-Oriente?

L'Occidente, cioè le imprese, le banche, i governi, gli stati maggiori della pirateria finanziaria che controlla il globo, sono costretti ad agire come agiscono dalle leggi del mercato e del profitto, di cui sono soltanto il braccio operativo ("intelligente"). È il meccanismo del capitalismo imperialista in quanto tale a funzionare in modo che il capitalismo più forte tenda a concentrare e centralizzare per sé le risorse disponibili in ogni angolo della terra, bloccando, storpiando o colpendo lo sviluppo dei paesi sottoposti, inclusi quelli pienamente indipendenti sul piano politico.

Nata come reazione all'esaurimento del ciclo affluente del dopoguerra, la ripresa reaganiana, nel tentativo di posporre il precipitare di tutte le contraddizioni nel "centro" del sistema, ha forzato ulteriormente i tempi e i metodi della guerra permanente che il capitale imperialista conduce contro i paesi oppressi o dominati della "periferia" (che fa tutt'uno con quella che la classe borghese conduce contro il proletariato delle metropoli, anche se - lo sappiamo benissimo – quest'ultima non si presenta immediatamente come scontro cruento con esso, ma sotto le vesti di un suo coinvolgimento in un "fronte comune" contro le masse sfruttate arabe in nome di "comuni" interessi… imperialistici; qui non si tratta di aggredire frontalmente da subito il "proprio" proletariato, ma di addormentarlo ed arruolarlo per la propria causa: l'attacco frontale verrà dopo, quando l'ora del "redde rationem" sarà suonata dentro le stesse metropoli, a proletariato - possibilmente - già disarmato, materialmente e moralmente, in partenza).

I mezzi che l'Occidente ha usato in questa sua ininterrotta offensiva sono stati i più svariati, spesso combinati tra loro: dagli strangolatori alti tassi di interesse alla guerra per il petrolio (e le altre materie prime) a costo zero; dalla distruzione di intere agricolture nazionali al boicottaggio diplomatico e finanziario verso i paesi "sgraditi"; dall'orrendo massacro tra Iran e Iraq (che non è certo da imputare ai soli regimi borghesi belligeranti) fino agli attacchi militari diretti del Pentagono in centro-America e in Africa (per tacere di quelli indiretti). Il conflitto tra imperialismo occidentale (con l'URSS ridotta a fare ad esso da sostegno "condizionato" in nome delle proprie necessità di sviluppo, che abbisognano dei capitali occidentali e quindi della sicurezza, per questi ultimi, di una "pacifica" e "progressiva" accumulazione)[1] e Iraq, tra Occidente e sfruttati del mondo arabo-islamico può essere inteso per quello che realmente è solo alla luce di queste necessità e relazioni dettate dalle leggi e dal corso del capitalismo internazionale. La propaganda che lo presenta come l'effetto dell'occupazione irachena del Kuwait non è che mistificazione.

Se si guarda agli interessi reali in campo e non a chi ha mosso per primo i carri armati, dovrebbe essere di solare evidenza che il vero aggressore è l'Occidente e che dietro la sua aggressione ieri all'Iran khomeinista o alla Libia di Gheddafi, oggi all'Iraq di S. Hussein, l'ottimo alleato di ieri, passa una unitaria offensiva controrivoluzionaria finalizzata a ripristinare nel Golfo (il Golfo del petrolio!) l'ordine imperialista scosso dalla insurrezione iraniana e dalle Intifadah che l' hanno seguita. Neppure la "pace" tra Iran ed Iraq era riuscita a pacificare a livello sociale questa area che è vitale per la stabilità del capitalismo metropolitano. La cancellazione della miserabile dinastia compradora dei Sabah, altro che essere la causa di fondo del presente scontro, è servita appena ad accelerare il trapasso (già in via di maturazione) della politica imperialista nel Golfo (e su scala mondiale tout court) a "nuovi" e più estremi strumenti di ricatto e di violenza sugli oppressi.

La guerra "difensiva" dell'Iraq

Del resto, per quel che vale, è la stessa cronaca ad evidenziare come ('"alleato" regime iracheno, che ben si era prestato, nell'interesse proprio e dell'Occidente, a fare da argine alla diffusione della "rivoluzione islamica", era già da qualche tempo entrato nel mirino di una attenzione particolare da parte dell'Occidente. Per quale ragione? In superficie l'oggetto del contendere era il cosiddetto supercannone, ossia il livello di armamento dei paesi terzi "ammissibile" da parte delle potenze già in grado di distruggere ciò che loro comoda. Nei fatti il campo degli attriti tra Occidente e Iraq era più ampio e globale.

La pacificazione imperialista del Medio Oriente (definito da Bush pochi mesi orsono "una spina nel fianco dell'America") e la garanzia di accesso stabile ad un petrolio ceduto a prezzi di svendita, sono obiettivi di una tale complessità da richiedere, per essere conseguiti, la piena collaborazione (la sadatizzazione, si diceva dopo l'accordo di Camp David) delle borghesie dell'area. L'Iraq ha invece opposto alle pressioni imperialiste un certo grado di resistenza, cercando di preservare al capitalismo iracheno un certo margine di "autonomia" economica e politica dall'Occidente. È questo il "crimine" che l'Occidente, ben prima che avvenisse l'annessione del Kuweit, non può perdonargli (ché quelli commessi contro gli sfruttati o contro i curdi sono condonati per… "diritto internazionale").

E dire che l'Iraq baathista, a partire dal trattato del '75 con l'Iran dello Scià, era diventato un importante campo di investimenti per il capitale occidentale d'ogni bandiera, oltre che una inesauribile fonte di domanda per le forniture belliche (in questo campo anche per l'URSS). Inoltre, già nel corso della guerra contro l'Iran, il regime di Baghdad non si era negato ad una sua piccola perestrojka consistente nell'avvio di una politica di privatizzazione dell'industria leggera, alimentare e delle costruzioni e nel parziale allentamento del controllo statale sul commercio e sui prezzi. Una politica di apertura (Intifah: una parola sinistra nella storia del mondo arabo) che si è spinta a tal punto avanti, dopo la tregua con l'Iran, "da aver richiamato nel paese gli investimenti di vecchie famiglie ricche che erano in esilio fin dalla rivoluzione del 1958" ("la Repubblica" del 4 settembre). E neppure si era rifiutato di porre concretamente gli enormi affari della ricostruzione post-bellica nelle mani delle multinazionali. Quando, infine, le banche creditrici avevano richiesto che il governo iracheno ponesse l'accento sulla austerità di massa e sull'incremento del rendimento del lavoro, non avevano certo ricevuto un diniego.

Contemporaneamente, però, l'Iraq si opponeva a trattare la ristrutturazione del suo enorme debito estero in "sede collettiva" a Parigi, e cioè davanti a tutti i propri usurai associati e dichiarava di volersi attenere al metodo della contrattazione bilaterale. Operava nell'OPEC, anche per il tramite di un lento riavvicinamento (su questo aspetto) all'Iran, nel senso di far aumentare il prezzo del greggio. Continuava a spingere avanti il programma di accesso all'arma nucleare. E forniva ad una direzione arafattiana dell'OLP messa in ginocchio dal totale fallimento della sua strategia diplomatica filo-occidentale, un provvidenziale punto di appoggio.

Tanto è bastato alle centrali imperialiste per aprire senza indugi una fase di intensi attacchi, utilizzando nel ruolo di guastatori di punta anti-iracheni il Kuwait, gli Emirati e, un po' più dietro le quinte, l'Arabia Saudita. Le accuse di Baghdad al Kuwait di avere deliberatamente inondato il mercato petrolifero internazionale per far crollare il prezzo del petrolio violando le quote di produzione decise dall'OPEC (cosa che, si sostiene a ragione, "ha un effetto non minore di quello di una aggressione militare contro l'Iraq") e di essersi annessi, violando i confini di fatto esistenti, i giacimenti della zona di Roumaila, non sono mai state smentite. Messo spalle al muro, il regime iracheno si è visto costretto, come misura "estrema" di "difesa" verso i padroni occidentali dell'emirato, ad occupare il Kuwait. "L'Iraq è aggressore", strillano inviperiti qui "da noi" i massimi esponenti del banditismo capitalistico. Lo è soltanto a condizione di considerare giusta la pretesa imperialista di disporre del petrolio - in Arabia e nel mondo - e di ogni altra ricchezza come cosa propria, proprio "interesse vitale"; soltanto a condizione di considerare "legittimo" che gli stati rentier ed i loro satelliti affamino i paesi dominati; soltanto a condizione di considerare intangibile la spartizione e la balcanizzazione del Medio Oriente avvenuta per mano di Gran Bretagna e Francia alla fine della prima guerra mondiale.

Non una sola lacrima uscirà dagli occhi dei comunisti e dei proletari coscienti per la scomparsa (speriamo definitiva) di uno staterello artificiale cavallo di Troia dell'imperialismo nel mondo arabo e per la congrega di furfanti che lo amministrava. Diciamo di più: ove le truppe di Baghdad avessero concluso la loro avanzata lampo a Riad anziché a Kuwait City, demolendo, sia pure alla Bonaparte (la cosa non ci fa affatto schifo, in mancanza di meglio), un altro e assai più importante pilastro della dominazione imperialista, ne avremmo gioito grandemente come di un evento oggettivamente rivoluzionario.

E nondimeno, la politica di "difesa" dall'imperialismo di S. Hussein non è la nostra. Non lo è perché il suo programma, lo schieramento di classi che propone e qui e la sua organizzazione per la lotta (fosse pure realmente, come non è, pan-araba e addirittura pan-islamica) non sono e non possono essere quelli del proletariato rivoluzionario.

Coerentemente con la natura borghese del regime iracheno, la politica di S. Hussein e del baathismo in genere (nelle sue due versioni)[2], come già quella di Nasser a cui molti l'accostano, è, anche nella sua più battagliera versione di politica per "la rinascita dell'interna nazione araba" (coerenza tra parole e fatti a parte), una politica per lo sviluppo del capitalismo nel mondo arabo, per uno sviluppo non strozzato e "indipendente", per quella che potremmo chiamare una integrazione "paritaria", non subordinata all'Occidente, nel mercato mondiale. Anche quando si appella alla jihad contro il saccheggio imperialista dell'Islam (ed è una denuncia sacrosanta!), l'alternativa che S. Hussein propone non è quella, l'unica realmente liberatoria, del rovesciamento rivoluzionario del sistema capitalistico, ma quella al fondo illusoria e inconsistente, di una riforma "rivoluzionaria" del sistema capitalistico che consenta una più equa distribuzione delle risorse mondiali. Anche quando incita al "rovesciamento dei regimi arabi corrotti e infeudati all'imperialismo", la prospettiva rimane la stessa: un capitalismo, una nazione (islamica o cristiana che sia, non cambia l'essenziale) "sanamente" organizzata - sulla base dello sfruttamento del lavoro salariato… - e "libera" da infeudamenti al capitalismo più forte. La continua e "sorprendente" oscillazioni tra la "collaborazione" anche molto stretta con l'imperialismo e la "guerra" contro di esso, è bene espressiva di una organica incapacità propria delle "borghesie rivoluzionarie" in genere, di andare a colpire le radici dell'imperialismo, ciò che è possibile solo al proletariato a condizione che faccia proprio il programma comunista ed agisca non come classe subordinata della nazione, ma come classe internazionale per i suoi propri storici fini.

Dal fatto che esista una differente natura di classe, sul piano storico antagonista, tra il nazionalismo "rivoluzionario" alla S. Hussein e il programma rivoluzionario del comunismo, non ne deriva un atteggiamento politico di indifferentismo dei comunisti davanti allo scontro tra imperialismo e giovani nazioni in formazione. Valga a spiegarne il perché quanto scrisse la tendenza marxista facente capo ad Amadeo Bordiga dinanzi al primo atto della rivoluzione borghese in Iraq: "La formazione degli stati nazionali non interessa (…) il comunismo in quanto punto di arrivo di un processo storico, ma come punto di partenza (c. n.) dello sviluppo delle energie sociali compresse dal semifeudalesimo. Il comunismo rivoluzionario ha interesse (c. n.) a che crescano dovunque le forze del proletariato; perciò, pur smascherando il contenuto di classe dei piani di industrializzazione dei nuovi stati afro-asiatici, è interessato (c. n.) a che la reazione agraria semifeudale - ancora forte in paesi come l'India, il Pakistan, la Persia, l'Iraq, il Sudan, ecc. - e addirittura le forme economiche legate a strutture sociali primitive (…) non abbiano la prevalenza sui regimi locali che tendono a introdurre forme produttive moderne, sia pure capitalistiche". Non si tratta, ben chiaro, di appoggiare, "al modo degli stalinisti", i partiti dello schieramento democratico borghese al potere nelle ex-colonie; quello che "importa è che non venga bloccato il movimento (c. n.) tendente a liquidare il semifeudalesimo e le sopravvivenze tribali che sbarrano la via ad ogni balzo in avanti nell'economia come nella struttura sociale". Perciò - si legge su "Il programma comunista", n. 1 del 1959 - "salutammo con soddisfazione nel luglio scorso la rivolta popolare che metteva fine alla corrotta dinastia hascemita, strumento tradizionale dell'imperialismo inglese e agente del latifondismo locale (c. n.)". Del pari, senza confondersi con alcuna delle correnti politiche borghesi in campo, i marxisti non "possono non riconoscere che il programma nasseriano di uno Stato unitario arabo che ponga fine alla "balcanizzazione" del Medio Oriente, di cui si avvantaggia soltanto l'imperialismo, risponde ad un'esigenza storica reale (c. n.). Un grande stato unitario arabo (che non a caso il nasserismo non poté edificare - n.) aggraverebbe la crisi permanente dell'imperialismo, mentre non sarebbe in grado di resistere, per la sua età, ad una ondata rivoluzionaria operaia dilagante nelle metropoli dell'imperialismo".

Oggi, mutatis mutandis, ma mancando purtroppo ancora - ecco la questione fondamentale! - "partiti di tipo bolscevico che possano assumere la direzione proletaria del movimento nelle ex-colonie e in assenza della lotta rivoluzionaria del proletariato nelle metropoli", è per le medesime ragioni che salutiamo con soddisfazione la cancellazione dell'emirato del Kuweit, per ciò che esso significava sul piano economico-sociale e politico. La salutiamo non come punto di arrivo preso a sé stante della formazione della nazione irachena (vittima a suo tempo di una usurpazione imperialista), ma come punto di partenza di un movimento reale della massa del proletariato e degli sfruttati arabi e musulmani che lo scontro internazionale intorno alla questione del Kuweit catalizza e che, indirizzandosi contro l'imperialismo, chiama in causa la classe operaia delle metropoli, scuotendo i presupposti materiali della sua presente nullità politica. Punto di partenza cioè, dell'unico movimento reale che, sulla base del riavvicinamento, alla distanza, dei due "estremi" del fronte internazionale degli sfruttati e della presa di coscienza da parte del proletariato dei suoi compiti storici, può effettivaménte farla finita una volta e per sempre, per mezzo della rivoluzione proletaria, non soltanto con questo e quell'effetto, ma con il sistema della dominazione imperialista in quanto tale.

La ribellione degli sfruttati arabi e "islamici"

Aggressione dell'Occidente, dunque, e guerra "difensiva" da parte dell'Iraq. La "punizione" del regime iracheno non è, però, l'obiettivo ultimo del capitalismo occidentale. L'attacco dell'Occidente, pur passando attraverso l'assedio e se necessario la guerra guerreggiata all'Iraq, ha come bersaglio reale il movimento di lotta dei proletari e dei diseredati del mondo arabo-islamico (e dell'intera "periferia"). Con esso le centrali imperialiste hanno un conto in sospeso almeno dall'insurrezione iraniana del '79. L'Occidente è riuscito, certo, a bloccare la trascrescenza internazionale e comunista del moto rivoluzionario iniziato in Iran, ma non è stato in grado di impedire che la ribellione anti-imperialista delle classi sfruttate del Medio Oriente, connotata "idealmente" in senso islamico o meno, si estendesse molto oltre l'Iran, infettando proprio quel campo arabo che era stato sollecitato ed armato perché facesse da trincea pro-occidentale e pro-perestrojka (S. Hussein ne sa qualcosa) contro la "marea islamica". Sempre più, perciò, l'imperialismo ha avvertito la necessità di andare a colpire non più la trascrescenza del movimento "iraniano" in senso comunista, bensì il movimento anti-imperialista del Medio Oriente nel suo complesso, che rischia di rappresentare una miccia di innesco del processo della rivoluzione proletaria assai più pericolosa di quella accesasi sotto l' "imperituro" trono dello Scià.

A partire dalla indomita Intifadah palestinese contro Israele, quasi ogni angolo del Medio Oriente e dell'Africa araba è stato teatro di rivolte popolari e di acuti fenomeni di lotta di classe. Non è solo questione di quantità di sfruttati che si è messa in moto; l'Occidente ha avvertito puzza di bruciato per il prodursi di un insieme di cambiamenti nella lotta delle masse e nei rapporti tra gli stati (questi ultimi connessi e, in certa misura, influenzati da quella) preannuncianti tempesta.

Anzitutto, la incessante proliferazione delle forze di ispirazione islamica, che esprime, al fondo, una istanza di unificazione delle forze proveniente dalle masse lavoratrici povere, e la crescente presa, in questo universo, delle fazioni plebee (nonostante l'ingente foraggiamento saudita delle tendenze integraliste più conservatrici, settarie ed ostili al "populismo islamico"). In secondo luogo, un processo di avvicinamento tra masse "integraliste" e "anti-integraliste" (prontamente segnalato dal "gobbo" di casa nostra a Bush) e, le due cose vanno insieme, tra le organizzazioni islamiche, quelle più tradizionalmente "di sinistra" e il pur fragile movimento sindacale. Terzo: una tangibile maggior presenza sulla scena sociale e politica del proletariato industriale, con forti scioperi operai in Egitto, in Algeria, in Turchia e in Palestina (dove, dopo l'eccidio di proletari al "mercato degli schiavi"[3], si è verificato il primo sciopero generale dell'Intifadah gestito direttamente dalle organizzazioni sindacali). Quarto: una forte e generale indignazione per l'ondata migratoria degli ebrei russi, imputata alla pressione degli USA prima ancora che alla connivente politica di Gorbacev e per la decisione di Washington di interrompere i rapporti ufficiali con l'OLP.

Strette tra i diktat economici e politici dell'imperialismo e la montante collera delle classi sfruttate, le borghesie arabe hanno per lo più indietreggiato davanti ai primi, usando il pugno di ferro contro la seconda (pensate all'eccidio di Algeri). Sennonché, in un quadro di profonda crisi economica e di intrecciarsi esplosivo di contraddizioni sociali e politiche, questa cedevolezza ha per conseguenza di mettere sempre più a repentaglio la stabilità e perfino la sopravvivenza di diversi regimi, senza risparmiare neppure quelli ad ascendenza nazional-rivoluzionaria, come l'Algeria degli eredi, ad un tempo coerenti e degenerati, dell'FLN.

L'impennata dell'Iraq di S. Hussein a presidio della "nazione araba", e cioè di uno spazio "autonomo" di mercato per il capitalismo iracheno e arabo conquistato e difeso contro alle preteste strangolatorie dell'Occidente, condensa ed esprime quel tanto di capacità di "lotta all'imperialismo" da cui la borghesia araba non può sottrarsi e che l'asprezza stessa dell'oppressione imperialista rigenera di continuo. E tra parte rappresenta il tentativo di far pesare a suo vantaggio, in questo scontro, le istanze di riscatto, classi lavoratrici in quanto componente subalterna del fronte nazionale.

La parte più combattiva degli sfruttati medio-orientali aderisce con entusiasmo all'appello di "guerra santa" contro l'imperialismo lanciato da S. Hussein. Vede in esso, illusoriamente, la prospettiva di una guerra di emancipazione dall'imperialismo condotta fino in fondo; al tempo stesso dichiara di essere disponibile a mettere in campo le proprie energie per una simile guerra. è questo punto di ripartenza di un movimento di rivolta che per realizzare le sue più profonde aspettative, dovrà estendersi e passare necessariamente sopra la sua attuale direzione borghese, e che per estendersi ha bisogno della nostra piena solidarietà. Il proletariato delle metropoli ha interesse a che la guerra degli oppressi arabi e musulmani contro l'imperialismo sprigioni tutto il suo grande potenziale rivoluzionario (ancorché non immediatamente comunista) perché, più questo si verificherà, più a fondo si infrangerà quella "pace sociale" che per la classe operaia significa soltanto sfruttamento e oppressione da parte del capitale. E più alto sarà il costo pagato dall'Occidente per la sua nuova crociata imperialista, tanto più indebolito ne uscirà il sistema capitalistico nel suo complesso e obiettivamente agevolata la prospettiva del socialismo internazionali, la sola in grado di assicurare la liberazione dall'oppressione capitalistica per i proletari di tutte le nazionalità


Note

1. Sulla posizione dell'URSS ritorneremo successivamente. Ci limitiamo per ora ad alcune succinte considerazioni. Abbiamo già scritto, nel n. 15 di "Che fare", sulla azione di "pompieraggio internazionale" di Gorbacev. Nella crisi del Golfo l'URSS ha compiuto un ulteriore passo nel senso dell' "allineamento" con l'Occidente. Il disimpegno dalle borghesie nazionali "anti-imperialiste" si rendeva necessario dal momento che la crisi dell'URSS ha fatto ormai divenire insostenibile un confronto "bipolare" con l'Occidente (il che vale anche per il disimpegno ad Ovest) e l'URSS non aveva in questi paesi un retroterra di conquista imperialista (esportazione di capitali, etc.) da mantenere, ma semplicemente dei bastioni - direttamente sotto controllo (Europa) utilizzabili come alleanze, tra mille alti e bassi (Medio Oriente) - da contrapporre, militarmente e politicamente, alla marcia stritolatrice dell'imperialismo.

Entrata, in posizione subordinata, nell'Occidente, quale campo di invasione del capitale, l'URSS ha oggi bisogno, per tentare di uscire dal vicolo cieco, di investimenti e di… pace. La possibilità di attingere ai primi e di contrattarli in qualche modo, dipende precisamente dalla "pace" di cui deve godere l'Occidente. L'URSS viene perciò a trovarsi a sua volta dipendente da questa "pace", che non può significare altro che ipersfruttamento e guerra scaricati altrove, e nel turbolento mondo arabo in primis.

Di qui il sostegno interessato ad un certo tipo di normalizzazione, almeno, nel caso del conflitto con l'Iraq ed il coinvolgimento attivo dell'URSS in un "pompieraggio atto secondo" che segna, rispetto al passato, un deciso salto di qualitàs.

Si faccia attenzione, comunque, a non porre l'azione dell'URSS sullo stesso piano di quella statunitense (il che non significa che essa sia meno vergognosa): l'URSS non ha poteri e velleità di diretta appropriazione delle materie prime del Medio Oriente "come" gli USA e, in una certa misura resta tuttora contraria ad una "normalizzazione" totale dell'area, che finirebbe poi per ripercuotersi come un boomerang sulle sue stesse capacità di contrattazione… alla svendita.

Il monito di Saddam suona bene la campana per l'URSS. Che essa non ne ascolti i rintocchi è di scarso rilievo; il futuro che l'aspetta evidenzierà l'attualità del discorso del "folle di Baghdad".

2. Alludiamo alle due branche principali del Baath (non sono le uniche), la irachena e la siriana, tra loro in lotta da circa un quarto di secolo. La storia del Baath è davvero esemplare di quella organica incoerenza tra enunciazioni programmatiche e pratica politica che caratterizza il nazionalismo arabo e l' "anti-imperialismo" borghese in generale. Questo movimento, nato in Siria alla fine degli anni '40 ed espansosi nei due decenni successivi in altri paesi arabi (soprattutto Iraq e Libano), ha un solo chiaro punto programmatico: l'importanza del nazionalismo e dell'unità del mondo arabo. Nonostante ciò, il baathismo non è mai riuscito ad esistere realmente come organismo "sovrannazionale" (o nazionale nel senso di tutta la nazione araba). Al potere dal '63 in Siria e dal '68 in Iraq, ha visto un incessante conflitto tra queste sue due "sezioni", giunto ora alla soglia dello scontro armato, nonostante che in entrambe, dopo tormentate vicende, abbia prevalso la "sinistra", fortemente connotata in senso statalista e militarista.

3.Nella mattinata di domenica 20 maggio un soldato israeliano trucidò 7 operai palestinesi che erano in attesa di ingaggio in una zona di Tel Aviv chiamata significativamente il "mercato degli schiavi". In risposta a questo odioso eccidio, ci fu una esplosione di protesta a Gaza, in Cisgiordania, in Giordania, nel Libano e finanche dentro Israele. Per la prima volta dall'inizio dell'Intifadah lo sciopero generale fu indetto non dal Comando unitario, ma dalle organizzazioni sindacali palestinesi (che hanno conosciuto negli ultimi mesi un processo di riunificazione che ne ha accresciuto il peso politico nel movimento di liberazione palestinese e arabo).