Il discorso torna, dunque, necessariamente, alla metropoli, al proletariato ed ai comunisti di qui.
È fuori dubbio che la guerra del Golfo avrà profonde ripercussioni sull'Occidente. Essa è esplosa in una congiuntura del capitalismo mondiale già caratterizzata - prima ancora del 2 agosto - da molteplici tensioni ed incognite.
Da un lato gli USA erano sull'orlo della recessione o, quanto meno, di una fase di stagnazione della propria economia. Il "decennio d'oro" sembrava effettivamente arrivato al palo per la difficoltà di continuare ad incrementare a saggi reaganiani la spesa bellica in uno scenario mondiale di "dimissioni" dell'URSS dal ruolo di "superpotenza" e per un nuovo enorme incremento del deficit statale accompagnato, a differenza che negli scorsi anni, da crescenti problemi per il finanziamento esterno di esso.
Dall'altro lato, però, l'unificazione tedesca e la tenuta dell'economia giapponese mantenevano aperta la possibilità di una transizione "non traumatica" (salvo che per i paesi dominati) dall'esaurimento della ripresa reaganiana ad un rilancio dell'Occidente trainato dai poli europeo e giapponese, e soprattutto dalla Germania unita.
La situazione internazionale rimaneva, comunque, nel suo complesso, segnata dalla inasprita contesa per i mercati (specie quelli dell'Est Europa e dell'URSS), nel mentre che proprio l'incartarsi sempre più caotico delle economie dell'Est Europa e l'acuirsi dei fenomeni di dissesto economicosociale nei continenti oppressi non cessavano di rimandare al "centro" del sistema capitalistico mondiale le pulsioni destabilizzanti della "periferia" dell'Europa e del mondo.
La guerra del Golfo ha inasprito ed inasprirà tutte le contraddizioni e gli antagonismi del capitalismo mondiale, rendendo, come minimo, l'ipotesi della transizione "non traumatica" di assai difficile realizzazione. È ancora presto per una valutazione analitica di questi contraccolpi. Avremo modo di tornarci sopra, comunque, già dal prossimo numero del giornale. Ci interessa di più, qui, concentrare l'attenzione - invece - sulle caratteristiche dell'attacco che la borghesia imperialista ha già cominciato a sferrare alla classe operaia quale altra faccia della sua aggressione agli sfruttati del Medio Oriente.
Fermiamoci alla situazione italiana. Per la "nostra" classe capitalistica lo schieramento di guerra contro l'Iraq è servito anzitutto a sollecitare un passo in avanti del processo di intruppamento del proletariato nella nazione, proseguendo sulla strada già tracciata in termini "pacifici" - negli anni della ristrutturazione - con la politica della competitività delle aziende e dell'azienda-madre Italia.
La necessità di questo "passo in avanti" nell'interesse "comune" (comune a tutti gli sfruttatori!) è indicata in forme sempre più esplicite. Nel dopo-Jalta "essere sovrani - ha scritto un giornale della FIAT ("La Stampa" del 12 settembre) non vuol dire solo (per l'Italia e per l'Europa - n. n.) mercati unici e fusione di monete, ma anche capacità di difesa comune, capacità di dissuadere con proprie forze eventuali detentori di armi chimico-nucleari, volontà - infine, di pensare la guerra, non foss'altro che per preparare una pace non disonorevole". Bisogna dunque, dicono i padroni, mettere nel preventivo anche la guerra per andar"ci" a prendere eventualmente con la forza, "noi" tutti come nazione, quello che "ci" è indispensabile.
A bisogni di guerra non può che corrispondere la prospettiva di una "economia di guerra", già preconizzata in sede CEE per l'intero proletariato europeo. Per l'Italia, che subirà forse, per la crisi del Golfo, contraccolpi ancora più pesanti di quelli ipotizzati per gli altri paesi europei, il governo Andreotti ha immediatamente lanciato l'allarme sul rischio di finire "in serie B" se una serie di problemi cronici (il macroscopico deficit statale, l'efficienza nei servizi e nella pubblica amministrazione, etc.) non troveranno soluzione. A sua volta, con un certo anticipo, la FIAT come capofila del padronato aveva indicato la necessità di un programma di "qualità totale" da attuare con il concorso e non con la contrapposizione al sindacato.
È ben evidente che la borghesia intende accollare alla classe operaia metropolitana i costi dell'aggressione ai popoli del Medio Oriente, ma - attenzione! - questo inevitabile attacco al "nemico interno" passa, in questo momento, prioritariamente attraverso il tentativo di rendere la classe operaia compartecipe sul piano politico e "ideologico" dell'aggressione imperialista. Per questo è possibile, se non addirittura probabile, che la borghesia cerchi di ottenere questa compartecipazione "offrendo" alla classe operaia la "contropartita" di sacrifici "non a senso unico" (va in questa direzione, ad esempio, la proposta di una nuova tassa sulla casa formulata dal ministro delle finanze socialista, subito valorizzata da alcuni dirigenti sindacali come proposta "di sinistra"). La stessa Confindustria, pur lesta a sfruttare pro domo sua le nuove incertezze dell'economia mondiale, mira più che ad un immediato abbassamento dei salari (cosa alquanto problematica, tra l'altro, a contratti ancora aperti) a modifiche della struttura del salario e dei criteri della contrattazione tale da intaccare l'unità materiale della classe operaia, e non rinuncia neppure essa a tentare di coinvolgere in questa politica e perfino nella gestione delle imprese i bonzi sindacali.
Questo tipo di attacco - ci si intenda - non esclude, anzi prepara meglio l'affondo successivo sul terreno delle condizioni di vita e di lavoro, proprio attraverso il tentativo di negare ancora più in profondità l'autonomia della classe operaia chiedendo ad essa di fare propria la guerra contro i suoi fratelli di classe del "Sud" del mondo.
Ad una sola condizione il proletariato potrà rintuzzare questo attacco della borghesia, ed è che riesca a metterne a nudo la natura e le finalità imperialiste di rapina, di saccheggio, di sfruttamento e di rafforzamento del sistema capitalistico di sfruttamento e che sappia respingerne ad un tempo il contenuto politico e quello economico, tra loro inscindibili, rilanciando la sua lotta al capitalismo e la solidarietà con gli sfruttati del Medio Oriente e della "periferia" tutta.
In una direzione diametralmente opposta va, come e più di sempre, il "riformismo". Il PCI e l'intero schieramento della socialdemocrazia europea hanno plaudito, allineandosi ai rispettivi capitalismi ed all'imperialismo tutto, al blocco strangolatorio all'Iraq e ai diktat degli USA e dell'ONU. Hanno cercato, certo, di distinguersi dal più acceso militarismo, ma facendo comunque proprio, per la prima volta in modo tanto esplicito, l'assunto centrale della posizione imperialista: il Golfo del petrolio, il mondo intero è il "cortile di casa nostra", è lo spazio dei "nostri" interessi vitali e perciò abbiamo il diritto, e finanche il dovere, di intervenirvi, in quanto difensori della "pace" contro i rischi di guerra che notoriamente vengono… all'Occidente dai "dittatori" e dalle... masse "integraliste" e "fanatiche" supersfruttate (addio, "causa palestinese" e "fanciulli dell'ulivo"!) del Sud del mondo.
Agita i leaders della indefinibile "cosa" la ben definita preoccupazione che la guerra del Golfo possa scatenare un incendio di tali proporzioni da ripercuotersi in modo talmente dirompente da far saltare in aria quei margini che consentono di "tenere buono" il proletariato. Di qui gli inviti alla "moderazione", fermo restando che anche per loro il bersaglio della caccia grossa è lo stesso! Ma più ancora allarma loro, come i loro compari soprastanti del governo, la possibilità che vengano ad unirsi in un fronte unico anti-capitalista i proletari del Nord e gli sfruttati del Sud. Di qui una politica che disarma il proletariato, chiamandolo a sostenere gli interessi imperialisti della classe lo sfrutta, e lo spinge a rendere ancora più profondo il fossato, già drammaticamente arduo da colmare, con il proletariato della "periferia".
Questa impostazione social-sciovinista e bancarottiera deve essere denunciata da cima a fondo. I comunisti non debbono esitare a dire che se la classe operaia la facesse propria, nella suicida speranza di trovarvi un utile, essa non avvallerebbe un attacco contro "altri", ma contro se stessa, non andrebbe soltanto ad aggredire in armi i propri compagni di classe del Medio Oriente, ma scenderebbe in armi contro se stessa, e ne pagherebbe su tutti i piani le conseguenze.
La guerra del Golfo è una guerra contro il proletariato, ed è per questo che è impossibile per il proletariato metropolitano "astenersi". Se non vuole essere risospinta un'altra volta nel precipizio della guerra imperialista, la classe operaia deve perciò spezzare le catene del compattamento nazionale, denunciare l'aggressione imperialista all'Iraq e ai popoli medio-orientali, rilanciare la propria iniziativa di lotta sul piano politico ed economico, anche in questo caso inscindibili, e fare infine i conti con una politica "riformista", con una politica sindacale sempre più "omologate" agli interessi di fondo del capitalismo e disastrose per gli interessi della classe.
A questo ed a nulla meno che questo i comunisti chiamano il proletariato. Non ci nascondiamo le difficoltà della situazione. La magnifica ribellione degli sfruttati arabi e islamici sta gettando le premesse per il riavvicinamento tra le due "sezioni" del proletariato mondiale, ma questa marcia di avvicinamento non è scontata, non è meccanica. Ragioni non contingenti e non di certo solo o principalmente "ideali" hanno determinato questa divisione che potrebbe addirittura nell'immediato approfondirsi, ove settori della classe operaia si facessero trascinare nella campagna di attivizzazione anti-araba.
Ma la nostra fiducia nel peso in ultima istanza decisivo delle determinazioni oggettive ci dice che l'antagonismo tra sistema capitalistico e proletariato finirà necessariamente per manifestarsi anche qui, ed il proletariato metropolitano saprà riconquistare la sua funzione di avanguardia della guerra di classe internazionale di tutti gli sfruttati per il socialismo.
Non ci attendiamo una inversione di marcia in un sol colpo. Ci vorrà un cammino fatto di battaglie anticapitaliste che trasformeranno la classe operaia rispetto a quella che è oggi. Ora l'importante è avviare questo cammino: per questo noi comunisti avremo la massima cura nell'osservare ogni manifestazione, ogni passo della classe operaia e dei lavoratori che vada nel senso di rompere concretamente il clima di mobilitazione di guerra e la campagna di arruolamento imperialista e nel senso di riportare in campo i proletari per i propri autonomi interessi. Per questo lotteremo a fondo contro tutte quelle impostazioni politiche che, comunque connotate, rendono più difficile il conseguimento dell'unità internazionale del proletariato.