Dossier "La crisi del Golfo"

IL SECONDO TEMPO DELLA RIVOLUZIONE 
ANTI-IMPERIALISTA NEL MONDO ARABO-ISLAMICO

Indice


La crisi del Golfo è destinata a lasciare un solco profondo in un mondo arabo che è profondamente cambiato rispetto a quello delle "rivoluzioni anti-imperialiste" degli anni '50 e '60, l'epoca, per dirla in uno, del nasserismo. Di mezzo vi sono, infatti:

Questi profondi cambiamenti esprimono che il mondo araboislamico, tuttora oppresso dall'imperialismo nonostante la fine del vecchio colonialismo, è gravido di un secondo tempo della rivoluzione democratico-borghese contro le nuove forme della dominazione imperialista, a cui sono interessate materialmente molto più le classi sfruttate e il proletariato che le classi borghesi "locali". Un "supplemento di rivoluzione" borghese che è oggettivamente spostato più "in avanti" verso la trascrescenza nella rivoluzione proletaria mondiale. Non è certo per caso che oggi la grande maggioranza della borghesia araba sia schierata contro il "fratello" iracheno e, talora copertamente, per prudenza, con l'intervento imperialista.

Perché Saddam Hussein come punto di riferimento?

Ma se questo è vero, perché allora le masse sfruttate del mondo arabo e musulmano si stringono intorno a "personaggi" come Hussein (e ieri Khomeini) ed a movimenti che nella loro ideologia e nel loro programma nulla hanno di proletario? Perché aderiscono all'appello di Hussein alla "guerra santa" contro l'imperialismo formulato in termini per metà nazionalisti (anche se di un nazionalismo "di area") e per metà religiosi, e non prestano ascolto ad un appello alla guerra contro il sistema capitalistico redatto in corretti termini di classe?

La ragione è molto semplice: perché l'unica classe che potrebbe lanciarlo a mezzo della propria organizzazione di partito, la classe operaia metropolitana, è al momento in uno stato di nullità politica, e la sua organizzazione politica (SPD, PCI, PCF o LP che sia, ed il discorso non è diverso nei suoi termini essenziali per i partiti "ex-comunisti" dell'Est) aderisce completamente alla difesa del capitalismo imperialista, sia pur colorando (in modo sempre più sfumato) tale adesione con il riferimento agli interessi immediati dei lavoratori.

Del pari, se la giovane classe operaia araba, come pure quella dell'Iran, stenta ad assumere all'interno del mare magnum dei diseredati un ruolo politico indipendente rispetto al nazionalismo rivoluzionario borghese e all'islamismo, la causa fondamentale di questa debolezza non è locale: sta nella debolezza complessiva del proletariato internazionale, e anzitutto del proletariato più forte, concentrato ed esperto del "centro".

Abbiamo alle nostre spalle - e ne scontiamo il peso - un lungo ciclo controrivoluzionario che ha consentito alla borghesia, con la determinante complicità dello stalinismo, di infrangere doppiamente il movimento rivoluzionario del proletariato: da un lato, sconfiggendolo sul campo di battaglia ed in parte corrompendolo in Europa; dall'altro spezzando il legame tra il proletariato dei paesi imperialisti ed il moto insurrezionale anti-imperialista dei popoli oppressi. La grandiosa prospettiva strategica della rivoluzione mondiale tracciata dalla III Internazionale è stata interamente smantellata dallo stalinismo. Secondo quella prospettiva l'abbattimento del capitalismo internazionale come sistema unitario può avvenire solo attraverso l'unione, la fusione delle lotte di tutti gli oppressi e gli sfruttati del mondo, della lotta rivoluzionaria direttamente per il socialismo nel "centro" con le guerre nazionali insieme anti-feudali ed anti-imperialiste della "periferia". Sotto la guida della classe operaia metropolitana e del suo programma per il comunismo, l'Occidente proletario e l'Oriente contadino - si disse al Congresso di Baku - debbono unirsi in un solo movimento sovietico internazionale, nel cui contesto la lotta contro l'oppressione nazionale acquisterà un significato mondiale e potrà trovare l'unico sbocco non illusorio, non formale, non precario nel rovesciamento definitivo dei rapporti sociali capitalistici. Cosciente dell'estrema complessità di questo processo a causa delle diseguaglianze dello sviluppo capitalistico e del fardello opportunista della pratica (se non anche - sotto molti aspetti - della teoria) della II Internazionale, l'Internazionale di Lenin pose un'attenzione e un'enfasi particolare sui compiti internazionalisti dei partiti comunisti metropolitani nei confronti del movimento nazionale rivoluzionario. Tanto lo sviluppo della rivoluzione democratico-borghese nei paesi arretrati, quanto la possibilità-necessità di strapparne la direzione alla borghesia ed alla piccola borghesia, come proletariato internazionale, dipendeva - non ci si stancò di ripetere - dal pieno assolvimento nei fatti di questi compiti di solidarietà e di sostegno alla lotta dei popoli oppressi contro l'imperialismo.

Questo piano strategico, che rimane oggi più che mai il piano strategico della rivoluzione proletaria, è stato sfigurato e rovesciato dallo stalinismo. Il processo unitario della rivoluzione internazionale è stato bloccato, spezzato e portato alla disfatta, ricondotto al "centro" come in "periferia" sotto il controllo della borghesia. Né la lotta di classe né la rivoluzione hanno potuto essere cancellate; ma quella è rimasta confinata, nei paesi dominanti, entro i limiti della socialdemocratica (e social-imperialista) redistribuzione dei redditi, e questa, nei paesi dominanti, entro gli angusti confini nazionali.

Anche nel mondo arabo, evidentemente, questo lungo corso degenerativo ha lasciato il segno. All'inizio degli anni '20 il movimento comunista vi si costituì, in condizioni di oggettiva immaturità, principalmente come proiezione estremamente minoritaria, assai poco "indigena" (diverso sarebbe il discorso solo per la Persia e la Turchia) e assai poco… "allineata" alle direttive internazionaliste dell'Esecutivo di Mosca, del proletariato europeo "coloniale", ovvero per iniziativa di nuclei di militanti in larga parte ebrei. C'è dunque una debolezza originaria. Tuttavia non mancò di arrivare anche qui l'eco della rivoluzione d'Ottobre e di agire da "motivo ispiratore" dell'approdo al "comunismo" di piccoli (solo nel caso dell'Etoile Nord-Africaine algerina, significativi) nuclei proletari autoctoni in Egitto, in Siria, in Tunisia, in Iraq. Si era già, però, negli anni della controrivoluzione e di che pasta fosse il "comunismo" stalinista, lo si vede quando in tutti i paesi coloniali sottoposti alla Francia ed alla Gran Bretagna il compito "supremo" della lotta al nazifascismo si tradusse nella consegna di bloccare in questi paesi ad un tempo la lotta contro l'imperialismo e la lotta sociale, degradando le forze "comuniste" locali al ruolo di portatrici d'acqua per le democrazie imperialiste. Il successivo "riscatto" di queste forze, laddove riuscirono a sopravvivere, è avvenuto sulla linea dell'adesione sempre meno condizionata alla causa del nazionalismo borghese, che le ha portate in più di un caso, come logica conseguenza, allo stesso scioglimento formale.

Il quadro non è mutato neppure negli anni del pieno sviluppo del movimento nazionalista arabo. L' "anti-imperialismo" dell'URSS di Breznev non contemplava più neppure, a differenza dello stalinismo dei tempi "eroici", la formazione di partiti "comunisti" nelle ex-colonie e l'"anti-imperialismo" dei partiti europei idem come sopra, salvo ad esercitare sui sempre più inconsistenti partiti "fratelli" una influenza nei fatti occidentalizzante, che li esponeva alla critica del nazionalismo più militante. Né, d'altronde, il proletariato europeo ha dato un effettivo sostegno diretto, in questo secondo dopoguerra, alla rivoluzione democratico-borghese nell'area araba e islamica: al più (e con tanti meno!) le sue lotte hanno dato obiettivamente un certo ossigeno al movimento anti-imperialista, ma quando e dove si è andati oltre la neutralità verso di esso? e che genere di "sostegno" è stato dato, nei casi eccezionali riguardanti di norma le colonie degli altri? Forse un sostegno volto a portare fino in fondo la rivoluzione borghese? Forse un aiuto a liberarsi, come sfruttati, dalla gabbia dei fronti nazionali a egemonia borghese?

Non può sorprendere, perciò, che tuttora la ribellione degli sfruttati arabi alla dominazione imperialista si coaguli intorno agli Hussein. Attenzione, però: quale Hussein? Come le borghesie dei paesi dominati in genere, anche S. Hussein ed il suo Baath hanno più facce: di volta in volta "rivoluzionaria" o accomodante verso l'imperialismo, oppressiva verso le minoranze nazionali, sempre - soprattutto - reazionaria verso il socialismo. Quale di questi Hussein ha infiammato gli animi della piazza araba e ultra, dalla Mauritania addirittura fino al Bangladesh? Quello del massacro Iran-Iraq? o quello della spietata persecuzione (in perfetta continuità con il colonialismo inglese sotto questo aspetto) contro i militanti del PKI? o quello della politica di deportazione forzata e di sterminio della popolazione curda? Non ci risulta. Ha infiammato gli animi dei diseredati e degli sfruttati arabo-islamici qualcosa di molto diverso: un atto di sfida all'imperialismo e poi l'appello alla "jihad" contro l'imperialismo. È questo, non altro, la cancellazione di uno "stato" al soldo dell'imperialismo, che ha portato a danzare di gioia per le strade finanche i poveri di Teheran.

Constatare questo e, anche, dare atto a Hussein di una certa audacia e abilità, non muta in nulla il nostro giudizio sulle borghesie "rivoluzionarie" e su di lui. Come tutti gli altri esponenti della borghesia nazionale araba, Hussein non potrà dare consequenzialità ai suoi proclami (e già oggi non la dà), perché una "jihad" anti-imperialista che fosse realmente condotta sino in fondo avrebbe un effetto talmente dirompente sia nell'Islam che nelle metropoli da mettere in questione la stabilità dell'intero sistema capitalistico, e perciò anche di quella "nazione araba", di quel capitalismo arabo di cui Hussein è espressione e "difensore". E allora? Allora, ciò che a noi interessa è che l'Iraq di S. Hussein sia stata costretta dalla esplosività della situazione medio-orientale, a sollevare problemi che toccano e riguardano direttamente la sterminata massa degli sfruttati arabo-islamici e che questa, ulteriormente sollecitata dallo scontro in atto, abbia iniziato a mettersi in movimento nel senso di una vera guerra contro l'imperialismo, ciò che le apre la strada alla comprensione nei fatti della propria forza e dei propri antagonistici interessi di classe.

Ma l' "anti-imperialismo" borghese non può essere conseguente

È innanzitutto proprio l'estensione e la radicalizzazione della lotta all'imperialismo ed alle forze di classe feudali e borghesi ad esso sottoposte in Medio Oriente (due lotte in una) che consentirà al proletariato e al semi-proletariato arabo di sbarazzarsi anche dei S. Hussein e della loro necessaria inconseguenza, che potrebbe divenire anche, nell'ipotesi di estrema precipitazione dello scontro di classe, contrapposizione frontale al movimento rivoluzionario. L'"anti-imperialismo" borghese è regolarmente sospinto verso la mediazione, la conciliazione, il cedimento all'imperialismo nella misura in cui ciò possa sembrare garantirgli un proprio spazio di autonomia (in subordine) e verso il contrapposto irrigidimento contro le "esagerazioni" delle masse sfruttate. Lo si osservò già a proposito del khomeinismo: un Khomeini poté proclamare la lotta rivoluzionaria di "tutto il mondo islamico" contro il Grande Satana, ma, alla prova dei fatti, non poté dare concreto seguito ad essa se non entro determinati limiti che fungessero da preservativo contro una reale mobilitazione universale delle masse (e questo già a partire dall'interno stesso dell'Iran). Non lo ha potuto in primo luogo perché, per la sua struttura sociale, il khomeinismo non crede in questa possibilità; in secondo luogo, perché, ove tale mobilitazione si desse spontaneamente, verrebbe a minacciare direttamente le basi del proprio potere, incompatibile con la rottura reale delle gabbie della nazione, dello stato, e cioè degli apparati tipici del dominio borghese (per quanto " anti-imperialista"). L"`anti-imperialismo" di S. Hussein è fatto della medesima pasta.

Del resto non è già evidente la non consequenzialità di esso rispetto alla sua stessa proclamazione di "jihad"?

Se - nei limiti degli elementi di conoscenza a nostra disposizione - facciamo una prima verifica sul tema centrale dell'organizzazione delle masse sfruttate per la guerra all'imperialismo, risulta evidente che l'Iraq di S. Hussein non adotta affatto, già entro il proprio perimetro, l'armamento generale delle masse sfruttate. Questo non avviene neppure in Kuweit, tant'è che la stessa propaganda occidentale ha lasciato cadere l'accusa all'Iraq di armare la numerosa "comunità palestinese" del Kuweit, che aveva formulato in un primo momento. No, l'Iraq di Hussein, nonostante le sue proclamazioni, non sta mettendo in piedi una vera milizia generale degli sfruttati, l'unica che sarebbe in grado di far pesare tutto l'enorme potenziale rivoluzionario degli oppressi arabo-islamici e che costituirebbe "localmente", a Kuwait City, la più sicura misura di prevenzione contro il ritorno della dinastia dei Sabah anche nel caso di ritiro delle truppe irachene o di momentanea sconfitta militare.

È assai indicativo, del resto, che il cosiddetto arruolamento di volontari al di fuori dell'Iraq, sia stato frenato già dal momento in cui veniva lanciato. In Giordania, in Palestina e nello Yemen, e poi anche, con minore forza, in Algeria e in Libia, c'è stata una immediata, spesso entusiastica, risposta di massa all'appello iracheno. Nella Giordania in particolare si sono ritrovati uniti nei fatti giordani (di origine beduina) e palestinesi, insieme con egiziani ecc., un reale primo embrione di unità nella guerra all'imperialismo di tutti gli sfruttati arabi al di là d rovinose (per loro) divisioni e rivalità del passato. Ma l'"arruola-mento" è consistito soltanto - e non certo per scarsa disponibilità delle masse - nel mettersi a disposizione del Comando dell'esercito iracheno in caso di necessità, nel mettere una firma ed aspettare ordini dall'alto. Il governo iracheno non ha certo premuto per l'effettiva organizzazione di comitati dei volontari, né per il loro armamento e l'armamento popolare nei paesi alleati, né tanto meno per la creazione di una effettiva armata popolare unitaria araba. Classico: da un lato la borghesia nazionale proclama la "jihad" dei paesi oppressi contro l'imperialismo, dall'altro va alla guerra cercando sì di capitalizzare a pro della "nazione" l'odio anti-imperialista degli sfruttati, ma mantenendo intatti e addirittura potenziando (per premunirsi proprio contro gli sfruttati) gli apparati di polizia, l'esercito permanente, la burocrazia, la macchina dell'oppressione borghese.

L' "anti-imperialismo" iracheno mostra la medesima contraddittorietà di fondo sulla questione dell'affratellamento tra i popoli dell'area. Basta un duplice test. Primo: la questione dei curdi, oppressi congiuntamente da tutti gli stati borghesi dell'area (Turchia, Iran, Iraq e Siria), che viene lasciata interamente negletta, o che, peggio, conosce un nuovo inasprimento, una linea che favorisce la divisione e non già l'unificazione delle masse del Medio Oriente. Secondo: la questione degli immigrati egiziani in Iraq e nel Kuweit. Il loro ritorno in Egitto non è certo (del tutto, almeno) spontaneo. Vi sta concorrendo l'intenzione politica di Baghdad di complicare la vita al regime di Mubarak, ma il conseguimento di questo obiettivo non sta passando per la mobilitazione dei proletari egiziani, bensì attraverso una politica che rischia di attizzarne il risentimento verso l'Iraq ed offre buone armi allo schieramento imperialista ed allo stesso Mubarak per ostacolare la saldatura degli oppressi in un solo fronte.

Né è mutata di una virgola, ché anzi (si è letto di un nuovo giro di vite dopo l'annessione del Kuweit, sugli oppositori "di sinistra"), la condizione del proletariato e delle masse in Iraq per quel che riguarda la loro libertà di organizzazione e di azione. Era inesistente prima della crisi del Golfo, e tale è rimasta dopo. Una buona "amministrazione" della lotta all'imperialismo condotta sino in fondo esigerebbe il controllo proletario e "popolare" sulla produzione e sulla distribuzione. Le masse irachene avevano chiaramente segnalato questa necessità con la "rivolta delle uova" dell'autunno '88, quando esplose un moto di protesta contro l'aumento speculativo dei prezzi alimentari in seguito all'allentamento del controllo statale sul commercio imposto dal capitale imperialista. Ma l' "unità della nazione" è in contrasto con l'estensione della lotta di classe contro i ceti mercantili borghesi, e così anche questo aspetto è stato avocato dallo stato (borghese) attraverso l'inasprimento delle pene sugli speculatori. Che gli sfruttati se ne stiano buoni a casa loro!

L'unica reale prospettiva di liberazione

Al contrario, perché possa esserci una risposta vincente degli oppressi del Medio Oriente all'aggressione imperialista, è necessario anzitutto che il proletariato e le masse sfruttate prendano nelle proprie mani la "guerra santa" contro gli USA e l'Occidente, la estendano e la portino fino in fondo. La realizzazione di questo processo dipende dalla completa rivitalizzazione del proletariato e degli oppressi e questa, a sua volta, passa per la conquista della piena libertà di azione e di organizzazione, per l'effettiva unione nella lotta di tutte le popolazioni del mondo arabo-islamico al di là di qualsiasi vincolo nazionale e statuale, per l'effettivo armamento generale degli sfruttati e per la centralizzazione delle loro forze in un unico esercito popolare senza nessuna delega agli eserciti regolari, per la messa sotto controllo - da parte della massa proletaria e semi-proletaria - di tutti gli aspetti della vita sociale. È solo dall'interno di questa estensione e radicalizzazione in senso sovietico del movimento di lotta contro l'imperialismo che gli sfruttati medio-orientali potranno conquistare la propria autonomia rompendo i freni borghesi che tuttora li impacciano.

La possibilità-necessità che una simile prospettiva diventi reale sta, ancora una volta, nell'antagonismo oggettivo che contrappone in modo inconciliabile le esigenze vitali degli oppressi della periferia e gli "interessi vitali" del capitale imperialista. Non è l'appello di questo o quel capo nazionalista, ma è questo oggettivo antagonismo a dare permanente impulso - fino a quando esisterà la rapina imperialista - alla guerra contro l'Occidente. E a far sì che gli schieramenti di partenza di questo scontro nel Golfo non potranno essere quelli di arrivo.

Il processo rivoluzionario anti-imperialista, benché abbia contenuti certamente borghesi, per la sua dinamica, per le forze sociali che mette in moto, alla "periferia" e al "centro", obiettivamente travalica i suoi limiti di terza. Non perché è evidente, sia in grado di darsi da sé, dal basso", un diverso programma proletario e comunista ed un'organizzazione coerente ad esso; bensì perché il suo sviluppo - per le conseguenze economico-sociali e politiche che produce - postula e materialmente favorisce (nessuna meccanicità: la possibilità di un esito reazionario della lotta è sempre aperta) il salto di qualità in direzione dell'unione con la lotta della classe operaia metropolitana nella prospettiva del socialismo, a condizione - s'intende - che il proletariato dei paesi imperialisti, chiamato in causa, sappia fare la sua parte determinante per quel "felice esito" che da molto attendiamo.

Tutto ciò è particolarmente vero per uno scontro che si svolge su un'arena così vasta e di importanza strategica come quella arabo-islamica e che vede schierata direttamente in campo, a differenza che la crisi di Suez del '56 e le guerre contro Israele, la super-potenza americana alla testa dell'Occidente.

Del resto, non mancano già oggi i segnali di un inizio di percorso in questa direzione. Se pare avviato ormai il disgelo tra Iran e Iraq, non si può credere davvero che in tale cambiamento di scena nulla abbiano contato le esigenze e le aspettative degli oppressi di entrambi i paesi di avviarsi finalmente a superare una contrapposizione fratricida che ha portato acqua solo al mulino dell'imperialismo. Se le masse palestinesi hanno prontamente accolto l'appello alla "jihad", non ci sembra lo si possa ascrivere alle direttive capitolarde della diplomazia di Arafat, che andavano in tutt'altra direzione, e neppure a qualche "fanatica" passione per l'Iraq o il personaggio S. Hussein del bensì alla giustissima intuizione che quell'appello offre all'Intifadah palestinese una prospettiva di estensione e di rafforzamento della lotta. Lo stesso dicasi per le frange più povere dello straziato Libano, ché anzi mai potranno perdonare a Hussein di avere protetto, per interessi di scontro statuale con la Siria la gang di Aoun, la più reazionaria tra quante infestano quel paese. E ancora: cos'altro fa con il suo appello alla Conferenza "pan-araba" di Amman il Comando dell'Intifadah, quando invita i governi arabi non schieratisi contro l'Iraq ad azionare l'arma del boicottaggio petrolifero e quando perentoriamente invita Assad a ritirare le sue truppe dall'Arabia Saudita, se non "intromettersi" nelle questioni "riservate" alla diplomazia e incalzare le direzioni nazionaliste inconseguenti o traditrici?

(E a contrario: rovinoso sarebbe per le popolazioni tirarsi curde fuori da questa mobilitazione – anti-imperialista nella speranza – quante vana e suicida in passato! – di poter ottenere per buoni servigi resi all'Occidente la tanto agognata autodeterminazione. I conti con le borghesie - non è una sola! - che opprimono il popolo curdo non potranno essere fatti realmente se non battendosi a fondo anche ed anzitutto contro l'imperialismo).

Sì, le masse sfruttate debbono prendere nelle proprie mani la guerra contro l'imperialismo, anche per impedire i cedimenti del regime iracheno all'imperialismo e scavare sotto la sua stessa macchina statale, che è una macchina di oppressione sugli sfruttati. Così facendo esse non solo ingaggeranno con le potenze imperialiste una guerra di importanza storica, ma porteranno l'energia rivoluzionaria delle classi sfruttate a colpire a morte i regimi arabi più infeudati al l'imperialismo e suoneranno l'ora della verità per quel nazionalismo arabo più "radicale", in quanto a politica statuale, di cui è stato campione la Siria di Assad (ribattezzato non a caso in questi giorni "Leone a Damasco, coniglio nel deserto").

Sì, più andrà fino in fondo questa "jihad" degli sfruttati arabo-islamici contro l'imperialismo, più l'unica, reale prospettiva di liberazione per tutti gli sfruttati del mondo, quella tracciata a Baku nel 1920, tornerà ad essere vista e compresa per tale.

Ma perché il fronte del proletariato internazionale conosca finalmente delle prime, tangibili, esperienze unitarie, è indispensabile che la "nostra" classe operaia non rimanga in disparte, amorfa, assente, e oggettivamente complice dell'aggressione, ma faccia la sua parte per sé, per i propri compagni di classe in armi nel tutto assente - finora - tra esse, Medio Oriente.