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Spezziamo l'assedio d'Israele e delle potenze capitalistiche d'Occidente alle masse lavoratrici palestinesi e libanesi!
Per i governi occidentali e la stampa ufficiale Israele ha subìto un’inaccettabile aggressione dai palestinesi e dagli Hezbollah e la colpa di Tel Aviv nei bombardamenti su Gaza e sul Libano è, al più, di aver reagito con una risposta sproporzionata. Ora, è un fatto che l’origine immediata degli scontri militari che stanno infiammando la Palestina e il Libano sia connessa alle due azioni che hanno portato al rapimento dei militari israeliani. Ma come valutare queste azioni? Perché sono state organizzate? Questo è il punto da analizzare, se non si vuole restare irretiti per l’ennesima volta, come lavoratori occidentali, come attivisti “no war”, come comunisti, nelle maglie della politica delle potenze capitalistiche occidentali, anche di quella italiana che ora cerca di rivestire i suoi interessi di rapina nell’area mediorientale sotto la bandiera dell’umanitarismo super partes.
Un embargo assassino sostenuto anche dal governo Prodi-D’Alema
La prima azione militare è stata compiuta da un commando palestinese il 25 giugno. Essa è stata la sacrosanta risposta ad un assedio che da mesi stava soffocando Gaza. L’assedio era stato avviato da Israele, dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea con l’embargo imposto dopo la vittoria elettorale di Hamas. A maggio l’embargo stava portando, nel silenzio generale della stampa ufficiale, alla semi-paralisi delle attività economiche, dei rifornimenti alimentari e degli ospedali palestinesi. Un documento della Fao afferma che il consumo di cibo era crollato in maggio del 30%, che molte famiglie mangiavano una volta al giorno (l’Unità, 3 giugno). Già il 12 maggio, in un suo documento, la sezione israeliana dell’organizzazione “Medici per i diritti umani” denunciava che gli ospedali erano stati costretti a sospendere i trattamenti chemioterapici e molte cure urologiche, e che molti medicinali di base erano quasi esauriti (La Repubblica, 13 maggio). L’embargo era, inoltre, scandito dai bombardamenti israeliani, quasi quotidiani, contro esponenti dei gruppi della resistenza palestinese e contro la popolazione palestinese. Come denunciamo nell’articolo pubblicato nel n. 66 del “che fare”, per Israele e per le potenze occidentali la colpa dei palestinesi era ed è quella di non aver voluto accettare il destino di apartheid e di espulsione strisciante a cui li avrebbe portati la politica della direzione dell’Anp e dell’Olp, la politica incarnata nel presidente Abu Mazen. Nel gennaio scorso la massa del popolo palestinese aveva espresso il rifiuto di questo destino anche con la vittoria elettorale riservata alla formazione politica, Hamas, che negli ultimi anni aveva cercato di far argine alla deriva della direzione dell’Olp. È questa volontà che Israele e le potenze occidentali hanno mirato a spezzare. Anche il governo Prodi ha subito fatto la sua parte. Il neo-ministro degli esteri D’Alema ha affermato che il governo palestinese nato dalle elezioni di gennaio è una “regressione inaccettabile” rispetto alla politica di Abu Mazen. È vero che l’Ue, anche per la sollecitazione italiana, ha poi sbloccato parzialmente gli aiuti ai palestinesi, ma li ha assegnati al presidente Abu Mazen con l’obiettivo dichiarato di delegittimare il governo palestinese e di far imboccare alla resistenza dei palestinesi il dirupo della dinamica algerina. Nostre illazioni? Il 28 maggio, alla fine del vertice diplomatico di Vienna, D’Alema ha dichiarato: “Non aiutare i palestinesi sarebbe ingiusto. Rischieremmo una radicalizzazione e una destabilizzazione della situazione” (La Repubblica, 29 maggio). Per il neo-ministro di “sinistra” D’Alema, come per l’ex-ministro di destra Fini, il nuovo governo palestinese è, quindi, “inaccettabile”. Perché? Perché, forse, nelle elezioni da cui è uscito vincitore ci sono stati imbrogli elettorali? Perché le elezioni non sono state precedute da un’animata e partecipata campagna elettorale? Perché non sono state rispettate le regole della democrazia? Oh no, non è per questo. Se fosse per questo, D’Alema e il governo Prodi avrebbero dovuto affermare che non sono “accettabili” né il governo iracheno né quello afghano e avrebbero, invece, dovuto sostenere pienamente quello palestinese. La valutazione del governo Prodi è invece opposta. Ed in linea di continuità con quella del governo Berlusconi. È vero, ad esempio, che il governo Prodi ha deciso il ritiro delle truppe dall’Iraq (come già stabilito d’altronde dal governo Berlusconi), ma ha condiviso e condivide la sostanza della politica berlusconiana in Iraq: a Baghdad è nata una giovane democrazia, ha detto D’Alema, da appoggiare sul piano economico e sul piano dell’addestramento delle forze di polizia, da sostenere contro la resistenza popolare (di matrice baathista e islamica) che lo vuole cacciare insieme ai padroni neo-colonialisti del regime fantoccio di Baghdad, insieme alla politica di svendita delle risorse petrolifere nazionali operata da quest’ultimo, insieme alle azioni degli squadroni della morte organizzate dal governo di Baghdad e dalle forze occidentali per scatenare lo scontro tra la componente sunnita e quella sciita della popolazione. Un discorso analogo viene fatto dal governo Prodi sull’Afghanistan: cosa rappresenti il governo Karzai e quanto sia “amato” dalla popolazione, insieme ai suoi padroni occidentali, lo ha raccontato in una lettera all’Unità G. Strada. Il governo palestinese, invece, è per Prodi e D’Alema “inaccettabile”, anche qui come affermato dal governo Berlusconi... Evidentemente, i governi nati dalle elezioni democratiche vanno bene quando sono servitori degli interessi imperialisti, non vanno bene quando, in qualche modo, vi si oppongono. Evidentemente, non è attraverso la democrazia che i popoli oppressi e gli sfruttati nel Medioriente possono portare avanti il loro riscatto nazionale e sociale... L’esperienza di questi ultimi mesi sta mostrando quanto sia attuale la tesi del comunismo rivoluzionario secondo cui il sistema di potere richiesto dalla lotta antimperialista e dalla piena partecipazione dei lavoratori a questa lotta è quello sovietico.
I palestinesi e la resistenza antimperialista nel mondo arabo-islamico
L’azione dei gruppi armati palestinesi del 25 giugno ha mirato a spezzare l’assedio economico, militare e ideologico stabilito contro il popolo palestinese e la sua lotta, a non permettere che la demoralizzazione prendesse piede tra la gente di Gaza e della Cisgiordania, ad impedire che, in questo scoramento, la gente si illudesse di trovare una via d’uscita nel “documento dei detenuti”, una proposta che porta (al di là delle intenzioni) a irretire la resistenza palestinese, laica e islamica, nelle maglie della politica di Abu Mazen, non a caso fermo sostenitore di tale documento. Cosa avrebbe fatto un lavoratore italiano se fosse stato al posto dei palestinesi di Gaza e della Cisgiordania? Avrebbe continuato a subire? Avrebbe accettato di essere rinchiuso nei bantustan previsti dagli accordi di Oslo? Avrebbe accettato in silenzio il muro in costruzione in Cisgiordania che porta all’annessione dell’80% delle terre coltivabili della Cisgiordania? I palestinesi giustamente hanno detto no a tutto questo. E lo hanno fatto con un’azione congiunta dei gruppi laici e islamici della resistenza con la quale essi hanno voluto parlare anche alla popolazione ebrea di Israele, invitandola a prendere le distanze dalla politica dei propri capi e a prendere atto che quest’ultima non potrà mai garantire la sicurezza promessa agli ebrei d’Israele (dall’Unità on line, 12 luglio). In seguito a quest’azione, che ha mostrato cosa può fare l’eroismo di un popolo in lotta contro una delle più avanzate macchine da guerra del mondo, due guerriglieri sono rimasti uccisi. “Nell’apprendere dell’uccisione di uno di questi miliziani, la madre ha distribuito dolciumi a quanti venivano a porgerle le condoglianze, aggiungendo di essere disposta ad immolare la sua intera famiglia per la causa palestinese” (l’Unità, 26 giugno). Cosa sta ad indicare questo, che i palestinesi non hanno più sentimenti materni? O piuttosto la raggiunta consapevolezza da parte loro che un futuro per i bambini palestinesi può arrivare solo dalla lotta di resistenza, anche armata, contro Israele? Dopo l’azione delle guerriglia palestinese del 25 giugno, Israele ha intensificato i suoi raids militari su Gaza ed è giunta a distruggerne la centrale elettrica con conseguenze terribili per la gestione degli impianti idrici e fognarii della Striscia. Altro che reazione pienamente legittima ma solo sproporzionata! Si è trattato e si tratta dell’intensificazione della guerra di oppressione che Israele aveva condotto in precedenza per conto dei propri interessi borghesi e per conto dell’imperialismo. Si tratta della politica necessaria per terrorizzare le masse lavoratrici e diseredate palestinesi e, attraverso di esse, quelle di tutta l’area. Per Israele e l’imperialismo, infatti, la resistenza palestinese e l’azione militare del 25 giugno fanno cadere sui palestinesi una seconda imperdonabile “colpa”: essere uno dei punti di forza della resistenza che le masse lavoratrici del mondo arabo e musulmano stanno cercando di mettere in campo, come possono, in tutta l’area; essere un esempio per un odio e una rabbia anti-occidentali e anti-israeliani dilaganti in tutto il mondo arabo-islamico. In Iraq, dove la resistenza continua a dare filo da torcere alla truppe occupanti e sta cercando di far argine al tentativo degli Usa e delle potenze europee di fomentare la tripartizione del paese. In Somalia, dove la coalizione delle “Corti Islamiche”, sostenuta dall’appoggio popolare, ha sconfitto i “signori della guerra” al servizio degli Usa e delle potenze europee. In Afghanistan, dove nelle scorse settimane la rivolta popolare contro le truppe occidentali e le forze di Karzai ha mostrato i reali sentimenti della gente comune anche nella capitale Kabul. Negli stessi emirati del petrolio della penisola arabica, dove i lavoratori immigrati dall’Asia hanno dato vita a scioperi e manifestazioni contro le intollerabili condizioni di vita e di lavoro cui sono costretti dall’ordine imperialistico imposto nella regione dall’Occidente capitalistico per saccheggiare l’oro nero ai prezzi richiesti dal buon andamento dei titoli di borsa. Sta qui la questione che continua ad essere elusa nella discussione in corso in questi giorni in ciò che è rimasto in Italia del movimento contro la guerra: cosa si fa davanti alla resistenza (molteplice) degli sfruttati del mondo arabo-musulmano contro l’intervento neo-coloniale occidentale e contro i regimi che lo supportano, quello israeliano e quelli arabi, sunniti e sciiti che siano? La campagna per una vera interruzione del sostegno dell’Italia al regime di Baghdad e a quello di Kabul è destinata a rimanere impotente se non inserisce nel suo programma l’appoggio incondizionato a questa resistenza, se non la vede come un pilastro del movimento “no war”, con cui stringere un rapporto di solidarietà per enucleare, insieme, una coerente politica di lotta all’imperialismo, ai meccanismi che stanno alla base del sottosviluppo, della dipendenza economica, della fame. Nella lettera all’Unità già ricordata, G. Strada sostiene, giustamente, che i cittadini dell’Afghanistan chiedono di “aiutarli a campare e se possibile a campare un po’ meglio e non a stabilizzare il regime di Karzai”: siamo d’accordo, ma come aiutarli a campare un po’ meglio, senza organizzare una lotta contro il meccanismo economico e sociale che li ha scaraventati nell’inferno in cui vivono? Oppure pensiamo che quest’inferno dipenda da tare locali, indipendenti dalla storia del colonialismo e dallo sviluppo del capitalismo occidentale? Davanti alla rappresaglia di Israele e al rifiuto da parte di Tel Aviv dello scambio proposto dai gruppi palestinesi tra il militare rapito e alcuni detenuti palestinesi, scambio approvato da un vasto settore della gente ebrea di Israele, i palestinesi hanno fatto appello alla solidarietà internazionale. Lo stesso presidente ultra-moderato Abu Mazen il 7 luglio è stato costretto ad appellarsi alla comunità internazionale per fermare “l’aggressione di Israele al popolo palestinese di Gaza”, bollata come “un crimine contro l’umanità”.
Chi ha risposto all’appello?
All’appello delle masse oppresse palestinesi hanno risposto soltanto gli Hezbollah libanesi. Con un’azione militare che ha colpito le forze armate israeliane nel confine settentrionale d’Israele. Quella che ne è seguita da parte di Israele non è affatto una risposta sproporzionata. È stata ed è la coerente continuazione della politica che nei mesi scorsi ha portato all’embargo sui palestinesi di Gaza e della Cisgiordania. Politica legittimata e sostenuta anche dal governo italiano, che ora, invece, cerca di presentarsi come disinteressato pompiere estraneo all’incendio mediorientale. Questa politica vuole che la lotta dei palestinesi non si colleghi con quella degli sfruttati di altre zone del mondo musulmano, che questi ultimi non si azzardino ad “interferire” negli affari di Palestina. Israele riceve da tutto il mondo imperialista facilitazioni commerciali, sostegni finanziarii, aiuti militari, bombardieri, Apache, sofisticate tecnologie militari e da ultimo le bombe di profondità anti-bunker? I palestinesi, per l’imperialismo, devono invece rimanere isolati. Isolati gli uni dagli altri dovrebbero rimanere, per i veri terroristi che insanguinano la Terra, i molteplici fuochi della resistenza antimperialista che ardono in tutto il mondo musulmano. Israele e le potenze imperialiste vogliono evitare ogni passo verso l’affratellamento degli sfruttati mediorientali, perché sanno che ciò moltiplicherebbe la forza della loro lotta e, soprattutto, favorirebbe l’emersione di un’organizzazione e di un programma di lotta coerentemente antimperialisti, oltre i limiti delle attuali direzioni (laiche e islamiche), oltre il corsetto delle politiche stataliste delle borghesie dell’area non sottomesse all’imperialismo. Che senso ha, ad esempio, la politica della direzione di Hamas di limitare entro i confini della Palestina la lotta contro Israele? Questa lotta, come l’oppressione contro cui essa è diretta, non sono parte di uno scontro internazionale? In questa lotta, Israele non è parte di un sistema di potere internazionale? Anche la politica degli Hezbollah è tutt’altro che coerente con un indirizzo antimperialista. È, ad esempio, legata alle ragioni statuali dell’Iran, il quale, pur nel mirino dell’imperialismo, continua a sostenere il governo di Baghdad, cioè uno dei regimi con cui l’ordine imperialista vuole imporsi sugli sfruttati dell’area e sugli stessi stati borghesi, come quello di Teheran, non succubi alle politiche dell’euro-dollaro. L’attacco israeliano al Libano, la determinazione di Israele e delle potenze occidentali (Italia compresa) a sciogliere i gruppi armati degli Hezbollah servono anche (come l’invasione dell’Iraq nel 2003) a preparare l’aggressione diretta all’Iran: come si può tuonare, come fa la classe dirigente iraniana, contro le azioni terroristiche d’Israele in Libano e a Gaza e poi sostenere il governo di Baghdad? Come abbiamo osservato più volte (v. ad esempio gli articoli pubblicati nel 19, nel n. 32, nel n. 56, nel n. 59 e nel n. 65 del “che fare”), questi “limiti” della politica della direzione di Hamas, della direzione degli Hezbollah e del governo di Teheran trovano la loro origine in una impostazione interclassista e riformista, e dunque illusoria, dell’analisi della dominazione imperialista e della lotta contro di essa. Ma se la resistenza antimperialista in Medioriente non riesce, al momento, a dotarsi di un indirizzo politico più avanzato, questo accade fondamentalmente per un motivo: perché i lavoratori occidentali, davanti all’aggressione neo-coloniale del mondo musulmano, davanti alla guerra di sterminio di Israele, stanno rimanendo in silenzio; perché essi, in Italia, guardano con favore alla politica del governo Prodi, il quale sta cercando di smarcarsi dalla stretta sintonia con Washington stabilita dal governo Berlusconi solo per contrattare, insieme con le altre potenze europee, una maggiore quota del bottino neo-coloniale in Medioriente; perché le truppe d’occupazione occidentali continuano, tanto più con la proposta forza di pace multinazionale da schierare in Libano e in Palestina, a stabilire una cappa di piombo ben attenta a impedire i collegamenti politici e la solidarietà fra le varie Intifade mediorientali e a mantenere in piedi i regimi arabi sussequiosi all’ordine dell’euro-dollaro.
Ma quale pace! La pace perseguita dall'Italia e dalle altre potenze imperialiste nella regione mediorientale è la pace fondata sullo schiacciamento della resistenza delle masse lavoratrici e dei popoli oppressi dell’area al saccheggio neo-coloniale del petrolio e della manodopera locale.
La conferenza di Roma di mercoledì prossimo non è affatto una discontinuità nella politica del governo Prodi-D’Alema rispetto a quella del governo Berlusconi-Bossi-Fini. Essa ha l’obiettivo prioritario di isolare e smobilitare la resistenza armata in Palestina e in Libano, di rafforzare i regimi mediorientali infeudati all’imperialismo, di costringere la Siria a seguire l’esempio della Libia, di stringere l’assedio attorno all’Iran affinché ceda ai diktat occidentali. Su questo Roma, Tel Aviv e Washington sono in perfetta sintonia, come ammette lo stesso D’Alema. La “novità” del governo Prodi-D’Alema, rispetto a quello Berlusconi, sta nel tentativo di risollevare la tradizionale politica levantina dell’Italia verso il Medioriente per meglio contrattare, con l’alleato-concorrente Usa, una maggiore fetta del bottino neo-coloniale. In questo tentativo, l’Italia sta cercando di muoversi in cordata con le altre potenze capitalistiche europee, con le quali condivide la preoccupazione che “l’esagerazione” di Israele possa spingere all’affratellamento e alla radicalizzazione degli sfruttati mediorientali oltre gli steccati religiosi e politici odierni. Meglio inviare, quindi, una forza militare gestita in proprio, capace di controllare direttamente la zona e soprattutto di sbarrare la strada alla maturazione politica degli sfruttati e dei diseredati dell’area. Insomma, il modello Kosovo così caro al neo-ministro D’Alema. Non basta più avere le mani in pasta “solo” in Iraq, in Afghanistan, nel Sinai. Occorre tornare in forze anche in Libano e in Palestina, oltre le poche decine di militari Unifil già oggi colà presenti. “L’Italia è tornata a contare nel consesso internazionale”, ha commentato la stampa nazionale: ammesso che sia così, a vantaggio di chi e sulla pelle di chi l’Italia starebbe tornando a svolgere un ruolo di primo piano nella politica del pugno di potenze finanziarie che tengono in mano il mondo? Per rispondere, basterebbe riflettere sulle dichiarazioni del ministro della Difesa Parisi all’Unità... La lotta dei palestinesi, dei popoli e degli sfruttati mediorientali non può attendersi nulla di buono dalla conferenza di Roma e dalla eventuale forza multinazionale sotto l’egida Nato, Ue o Onu inviata in Libano-Palestina. Sia di monito il ruolo svolto dalla forza multinazionale, che comprendeva anche un contingente italiano, inviata in Libano nei primi anni ottanta!
Gli sfruttati italiani e occidentali sono parte in causa dell’inferno mediorientale.
Per i lavoratori occidentali, per i sinceri attivisti “no war”, per i comunisti, il problema non è quello di stabilire se la reazione d’Israele è stata proporzionata o meno. Non è di ripiegare dietro un argine, quello della “riduzione del danno”, che condivide gli assi della politica governativa italiana nello scontro in corso in Medioriente. Il problema è quello di denunciare la natura di classe della politica di Israele e di quella degli avvoltoi imperialisti, i veri piromani dell’incendio mediorientale ora travestiti da pompieri. Di denunciare gli obiettivi neo-coloniali della conferenza di Roma. Di smascherare gli interessi imperialisti che si nascondono dietro l’apparente umanitarismo del governo Prodi-D’Alema. Di sostenere la resistenza dei palestinesi e la solidarietà che essa sta incontrando nelle piazze, non certo nei palazzi governativi, al di fuori dei confini di Gaza e della Cisgiordania. Di dare notizia e sostenere le manifestazioni, per ora poco numerose, degli oppositori della politica di Olmert che si stanno svolgendo in Israele. Di avviare una organizzata e sistematica campagna di denuncia rivolta verso la massa dei lavoratori e dei giovani in Italia in vista di una ripresa della mobilitazione “no-war” e del collegamento di essa con la denuncia e la mobilitazione contro la politica anti-proletaria portata avanti dal governo Prodi-D’Alema sul “fronte interno”. Di spezzare l’indifferenza diffusa tra i lavoratori in Italia e in Occideente verso la condizione e la resistenza antimperialista degli sfruttati mediorientali. In un articolo pubblicato sul manifesto lo scrittore israeliano Itzhak Laor ha denunciato: “In Palestina, la gente vive sotto una crescente paura, povertà e fame, e in condizioni che condannano le prossime generazioni a un futuro di sottosviluppo. Gaza è un enorme ghetto, che ogni giorno viene bombardato da centinaia di razzi. I villaggi della Cisgiordania sono isolati l’uno dall’altro, le città sono sigillate e le autostrade chiuse agli arabi. La stampa italiana si comporta come se fosse sotto la censura di Mussolini quando si parla delle sofferenze dei palestinesi. (...) Devo aggiungere: il silenzio sulla lenta morte della nazione palestinese è parte di una lunga tradizione europea di lasciar morire l’Altro. (...) Questa collaborazione della sinistra europea con la destra israeliana colma un vuoto in Europa e serve alla costruzione di una nuova identità europea. I bambini iracheni e palestinesi sono i nuovi ‘etiopi’.” Questo silenzio dei lavoratori italiani e occidentali è auto-distruttivo, perché è come se essi guardassero con indifferenza l’azione di un martello pneumatico che tira giù i pilastri della propria casa. Perché di questo si tratta. La resistenza in Palestina e in Libano, come quella in Iraq e nel resto del mondo arabo-islamico, a prescindere da chi al momento la dirige, pone un ostacolo reale all’avanzamento delle politiche dettate dal capitale finanziario occidentale in Medioriente e nel mondo intero, politiche rivolte anche contro i lavoratori occidentali. Essa è parte del tentativo dei lavoratori occidentali di difendere le proprie condizioni di vita e di lavoro. Non è possibile erigere un argine efficace su questo terreno “interno” senza prendere una coerente posizione interventista di classe anche su quello internazionale. Ad indicare in modo acuto questa necessità è la situazione dei lavoratori ebrei d’Israele e dei loro figli sotto le armi: ad essi, il governo di Tel Aviv ha promesso che dal sostegno alla guerra contro i palestinesi e contro le masse lavoratrici libanesi, essi avranno da guadagnare sia in termini economici che in termini di sicurezza della loro esistenza. L’azione compiuta dal commando palestinese il 25 giugno e la risposta politica e militare degli Hezbollah stanno mostrando che questa promessa è un inganno, un suicidio. L’interesse dei lavoratori d’Italia, italiani e immigrati, è di spezzare l’assedio alle masse lavoratrici della Palestina e del Libano. E di farlo, innanzitutto, scendendo in lotta contro il governo Prodi affinché tagli gli aiuti economici e finanziarii ad Israele (v. ad esempio la scheda pubblicata da "il manifesto" del 18 luglio 2006) e contro l’invio di un nuovo contingente di guerra in Medioriente.
22 luglio 2006
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Organizzazione Comunista Internazionalista |
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