G. Strada, l’Unità, 18 giugno 2006

Nell’Afghanistan ‘libero e democratico’ gli afghani hanno votato –magari 14 volte come, come l’infermiere che ha vinto la gara ‘io voto più di te’ tra il nostro staff di Kabul- ma hanno anche visto altre cose succedere, spesso per la prima volta, nella loro città e nel loro paese. Il ‘presidente dell’Afghanistan’, risaputo consulente della petrolifera Unocal nonché del Pentagono stesso, ha una ‘guardia presidenziale’ composta da cittadini Usa che lavorano per la DynaCorp, uno dei tanti subcontractors, ditte private che si occupano di ‘sicurezza’ e che pullulano di ex militari e spie ancora in attività. Sempre a Kabul, in cinque anni, gli affitti delle case sono aumentati di oltre dieci volte, la città è tra le più inquinate al mondo, ogni giorno si ammazzano tre bambini, fatti a pezzi dai convogli del nuovo business e da quelli militari (in divisa o no) che hanno la regola di sicurezza (la propria) di non fermarsi in caso si investa qualcuno. Nella capitale sono aumentate enormemente la violenza e la delinquenza comune. È arrivata la prostituzione. Circolano molte droghe pesanti. Si inizia a parlare di Hiv e di rischio Aids. È arrivata anche la medicina a pagamento. Grazie alla World Bank, a Kabul già la settimana dopo la caduta dei Talebani. Medicina privata. In un paese di 25 milioni di abitanti che portano a casa mediamente 10 dollari al mese, in un paese che in oltre trent’anno di guerra ha visto 4 milioni di rifugiati, 2 milioni di morti, oltre un milione di disabili, si sta costruendo –con i ‘soldi degli aiuti’- la medicina a pagamento: chi ha soldi può curarsi (male), gli altri crepino pure. (...)

Non stupisca allora se la maggioranza degli afghani non vede il ritorno al potere dei Talebani come un ‘minaccia’: per molti sarebbe ‘meglio’, per altri è una ‘speranza’, alcuni pregano addirittura perché succeda. Molti non hanno alcuna simpatia per i Talebani, ma giudicano ancora peggio il fatto che il loro paese sia militarmente occupato da stranieri. E l’avversione e l’insofferenza stanno crescendo, fino alla rivolta. I ‘disordini’ del 29 maggio a Kabul non erano manifestazioni ‘talebane’, non c’era alcun agitatore o ‘terrorista’ a sobillare la folla. Non ce n’era bisogno. È bastato loro aver vissuto cinque anni di ‘liberazione’.  (...)

Stupiti o meno che ne restiamo, loro –la maggioranza degli afghani- la pensa così. I militari stranieri, anche i militari italiani, come abbiamo sperimentato, sono considerati forze di occupazione, e sono un bersaglio”.

 

 


Organizzazione Comunista Internazionalista