Per un'analisi comunista del voto di aprile |
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Per un'analisi comunista del voto di aprileIl precedente numero del giornale così esordiva: "Ci stiamo avvicinando a grandi passi aduna riorganizzazione reazionaria ed autoritaria, tanto della società che dello stato. Lo spostamento nel campo degli indirizzi e dei rapporti di forze perseguiti dalla borghesia vi era perfettamente delineato. E, dato per scontato l'ulteriore ritrarsi del riformismo da ogni e qualsiasi accenno di lotta al capitalismo, denunziavamo come obbligato lo sbocco di tale tendenza nella situazione di crisi non congiunturale che il capitalismo internazionale sta attualmente attraversando: il "libero voto popolare" non farà, dicevamo, che confermare e rafforzare questa stessa tendenza. Così è stato. Il voto ha espresso da un lato il crescente consenso di massa della borghesia e della pletora piccolo e medio-borghese (i famosi "ceti medi progressisti" di togliattiana memoria), per il progetto di cui sopra, dall'altro il tentativo del proletariato di rinserrare le proprie fila attorno ai "propri" partiti, senza trovare in essi, però, alcuna sponda reale per la propria riorganizzazione di classe. Nelle pagine che seguono cercheremo di analizzare (alla luce di quanto già scritto nel numero scorso, cui . rimandiamo per una necessaria più ampia analisi d'insieme) i segnali che ci vengono da queste elezioni ed il tipo di risposta del tutto inconcludente, o peggio, con cui i partiti della sinistra "operaio "-borghese si apprestano a farvi fronte. |
Ma, prima di addentrarci nell'argomento, ci è d'obbligo richiamarci a qualche punto di principio sulla questione delle elezioni e del parlamento, pane quotidiano, un tempo, anche dell' "ultimo" dei comunisti ed oggi, a quanto sembra, "arabo" assoluto anche per i "primi" tra i "comunisti" più o meno "rifondati".
Dunque. È dogma per il marxista che in "libere e democratiche" elezioni il vincitore è sempre uno ed uno solo: la borghesia. il voto "popolare" non determina alcuna scelta che non sia relativa al tipo di personale borghese cui consegnare l'ufficio di rappresentanza degli interessi borghesi.
Perché? Per il semplice fatto che la borghesia detiene nelle proprie mani tutte le leve del potere economico su cui si basa ed articola il consenso (fattore extraparlamentare per eccellenza, che, per essere rovesciato, richiede un'azione del pari extraparlamentare).
Ma perché, si potrebbe obiettare, il proletariato non potrebbe conseguire la vittoria attraverso libere elezioni? La domanda è vecchia, e vecchia la nostra risposta. In un istruttivo dialogo con un ipotetico operaio socialdemocratico tedesco, già nel '33 Trotzkij s'incaricava di rispondere come meglio noi non potremmo:
"No, non è possibile. Il capitalismo ha cessato di svilupparsi, e va in putrefazione. li numero degli operai industriali non aumenta più. Una frazione considerevole del proletariato si degrada in una disoccupazione cronica. Questi dati sociali escludono di per sé la possibilità di un qualsiasi sviluppo costante e organico di un partito operaio su base parlamentare. Ma, anche se, contro ogni probabilità, la rappresentanza operaia al parlamento si accrescesse rapida mente, la borghesia consentirebbe un'e spropri azione pacifica? La macchina del potere è interamente nelle sue mani! "
E aggiungeva:
"Nel corso della lotta viene il momento in cui bisogna decidere la questione di sapere chi sarà il padrone del paese: il capitale finanziario o il proletariato? Le dissertazioni sulla nazione e sulla democrazia in generale costituiscono in questo caso la più impudente delle menzogne. ( ) Non si tratta oggi di riforme secondarie, ma della vita o della morte della società borghese. Mai sinora simili questioni sono state risolte con un voto. Chi attualmente fa appello al parlamento o alla Corte suprema di Lipsia (alla Costituzione! n.) inganna gli operai e praticamente aiuta il fascismo".
Chi non ami Trotzkij, vada pure a rileggersi le Tesi sul parlamentarismo dell'Internazionale Comunista del '20 (tredici anni prima!). Si troverà di fronte a staffilate ancora più energiche, se possibile.
Una per tutte: "Nel periodo attuale il Parlamento non può, in nessun caso, essere il teatro di lotte per le riforme, pel miglioramento delle condizioni della classe operaia, come in certi momenti del periodo passato. Il centro di gravità della vita politica è stato INTERAMENTE E DEFINITIVAMENTE SPOSTATO oltre i confini del Parlamento."
Questa lezione è stata bene appresa dalla borghesia, che, se tuttora abbisogna della finzione (rubiamo sempre da Lenin!) di una "rappresentanza popolare, democraticamente eletta", se la predetermina prima ed al di fuori dei giochi elettorali, i quali ultimi si limitano a sancire una "scelta" già fatta.
Questa lezione, invece, non entra né mai potrà entrare nella "coscienza" dei partiti "operai"-borghesi, legati a filo doppio alla conservazione del sistema sociale vigente. Date la loro natura e la loro funzione, essi non possono che limitarsi alla ricerca del "consenso popolare" per una politica interamente ed esclusivamente borghese rincorrendo gli strati borghesi "mediani" e promet tendo ad essi una preservazione ottimale dei privilegi da essi conseguiti sulle spalle del proletariato, mentre a quest'ultimo promettono delle riforme che essi per primi sanno destituire d'ogni possibilità d'attuazione.
Il riformismo tedesco praticamente aiuta il fascismo, tuonava Trotzkij nella Germania dei primi anni '30. Italia '92: non siamo a questa scadenza, ma si può davvero gridare forte che il riformismo aiuta la riorganizzazione reazionaria ed autoritaria in atto attraverso la smobilitazione del fronte di classe da esso operata. Ed è davvero l'ultima fermata?
Se è pura fantasia contrapporre al potere borghese (fondato su basi del tutto extraparlamentari) un contropotere governativo parlamentare senza andare ad intaccare violentemente il potere reale laddove esso sta, lo è anche, allo stesso modo, presupporre una "vera opposizione che resti entro i limiti parlamentari, "legali".
L'unica azione utile a strappare delle posizioni al potere borghese da parte di un'opposizione comunista consiste nel gettare sul piatto il proprio esercito in lotta per spostare gli effettivi rapporti di forza nella società. E tutto questo non ha nulla a che fare con l'obiettivo di raccogliere voti, bensì con quello di unire la classe, che è cosa alquanto diversa e passa per altre strade che non quella della "competizione elettorale".
All'indomani di ogni tornata elettorale, i partiti della sinistra riformista si danno freneticamente al computo dei voti e da esso derivano se si è vinto o perso.
Il marxismo afferma che le vittorie elettorali possono bensì costituire un fatto reale per la borghesia, in quanto attestano che al potere reale da essa detenuto corrisponde la sanzione popolare, per cui l'esercizio del primo sarà oltremodo facilitato dal consenso che esso gode nella "società".
Al contrario, per il proletariato le più "grandi vittorie" elettorali della sinistra saranno sempre foriere di sconfitta. Ogni "governo delle sinistre" riformiste (e ce ne saranno sempre meno ), per il "cretinismo parlamentare" da cui queste ultime sono affette e per il loro ancoraggio al sistema presente quale terreno invalicabile su cui misurarsi, chiamerà inevitabilmente il proletariato a rinunziare alla lotta, a "delegare" le proprie sorti alla sua "rappresentanza istituzionale", disarmandolo di fatto, e allo stesso tempo, per reggersi in sella, sarà prodigo di regali agli altri strati sociali della "cittadinanza" dal cui consenso dipendono le sue sorti parlamentari. E, intanto, il potere reale della borghesia resta intatto ed intangibile.
Sono state proprio certe "grandivittorie" di questotipoad aprire la strada agli sbocchi più reazionari. Il fascismo ed il nazismo sono stati "anticipati" proprio da esse (nel '19 Turati esultava: Mussolini è stato distrutto dalle urne ). Il '48 italiano, iniszio del pluridecennale dominio della DC, è venuto come conseguenza dei precedenti exploit del PCI e del PSI e della loro partecipazione al governo. Il famoso "sorpasso" del PCI sulla DC e la legittimazione del PCI al governo di "unità nazionale" hanno costituito gli antecedenti dell'attuale svolta reazionaria.
Con questo non vogliamo affatto stabilire una sorta di equazione del tipo "tanto peggio (elettoralmente per i riformisti), tanto meglio (per la classe)".
Noi reputiamo, per essere chiari, che nella situazione odierna la relativa tenuta di PDS più PRC abbia rappresentato un meno peggio per il proletariato. Perché? Perché, in una fase assai delicata di indietreggiamento in cui già una semplice operazione difensiva si dimostra assai difficile e nella totale assenza di un punto di riferimento comunista organizzato "pesante", l'aver evitato il tracollo elettorale completo, per un proletariato imbevuto sino all'osso della superstizione democratico-parlamentare, può suonare come motivo d'incoraggiamento verso la ripresa delle lotte e la riorganizzazione delle proprie forze. Una disfatta elettorale avrebbe gettato altra acqua sui pochi tizzoni accesi.
Ovviamente, quando diciamo ciò, ci guardiamo bene dallo stabilire un nesso causa-effetto tra i due ordini di fattori. Se e quando la lotta ripartirà decisa, essa dovrà scontrarsi col pompieraggio riformista, già all'opera per risalire la china elettorale a danno di essa nell'inseguimento dei famosi "ceti medi" perduti per strada. L'importante è che a questo scontro si arrivi dopo aver riorganizzato e saggiato quanto necessario le proprie forze. Se il nostro obiettivo è bastonare il riformismo, dev'essere chiaro che poniamo quale presupposto utile che a farlo siamo noi, sia la classe in azione, in lotta contro il capitale ed il capitalismo.
E, naturalmente, quanto sopra non significa affatto che noi c'inscriviamo nella lista dei "menopeggioristi": il nostro compito di militanti rivoluzionari organizzati non è mai quello di stare alla coda della situazione assecondando lo stato di debolezza della classe; senza mai staccarsi da quest'ultima. E' invece quello di saper indicare ad essa l'anello cui aggrapparsi per risalire la china.
Il volantone da noi nazionalmente diffuso sul tema elezioni, e che alleghiamo a questo numero del giornale, risponde a questo insieme di esigenze. Il problema "elettorale" fondamentale era e resta quello che lì indicavamo: non sacrificare la lotta alla mobilitazione acchiappavoti, ma rafforzarla ed estenderla; non lasciare che si piantino dei cunei divisori nella classe sulla base della diversa collocazione di partito nella competizione elettorale; dar vita, al contrario, al massimo di momenti di incontro, discussione, organizzazione unitari tra tutti i reparti (tuttora deboli e dispersi) disposti alla lotta; non dividersi per sigle sindacali separate ed incomunicanti, anche ammettendo noi che, in certe condizioni, ci si possa ORGANIZZATIVAMENTE trovare separati (per unirsi!); da qui riprendere il filo della necessaria ridefinizione teorico-programmatica e politico-organizzativa del movimento di classe. Il che significa anche: porsi dinanzi agli episodi di lotta di classe negli altri paesi nell'ottica di una ritessitura internazionalista tra le diverse sezioni nazionali del proletariato.
Noi, da "astensionisti " (nel senso che non siamo in alcun modo, né diretto né indiretto entrati nel gioco della competizione elettorale), non abbiamo neppure condotto campagne per l'astensionismo. Mantenendoci integralmente sulle nostre posizioni, siamo intervenuti nel momento elettorale per favorire lo sviluppo dei primi elementi di fronte unitari classe, i cui coefficienti attuali sono oggi discriminati dalla scelta "astensione" o "partecipazione", ma, nella massa, agiscono trasversalmente alla diversa collocazione partiti protesi alla contesa elettorale od ai margini di essi.
Ricordiamo, di passata, che mai scelta è stata tra "astensionismo" e "partecipazionismo", ma tra preparazione elettorale o preparazione rivoluzionaria. La questione dell'astensionismo, quando storicamente si è potuta porre, è sempre stata questione tattica, sulla cui valenza positiva o meno si è potuto discutere nell'Internazionale Comunista rispetto a quella del parlamentarismo rivoluzionario solo a partire da un concorde riferimento al principio antiparlamentare, rivoluzionario, della dittatura del proletariato.
A questo principio noi restiamo, fedeli.