Sciogliersi dal riformismo è per la classe operaia, ad un tempo, il risultato del suo deciso rimettersi in moto e la premessa necessaria a dare ad esso corpo.
Per una somma di motivi storici, di carattere non solo locale, il movimento operaio itali ano ha avuto nel PCI il partito riformista a rappresentarlo, senza che potesse mai sensibilmente insidiarlo un'organizzazione comunista degna di questo nome. Un partito che, da parte sua, è rimasto per decenni lontano da un'immediata omologazione ai modelli di partito "operaio" di tipo socialdemocratico. Un partito di massa, il PCI, egemone in un proletariato estremamente combattivo e nondimeno ben provvisto del "senso dello Stato" e delle esigenze del capitalismo nazionale.
Quest'anomalia apparente, legata alle vicende internazionali di classe col trionfo dello stalinismo nel movimento Il comunista", doveva prima o poi venire al dunque. Il "meraviglioso '89" (fine del "comunismo", trionfo del Il nuovo ordine mondiale" imperialista) ne ha determinato gli esiti attuali. Non è davvero più possibile, per il riformismo, tenere assieme la propria vocazione di buon amministratore del capitalismo ed una vana demagogia di "trasformazione socialista della società". Se la classe operaia, costituente la base sociale dei partiti "operai"-borghesi è chiamata a "farsi stato", ciò non può significare, oggi, che proporre ad essa un programma coerentemente "social-imperialista" di "blocco sociale" interclassista al servizio di una Il migliore" gestione del capitalismo ("giusti sacrifici" compresi). Al termine del cielo, italiano ed internazionale, di espansione susseguente alla seconda guerra mondiale, è venuto il momento del redde rationem: l'anomalia scompare, si evidenzia in piena luce la natura del riformismo metropolitano in quanto "agente della politica imperialista in seno alla classe".
La "svolta" che ha portato dal PCI al PDS sta tutta qui. L'anomalia della fase precedente, se considerata non dal lato delle forme di manifestazione del riformismo, ma da quello della risposta di classe, continua a produrre degli effetti. Primo: la presenza di un consistente rifiuto della "svolta", tradottosi nella rottura di "Rifondazione". Secondo: il mantenersi su posizioni di battaglia di vasti strati di proletariato che aderiscono al PDS, delegando sì ad esso il compito di "ammodernare" il partito, ma senza essere disposti a sacrificare sull'altare di questa pretesa "modernità" i propri specifici interessi di classe, sempre più minacciati dappresso dalla nuova (e questa sì modernissima!) offensiva borghese.
Anzi. Per un'altra sorta di anomalia, anche questa solo apparente, il PDS è dovuto andare a queste elezioni poggiando forse più che in passato su una base sociale nettamente segnata dalla presenza operaia, e da una presenza operaia che esige di essere adeguatamente rappresentata nei propri interessi di classe dal proprio partito. E tutto questo precisamente nel momento in cui si sono gettati alle ortiche tutti i falsi orpelli "comunisti" del passato! Occhetto ha risposto a quest'esigenza nel classico stile berlingueriano: un occhio rivolto alle "supreme" esigenze di uno stato e di un'economia capitalisti in crisi, l'altro alle "sacrosante esigenze" della massa lavoratrice salariata. Due cose non amalgamabili tra loro, lo sappiamo perfettamente; ma intanto vuol dire qualcosa, se ci riferiamo alla classe, che un partito ideologicamente già "oltre" non solo il comunismo ma la stessa socialdemocrazia classica, e che sempre più esplicitamente si richiama ad un puro liberal-democratismo, abbia dovuto -e proprio per preservare la sua funzione!- porsi su questo terreno.
Per capirci qualcosa conviene fare un passettino indietro.
Nel'76 il "grande partito di Berlinguer" (gli Occhetto e i Garavini sotto braccio) faceva il pieno elettorale lanciandosi verso lo "storico sorpasso" sulla DC. Di che voti si trattava? Oltre che quelli operai, come sempre, di voti piccolo e medio-borghesi consci delle storture provocate dal meccanismo di funzionamento del sistema dalla pratica di governo della DC, e disposti a credere alle promesse berlingueriane di conciliare risanamento ed ordine sociale.
Questo innaturale blocco tra proletariato e ceti borghesi si fondava sul presupposto di una pronta riattivizzazione del ciclo economico in grado di offrire "a tutti" (al modesto prezzo di una ripulitura delle stalle governative e di sensati sacrifici transitori) degli utili da redistribuire.
Le attese per cui i ceti borghesi "progressisti" si rivolgevano allora al PCI sono fondamentalmente le stesse per cui essi si volgono oggi a destra (verso le Leghe, il PRI, i vari Segni ). Ordine e benessere (per sé). Con la differenziucola che oggi, nel profondo della crisi, queste parole d'ordine s'intrecciano inequivocabilmente con la necessità di un'aggressione frontale contro il proletariato. La marcia di Arisio e l'episodio del referendum sulla scala mobile sono stati i primi tangibili segni del cambiamento d'umore degli strati borghesi intermedi, di cui la "libera scelta" elettorale attuale rischia di essere una conseguenza ancor, tutto sommato, moderata.
Sin dai tempi del "compromesso storico" noi diagnosticavamo che il futuro non sarebbe stato un progressivo sviluppo dell'interclassismo a guida riformista PCI, ma di una polarizzazione (oggettiva prima, anche soggettiva poi) degli antagonisti campi di classe.
Voleva questo dire che il PCI avrebbe recuperato la sua "anima proletaria"? Niente affatto. Significava due altre cose, diverse -ma collegate tra loro: spazi sempre più stretti per il riformismo "operaio", bloccato nella sua corsa verso l'omologazione (per la contemporanea impossibilità di abbandonare il proprio referente di classe e di recuperare insieme i consensi borghesi in fuga), e la necessità per il proletariato di spezzare l'ipoteca riformista. (incapace di organizzare anche solo una ordinata difesa contro gli effetti a cascata del capitalismo in crisi).
L'episodio elettorale di questo '92, se rapportato a questo dato di fondo, si colloca a metà strada tra una fase già bruciata in cui ancora poteva presentarsi come credibile un'ipotesi berlingueriana, ed una fase in cui il proletariato dovrà porsi sino in fondo il problema della propria "costituzione in classe, e quindi in partito politico". L'apparizione del PRC è un sintomo di questa seconda fase, così come lo è la "movimentazione" che si sta registrando alla base operaia del PDS. Né la prima (con la sua passati sta rivendicazione di rappresentare il "vero riformismo tradito dal PDS"), né la seconda (col suo sforzo inane di riorientare in senso classista il PDS) sono in grado di offrire una soluzione al problema sul tappeto. Nondimeno ci dicono in che senso va orientandosi la classe.
Gli sforzi, incoerenti di Occhetto di vanificare" le attese della propria base operaia, offrendo ad esse un qualche risultato sul piano delle combine parlamentari, potranno accelerare le contraddizioni presenti. Come ? Il PRC spera di poter ricavare da ciò un ulteriore passaggio di schiere operaie alla propria organizzazione. Potrebbe anche darsi, pur se dubitiamo dell'automatismo della cosa. Ma, se anche ciò dovesse verificarsi, il fiammifero passerebbe più direttamente al PRC, cioè al riformismo "estremo", e siamo certi che anche Garavini si brucerebbe le mani