Ammettiamo volentieri che il risultato elettorale del PRC può considerarsi positivo, ed in qualche modo persino inatteso, se rapportato a quello conseguito dal PDS, di cui era scontato il tracollo. Un 6,5 al Senato (che scende al 5,6 alla Camera "grazie" al voto dei giovanissimi) corrisponde ad un 38 e 35% rispettivamente di quanto raccolto dal PDS. Non è pochissimo.
Se si tien conto, in sopraggiunta, dell'assenza di un precedente rodaggio elettorale e di un quadro militante consolidato, nonché dei ridotti fondi a disposizione e del sabotaggio da parte dei mass-media, si può anche essere tentati di credere che "non è che un inizio". In ogni caso, è la testimonianza che esiste un'area di lavoratori salariati irriducibile alle sirene delle Il compatibilità", della "modernità", della "governabilità" e balle varie e che ha inteso esprimere una scelta di classe, una disponibilità alla lotta. E questo è un elemento prezioso che noi per primi (che non abbiamo votato e non esprimiamo alcuna fiducia nel PRC) intendiamo tenere in buon conto.
Sarebbe del tutto fuori luogo, però, identificare sic et simpliciter i voti ottenuti dal PRC con quest'area, del tutto o in parte. A fare quel 5,6% dei voti (prendiamo il dato della Camera come il più significativo) è stato in maniera decisiva qualcos'altro: tralasciando di considerare l'eredità dell'1 % di DP e il pur esistente fattore-errore determinato dal simbolo facsimile "vecchio PCI", noi crediamo che buona parte del risultato si debba attribuire, più che ad una aperta dichiarazione di lotta, ad una aperta dichiarazione di lotta, ad una aspettativa d'opinione molto retrò su una "vera opposizione parlamentare", su una sorta di cauzione a favore di una "vera ricomposizione della sinistra" che non scivoli verso i pessimi lidi del craxismo (senza avventurarsi di un solo millimetro, verso quelli della rivoluzione), insomma su una "vera alternativa di governo alla DC". Questo, d'altronde, è l'orizzonte dichiarato dei dirigenti del PRC.
Uno specchio esemplare di quest'attesa si può trovare nella dichiarazione di voto per il PRC di Cesare Luporini, che "Liberazione" ha sbandierato a mo' di trofeo sulla prima pagina di "Liberazione" del 4 aprile: "Sia chiaro: voterò Rifondazione non per il fatto che sono comunista. Un'area comunista esiste anche nel PDS. ( ) Votandovi penso di sostenere invece una salda opposizione di garanzia, tematicamente articolata, come la cosa più urgente e necessaria, a sinistra. Non una scelta di chiusura, né separatistica", ma una scelta sulle "attese ancora non distrutte di tanta parte vitale della società italiana ( ) non deludere le quali è l'unica opportunità, mi sembra, su cui può ancora avviarsi la ricostituzione di una sinistra non subalterna nel nostro paese".
Ed è quanto monotonamente si pone come fine Garavini all'indomani del voto: contribuire ad una "forza unitaria della sinistra" che comprenda, oltre al PRC, PDS, Verdi e Rete. Una bella forza unitaria parlamentare, riformatrice, capace di riconquistarsi un'egemonia sui "nuovi soggetti" della società (dopo che la classe operaia è stata declassata ad uno dei tanti soggetti di essa). Col seguente corollario: che "non è solo un problema di politiche economiche e sociali. E' soprattutto un problema ideale e morale, a cominciare dalle "grandi questioni ambientali" (!!) (Cfr. "Liberazione", 18 aprile).
Per meglio valutare il senso del voto al PRC giova fare un paragone tra le aree in cui forti si sono manifestate una presenza militante operaia ed una struttura militante del partito e quelle in cui quest'ultimo non era quasi neppur presente.
Il differenziale tra le due serie di dati ci dà in qualche modo la misura del grado reale di presenza in "Rifondazione" di una effettiva spinta di classe. Le due aree presentano in comune un largo spessore di voti d'opinione del tipo sopra indicato, per loro natura labili e, in molti casi, neppure intercettabili dal PRC sul terreno sociale. Da questo spessore si stacca un esile strato orientato con decisione verso una lotta decisa, fuori dai giochetti parlamentari, contro gli effetti almeno del capitalismo. Non lo diciamo affatto per stemperare le "vertigini da successo" dei dirigenti del PRC, ma per considerare da dove si può ripartire per la ricostituzione di quel fronte di classe che a noi interessa, ed è ben altra cosa dagli obiettivi dei Garavini & Co.
All'indomani del voto, e non nei corridoi di Montecitorio, ma nelle fabbriche, sulle piazze, nella società, si apre, per il PRC e per noi, il problema: che fare delle energie raccolte e già saggiate sul campo?
Noi non diciamo, si badi bene!, che allo stato attuale sia ipotizzabile un'offensiva in grande stile. Né diciamo che a ciò si frapponga solo, o principalmente, l'indirizzo politico (che pure denunciamo inequivocamente) dei vertici del PRC. È evidente che oggettivamente ci troviamo in una fase di relativo arretramento e di difensiva del fronte di classe, che sarebbe sciocco non vedere od imputare agli indirizzi del PRC (pur se non tacciamo che a ciò ha soggettivamente portato la pluridecennale Politica controrivoluzionaria del PCI, di cui l'attuale gruppo del PRC è pienamente corresponsabile per il passato e che oggi continua a inscrivere nel suo programma contestandone l'abbandono al PDS).
Più semplicemente, diciamo che c'è modo e modo, nel partire da questa situazione, di dare ad essa un indirizzo. Si può "scegliere" di fare di questo punto di partenza la base di un riavvio della ricomposizione rivoluzionaria del fronte di classe in grado di rovesciare gli attuali rapporti di forza tra le classi (questione assai poco parlamentare!). O si può "scegliere" di fame la base di un nuovo progetto riformista volto alla ricomposizione elettoral-parlamentare della sinistra per arrivare infine ad un "governo di alternativa" che diligentemente ponga mano al "risanamento" (morale innanzitutto, mi raccomando!) dell'attuale sistema.
Il PRC ha già definitivamente scelto, secondo la vecchia formula togliattiana, ritoccata in peggio: porre le lotte operaie (di centralità operaia non si osa neppure più parlare) al servizio delle riforme, della democrazia, dello Stato.
Formula controrivoluzionaria sempre, ma che ieri poteva almeno vantare dalla sua dei transitori risultati redistributivi, un welfare state in via di allargamento, mentre chiaramente oggi ciò si dimostra incompatibile con le esigenze della sinistra (vere) del capitalismo in crisi di andare all'assalto di quelle "conquiste". San Berlinguer, uscendo con le ossa rotte dall'esperienza del "compromesso storico", proponeva come programma "un governo senza la DC, un governo di alternativa democratica, formato da uomini onesti e capaci dei vari partiti o anche al di fuori dei partiti". "Rifondazione" non sa dire oggi nulla di diverso. Quando è il caso, essa stessa si premura di riconoscere che la situazione (del capitalismo) è realmente difficile e che di ulteriori sacrifici, purché giusti, ci sarà pur bisogno (per salvarlo), purché redistribuiti con "onestà" e "competenza".
La sinistra, si sa, deve dimostrare "capacità di governo". I comunisti veri dovrebbero saper dimostrare la capacità di rovesciare questo sistema con tutti i suoi possibili governi. A rendere impossibili nuove riforme non è una data forma di governo e neppure l'incapacità di essa di "fare uscire il paese dalla crisi". È l'esistenza stessa del capitalismo di cui la crisi, coi suoi inevitabili contraccolpi sulle classi sfruttate, è un fatto costitutivo insormontabile . Dalla crisi si esce in un solo modo: uscendo dal capitalismo.
Gli stessi lavoratori in lotta per la difesa dell'occupazione, del salario, dello stato sociale, dei diritti sindacali e politici "acquisiti" se ne rendono confusamente conto. Il loro punto di partenza non è mai un gioco di contabilità ("come si potrebbero far riquadrare i conti"), ma la lotta frontale per sé, infischiandosene delle compatibilità e tutto il resto. Ai partiti orerai in cui credono essi chiedono che le loro forze siano organizzare e che ad esse sia indicato uno sbocco. Oggi possono anche illudersi che tale sbocco possa trovarsi in un governo di alternativa, ma, ove sapessero mantenersi su questo terreno di autodifesa, essi entrerebbero in rotta di collisione con qualsiasi "alternativa al governo", così come è accaduto in Francia, in Germania, in Gran Bretagna, ovunque; così come è accaduto nell'Italia del "compromesso storico" e relativa "svolta dell'EUR". Figuriamoci quella del'92 !
Certo, è difficile, estremamente difficile ripartire da una situazione di arretramento e, quando le cose "van bene", di difensiva per riorganizzare il fronte di classe. Su questo punto non c'è materia di discussione. Ciò che ci divide dal PRC non è questa ovvia constatazione. È la sostituzione da parte del PRC del fronte politico della cosiddetta sinistra a quello di classe, la sostituzione della "cultura di governo" e della capacità della classe operaia di farsi stato" al programma eversivo di classe; in una parola: la sostituzione della squallida utopia di un capitalismo rigenerato o magari autosuperantesi dal proprio interno alla prospettiva del socialismo.
Un indice sicuro dell'impasse in cui si dibatte il PRC sta nel fatto che mentre ogni sforzo è (inutilmente) profuso nel tentare di ricucire in alto l'unità della sinistra, esso incontra evidenti difficoltà ad organizzare ed estendere dal basso il fronte unitario dei lavoratori laddove se ne danno i presupposti materiali. Capita così che, proprio mentre si tendono ramoscelli d'olivo a PDS, Verdi e Rete, non solo non si riescano a stringere tra loro sulla base pur delimitata degli interessi immediati i proletari dei vari partiti, o senza partito, che vivono le stesse condizioni di schiavitù e sentono le stesse esigenze, ma neppure ci si proponga tale obiettivo come fondamentale. Così, mentre si insiste sino alla nausea su un "collegamento sui temi concreti" coi vertici dei partiti di cui sopra, il tema dell'unità sindacale viene apertamente scartato ed ogni "frazione" dello stesso PRC va per conto suo: chi in "Essere Sindacato", chi nei COBAS, RdB, FLM-U e via dicendo, con una diffusa tendenza a superare lo scoglio -autentico!- dell'impraticabilità della CGIL "normalizzata" con la fuga verso la creazione di nuovi contenitori separati e magari in concorrenza tra loro.
Lo schema leninista (se ci è concesso richiamarci al "grande vecchio") del fronte unico appare qui completamente rovesciato. Proprio mentre si lavora a mettere insieme le teste che Lenin voleva recise, si accetta che le fondamenta vadano ciascuna per proprio conto.
Sia chiaro anche qui: non intendiamo in alcun modo minimizzare difficoltà oggettive. Diciamo però: se non si riesce o addirittura si rinunzia a stringere in un fronte unitario i lavoratori là dove pulsa la loro vita in quanto classe per minare alla base la nefasta azione "collaborazionista", come voi stessi dite, dell'occhettismo e del trentinismo, per non parlare di altri peggiori ismi, con che faccia tosta potete poi proporre un'unità ai vertici con questi stessi soggetti? Si tratta di una ben strana ingegneria