Per un'analisi comunista del voto di aprile

TRE CAMPANELLI D'ALLARME

Indice


Primo: il successo della Lega Nord

Il dato di novità più evidente di queste elezioni è stato, a giudizio unanime, il vero e proprio trionfo della Lega-Nord. Le percentuali globali a scala nazionale dicono ancora ben poco in merito: se vogliamo considerare appieno il senso ed il valore di questo successo dobbiamo considerare la sua incidenza al nord, e specificamente nelle aree chiave della vita economico-sociale e politica del paese (a Milano la Lega è diventata il primo partito!), la sua capacità di attrazione nei confronti del voto giovanile (proporzionalmente più favorevole ad essa) e persino la sua forza di penetrazione in strati di proletariato lasciato inerme in balia della crisi.

Ma c'è di più: non si tratta, qui, di un semplice "voto di protesta" in provvisoria libera uscita attorno ad una sigla acchiappamosche del tutto inconsistente, bensì di un voto indirizzato ad un movimento organizzato reale, che dispone di un suo programma organico al fondo e di un ordito organizzativo tutt'altro che trascurabile (200.000 iscritti, 400 sedi, 700 punti di recapito), che è stato in grado di mobilitare una data protesta nelle piazze prima e quale condizione per raccoglierne poi i risultati dalle urne.

Sul significato, non occasionale, non transitorio, della Lega ci siamo già diffusi nel precedente numero del giornale, cui rimandiamo. Si tratta di una forza effettiva che si muove nel senso della riorganizzazione centralistico-autoritaria del capitalismo italiano (Nord e Sud assieme) sostenuta da un consenso ed una mobilitazione, per l'appunto, di massa, mirante a scardinare, dall'esterno e dall'interno, il fronte proletario (raccogliendo in ciò i frutti della malapianta riformista).

Anche ammettendo che come forma politica di questa riorganizzazione essa possa lasciare il passo ad altre soluzioni, ciò si darebbe, in assenza di una ripresa offensiva del nostro fronte, solo dono aver seminato e fruttificato a dovere a pro' di questo obiettivo reazionario.

Orbene. Qual è la chiave di lettura che di questo dato viene offerta a sinistra (rinunziamo a virgolettare il termine, ma ci capiamo..)?

"Il dato più rilevante - afferma Occhetto sull'Unità dell'8 aprile -, non è soltanto che la DC perde seccamente, è che stavolta la DC perde la sua fondamentale forza di coesione. Da questo punto di vista è un voto di grande rilievo", positivo s'intende. Anticipava il giorno prima Pintor sul "Manifesto": "Salutiamo con gioia il crollo democristiano. Con la DC crolla anche il suo sistema di alleanze". Par quasi un "sogno antico" che infine si realizza.

Grazie Lega, allora? Vero è che Pintor riconosce che "non siamo noi, non è la sinistra a trarne beneficio", ma questa sembra quasi una considerazione a latere, talché basterebbe coniugare la sconfitta DC ad una ritrovata capacità della sinistra di "proporsi come alternativa possibile, come nuova classe dirigente" per far riquadrare i conti. Insomma: la Lega ha ben picconato, e questo ci sta bene; pensiamo ora noi a sfruttarne i risultati...

Come inizio d'analisi non c'è male. Ma di qui si può procedere ben oltre. Nella sinistra parlamentare va oggi di moda riconoscere, a differenza di quanto si sosteneva sino a ieri, che la Lega è qualcosa di più e di diverso da un semplice movimento "municipalista" o "razzista", che in essa si esprime una grande protesta generale (a valenza nazionale) contro l'attuale sistema e che i contenuti di questa protesta, depurati dai loro aspetti più folklorici e discutibili, rappresentano un punto di riferimento "anche per noi.

Sempre sull' "Unità" dell'8 aprile, Gianni Pellicani invita a riflettere sul senso non tutto "di destra" del voto alle Leghe, e nei giorni successivi altri personaggi del PDS si sono avventurati anche più in là. Chicco Testa scrive, tondo tondo, che le petizioni programmatiche della Lega coincidono in sostanza con quelle di una vera sinistra razionalizzatrice (autonomie regionali, antipartitocratismo, superamento dell'assistenzialismo corruttore, lotta alla criminalità…). Su di esse siamo "noi" che ci dobbiamo saper misurare col massimo della coerenza. Le stesse cose afferma Salvati. Quindi: positiva concorrenza con la Lega, per metterne a nudo le "ambiguità" e l' "inconsistenza"... a tener fede ai suoi programmi.

Tutto questo sta a chiara dimostrazione di come il programma di ristrutturazione capitalista abbia fatto non pochi proseliti nella stessa sinistra. In realtà, dalla Lega alla Rete, dalla DC di Segni al PDS c'è una sola corsa a contendersi il ruolo di gestore in prima persona di esso (con l'ovvia differenziazione sui modi di tale gestione, a seconda delle classi sociali rappresentate), giammai una contrapposizione d'indirizzo generale. I confini d'azione del riformismo nell'epoca dell'imperialismo stanno tutti dentro il sistema e si fanno sempre più ristretti, sosteneva Lenin. "Forse" non aveva torto...

Cosa può significare, da un punto di vista marxista, che non tutti i voti dati alla Lega vanno attribuiti alla destra? Quello che è sempre significato quando si è verificato uno spostamento della protesta sociale, fette di proletariato comprese, al di fuori e contro il movimento operaio (sino a confluire addirittura nel fascismo o nel nazismo). Fin troppo ovvio che questo spostamento esprime "a suo modo" la protesta sociale. Il problema vero è: perché, di fronte all'imputridimento del sistema, determinate forze, anche potenzialmente nostre, si dirigono verso quella direzione e non verso di noi?

La risposta è semplice: perché qui, a sinistra, ci si è egualmente impantanati in esso (e parliamo non solo e non tanto di un dato meccanismo amministrativo, ma della sostanza economico-sociale, la cui crisi si riflette sui modi della gestione). Perché, quindi, le contraddizioni di fondo di questo sistema, irrisolvibili nel quadro di esso, non sono state neppur affrontate, ma ci si è subordinati ad esse nel vano tentativo di risolverle "armonicamente" preservando lo status quo ante. Perché, di conseguenza, si è con ciò scompaginato e privato di una sua direzione il fronte proletario e, con ciò, si è persa anche la possibilità di neutralizzare la massa delle classi medie che, non trattenuta dalla prova provata di una capacità d'iniziativa della classe operaia, è irresistibilmente portata ad aggressivizzarsi a destra, riuscendo infine addirittura a trascinarsi dietro settori acefali di proletariato.

È dunque vero che non tutte le forze che oggi confluiscono nella Lega sono appannaggio "naturale", "di per sé", della destra. Ma questo significa una cosa soltanto: che siamo "noi", noi sinistra, a concorrere a quest'esito. Che una via di riscatto ci sarebbe: non quella di dialogare con la Lega o consimili, ma di prospettare concretamente alla crisi del sistema uno sbocco d'uscita di classe, rivoluzionario. Dubitiamo, però, che dalle Botteghe Oscure si possa arrivare ad una conclusione del genere…

In questi termini va impostato il problema del come rispondere alla sfida-Lega. Non della Lega presa isolatamente (e, peggio, sul puro piano dei conteggi elettoraleschi) si tratta, ma del blocco reazionario borghese che, su temi perfettamente "leghisti" anche quando sussista una feroce concorrenza con la Lega stessa) si va definendo ed a cui va data una risposta sul terreno dello scontro classista di forze.

Lega o non Lega, questo blocco avrebbe già vinto qualora se ne accettassero i presupposti e ci si limitasse a "battersi" per una loro "migliore" traduzione nella pratica di gestione amministrativa e politica.

Secondo: si approfondisce la frattura Nord-Sud

L'exploit della "Lega" registratosi al Nord (ed all'insegna del "nordismo"), ha dato forza al messaggio (non regionalista - ripetiamolo -, ma nazionale complessivo) delle forze borghesi più sensibili alle esigenze del capitale italiano: occorre imprimere un ulteriore impulso alla razionalizzazione del sistema economico, alla sua concentrazione e centralizzazione; per arrivare a tanto occorre razionalizzare il sistema politico chiamato a svolgere i suoi compiti di "comitato d'affari della borghesia"; quest'ultimo obiettivo significa, né più né meno, "nordizzare" (o "demeridionalizzare", se preferite) i modi della politica.

Cosa significa? Spaccare l'Italia in due o tre pezzi" Giammai, per i borghesi (e neanche Bossi lo pensa, statene ben certi!). Rimettere il Sud al passo del Nord, correggendo le "storture" subite dal primo? Questa è solo una favola, che nessuno per altro si sogna anche solo di raccontare. Il progetto è: non pagare più al Sud (ovvero: ai ceti dominanti del Sud) gli oneri accessori in grado di compensare sul piano dell'assistenzialismo, del clientelismo, del taglieggiamento istituzionale (con la mafia propriamente detta non in prima posizione) etc. etc., parte dei costi sostenuti dal Sud in quella sorta di "processo combinato e diseguale" che, dal Risorgimento in poi, ha drenato al Nord l'accumulazione del capitale. Ciò che si vuole gettare alle ortiche è, dunque, una qualche forma di risarcimento diventato oggi insostenibile a misura che la crisi capitalistica lascia sempre minori margini di elargizione ed a misura che l'insieme del sistema politico, anche -eccome!- a Nord, si sta sempre più infettando dell'intollerabile cancro "assistenzialista", "corporativo", etc.

Come più volte rilevato dalla corrente marxista, i mali del Sud non derivano né da chissà quali caratteristiche d'inferiorità antropologica delle genti meridionali (fin qui siamo nell'ovvio, e ce lo ammettono gli stessi leghisti), né da una sua situazione di arretratezza feudale o semi-feudale, bensì dal cammino da esso compiuto nell'ambito del capitalismo nazionale, entro il quale la dinamica svilupposottosviluppo, modernità-arretratezza va colta non come separatezza e contrapposizione di due distinti sistemi o sotto-sistemi, ma quale risultante dell' "unità" combinazione e diseguaglianza.

Articolare (non dividere) l'Italia in tre repubbliche federate, come propone Bossi, o articolarla in rigorose autonomie regionali, come vorrebbero i "progressisti", partendo da una stessa logica di fondo, non significherebbe né dare "finalmente" al Sud il modo di misurarsi "da solo" coi "propri" problemi, né dare "finalmente" al Nord il modo di fare altrettanto. Significherebbe consentire una più spinta concentrazione e centralizzazione dei capitali a scala nazionale, lasciando alle "autonomie" del Nord di fare da volano di essa senza che quelle del Sud possano pretendere ulteriori compensazioni parassitarie (come amano esprimersi proprio i progressisti!). Capitale più unito, dunque, e più forte. Più disunito il fronte di classe, chiamato a pensare ed agire "lumbard" o "terrùn" alla coda dei rispettivi gruppi di potere.

Quando diciamo "capitale più unito" non ignoriamo di certo le vere e profonde battaglie che già stanno esplodendo tra "ceto politico" meridionale legato a quel "sottogoverno" grazie al quale DC e PSI si sono mantenuti in sella, neutralizzando in parte i catastrofici risultati a Nord, e "ceto politico" settentrionale.

Il primo, percentualmente rafforzato rispetto alla composizione parlamentare globale dei due massimi partiti di governo e ringalluzzito dal maggiore peso specifico nei giochi interni di partito, è irresistibilmente portato a giocare al rialzo quanto a "pomicinature".

Per contro, un'ala-nord trasversale alle stesse compagini di partito, più organicamente legata alle esigenze del capitale produttivo del Settentrione e conscia che per questa strada si rischia di andare alla delegittimazione finale del sistema attuale da parte del padrone del vapore capitalista, è spinta a fare quadrato contro queste pretese. Tanto per dire: un Craxi sa benissimo che le prospettive future del PSI in quanto, partito del capitale non possono consistere nel "compensare" i propri deficit in Lombardia con manciate di voti aggiuntivi carpiti al Sud con ben noti sistemi clientelari; e una parte importante della stessa DC settentrionale si pone un identico problema (giungendo, con Martinazzoli, sino ad ipotizzare autonome strutture DC al Nord).

Nell'intervallo che intercorre tra l'entrata in crisi del sistema politico antecedente e la sua necessaria trasformazione, questo campo di battaglia potrà riservarci momentanee sorprese, ma, da marxisti, riteniamo inevitabile che, alla fin fine, il nodo sarà sciolto secondo le esigenze della Confindustria e non secondo gli appetiti discordi del ceto o dei ceti politici. Ed è qui che stanno le ragioni della nostra prognosi.

La linea-Nord finirà comunque per imporsi, anche se non ci è dato indovinarne i tempi e i modi. Dovrà imporsi in quanto in essa si riassumono le esigenze di ristrutturazione di cui s'è detto, riallineando ad un livello più alto di "funzionalità" unitariamente il proprio personale rappresentativo sul terreno politico, tanto al Nord che al Sud. (Salvo immaginarci il peggio, e cioè, in assenza di una tale ricomposizione, l'ingigantirsi di una frattura verticale tra Nord e Sud, con risvolti "jugoslavi" che poi riuscirebbe difficile dominare).

A questa ristrutturazione unitaria del capitale (entro la quale i fenomeni di combinazione e diseguaglianza si accentuerebbero al parossismo) fa da pendant la divisione che si cerca di portare nel fronte di classe. In proposito, sottolineiamo il ruolo giocato ancora una volta dalla sinistra, i cui programmi per il Sud sono una versione "progressista" speculare a quella delle Leghe al Nord: moralizzazione, lotta contro la criminalità, lotta contro la partitocrazia, anti-assistenzialismo etc. etc., tutto meno che un deciso richiamo alla lotta unitaria di classe, Nord e Sud assieme, contro quell'unico e coerente meccanismo capitalista che sta alla base degli "squilibri" e delle anomalie "attuali".

Su questo tema ci piace riportare qualche riga di buon nerbo da un documento di base di un circolo comunista (PRC) meridionale, in cui lo stesso programma di "Rifondazione" è messo a fuoco con accenti critici che, espressi da noi, ci provocherebbero la taccia di estremisti settari.

"Come comunisti e come meridionali - orgogliosi di essere l'una cosa e l'altra - ci sentiamo offesi e indignati (dal "nuovo meridionalismo" del PRC, n.). Non è lecito a nessuno (meno che in nome del comunismo) banalizzare e ridurre rozzamente la "nuova" questione meridionale al perverso intreccio tra malavita organizzata e politica; mascherare la propria incapacità di comprensione (come meravigliarsi delle ignominie antimeridionali leghiste e non solo?) vomitando sulle masse meridionali l'indegna ingiuria: "Il Mezzogiorno… grande riserva della conservazione e della reazione". (…) Il Mezzogiorno, all'opposto, può essere un grande crogiolo (…) del cambiamento della realtà italiana. A condizione che i comunisti facciano il loro mestiere, mettendosi alla testa -da comunisti e non solo da volgari democratici- delle masse lavoratrici e democratiche del Mezzogiorno. (…) Mentre si consumava il sacco del Mezzogiorno, si consolidava il sistema di potere DC-PSI, si estendevano i rapporti tra delinquenza e politica, noi, i comunisti, dov'eravamo? Cosa facevamo, oltre che chiacchiere moralistiche e sociologi a buon mercato o accordi (non sempre trasparenti) con PSI e DC?".

Un discorso finalmente chiaro. Mentre il capitalismo italiano unitario "si articolava", l'unità proletaria nord-sud veniva spezzata al servizio di esso. Questa unità va oggi ricomposta, rilanciando anche al Sud una lotta di classe (quanto mai ricca qui di tradizioni ed esempi gloriosi!) che aggredisca alla radice la "nuova questione meridionale" aggredendo quella questione capitalistica da cui dipende.

Lasciamo al PDS od alla "Rete' (perfetta trasposizione meridionalistica del leghismo) battere altre strade! Al Sud ci vuole più Stato? No, ci vuole più lotta di classe nel sociale! E i due termini non sono tra loro compatibili.

Terzo: si rafforza il partito trasversale delle "riforme istituzionali"

Se per i due dati negativi di cui sopra la sinistra parlamentare può ancora invocare una certa qual "innocenza", c'è un terzo elemento di destra, che esce rafforzato da queste elezioni, a sostegno del quale il PDS si è impegnato allo spasimo in primissima persona.

Si tratta del ben noto "patto sulle riforme elettorali", o più pomposamente "istituzionali", lanciato dal notabile della destra DC Mario Segni, che prevede l'introduzione di un sistema elettorale prevalentemente o totalmente maggioritario per Senato, Camera e Comuni. A qual fine? Per togliere di mezzo la "forza d'interdizione" dei tanti, troppi piccoli partiti che, attraverso un continuo gioco di ricatti e ricontrattazioni a tutela di vari interessi corporativi, impediscono all'esecutivo di operare da autentico comitato d'affari del capitale all'altezza del suo compito istituzionale. Anticipato qualche lustro fa da Pacciardi, in provvisoria fuga dal PRI, attorno al movimento dichiaratamente di destra e ferocemente anticomunista di "Nuova Repubblica", questo progetto è diventato oggi trasversalmente comune, da Cossiga a La Malfa, da Segni ad Occhetto. Tira brutta aria!

L'onesto Segni, messosi a capo dell'impresa ed arruolato il nerbo delle sue truppe tra il PDS, ha raccolto attorno al patto i candidati al parlamento disposti ad impegnarsi sulle "riforme" sciogliendosi dal vincolo di obbedienza ai rispettivi partiti in materia. "L'Unità" dell'8 aprile annunciava trionfante: "Quelli del patto sono più di 150": 59 del PDS (!), accanto a 35 DC, 10 PRI, 4 PLI, "Rete" al completo etc. Una grande vittoria! E se poi, come si sta cominciando a fare, il nome di Segni viene popolarizzato come quello della "persona nuova" più adatta a ricoprire la carica della Presidenza del Consiglio in questa fase di "transizione riformista", tanto meglio! E perché non meglio ancora, a questo punto, rimettere Cossiga, "riformatore" della prima ora, sul trono del Quirinale?

Quello cui ambiscono i Segni, i Cossiga, i La Malfa dovrebbe esser chiaro, e, in effetti, agli stessi occhettiani scappa talvolta di dire che "comunque" un Segni è di destra. Però… Però, il suo progetto avrebbe il pregio di ripulire prima la stalla dall'inefficientismo e dalle ruberie coperte "dai partiti", -il che costituirebbe un interesse comune, lasciando poi la strada aperta ad una soluzione efficientista e pulita che potrà essere a quel punto o conservatrice o progressista. Questo il nocciolo del ragionamento.

Portando alle ultime conseguenze il "senso dello Stato" di Togliatti e Berlinguer (non ce ne voglia il malinconico Garavini!), Occhetto reagisce alla vera ed evidente crisi delle istituzioni borghesi, per ripristinare un "corretto funzionamento" delle istituzioni; poi (cioè: una volta rafforzati i meccanismi che subordinano nei modi più efficaci il parlamento ai dettati del capitale) vedrà di dare ad esse una soluzione "progressista", di "alternativa"…

La semplificazione e razionalizzazione istituzionale permetterebbero all'elettorato, sostiene il PDS, la scelta tra un blocco di destra ed uno di sinistra. I diversi partiti dell'una o dell'altra sponda sarebbero costretti ad unirsi attorno al programma di uno di questi blocchi. Programma comune, esecutivo forte "comune", senza più spazi per mercanteggiamenti, ricatti e giochi mafiosi "partitocratici".

Bene. Come prima conseguenza, avremmo che i partiti "esterni" della sinistra dovrebbero piegarsi alla scelta tra un Mitterand ed uno Chirac, rinunziando finanche alla propria faccia, nel momento decisivo, per non passare da scissionisti, sabotatori od oggettivi portatori d'acqua alla destra. Come si comporterebbe, ad esempio, "Rifondazione" di fronte alla scelta obbligata? 0serebbe mai astenersi (vista e considerata la sua radicata anima parlamentaristica)?

Ma quello di castrare un'estrema sinistra già di per sé assai poco virile non è il punto centrale. Ciò che conta è che un "programma comune della sinistra", per candidarsi al governo della cosa pubblica capitalista in concorrenza efficientista con la destra (e tanto più efficientista qualora davvero pensasse di mantenere od allargare gli spazi dello stato sociale), dovrebbe dimostrarsi in grado di assicurare - con tutti i mezzi possibili, nessuno escluso - il massimo di pace sociale al fine di poter attrarre a sé una parte decisiva dei voti della massa piccolo e medio borghese e mantenersene l'appoggio una volta al governo.

Nell'approfondirsi della crisi, un tale compito si dimostra sempre più difficile, anche per la "sinistra" più slavata e pronta agli estremi compromessi. In Francia, Mitterand, nel tentativo di tenersi a galla, è arrivato al punto di disgustare lo stesso compagno di strada Marchais, che pure è di stomaco buono, e neppure questo gli è bastato ad assicurargli un recupero a destra (l'estrema ancora di salvataggio della "sinistra"!). In Gran Bretagna Kinnock, insediatosi a capo del Labour Party sulle ceneri del possente sciopero dei minatori, pugnalato alle spalle, e di ogni residua traccia di "scargillismo", non è stato egualmente in grado di battere il conservatore Major, pur in presenza di uno scontento di massa contro il thatcherismo. Né le cose vanno meglio altrove (Germania, Belgio, Svezia…).

In più di un articolo di "Le Monde Diplomatique" di marzo si esprimeva il disincanto da parte dei suoi redattori, che potremmo definire riformisti sinceri: in Francia e dovunque la sinistra al governo si è dimostrata incapace di riformare alcunché ed, anzi, si è resa responsabile di provvedimenti antipopolari che la destra avrebbe faticato a prendere", squalificandosi agli occhi delle masse senza per questo ridiventare più appetibile per la borghesia.

Che se ne ricava? Noi ne ricaviamo la conferma della vecchia tesi marxista sul fatto che "nel periodo attuale il Parlamento non può, in nessun caso, essere il teatro di lotte per riforme, per il miglioramento delle condizioni della classe operaia" e, quanto più ad esso ed all'esecutivo sono attribuiti pieni ed indiscussi poteri liberi dalle ipoteche di piccole e grandi camarille, tanto più si evidenzia il loro carattere di ufficio a servizio del capitale.

Come potrebbe una sinistra riformista ritrovare la propria "anima" smarrita? Ridando voce, suggeriscono quelli de "Le Monde Diplomatique", alle masse popolari. Giusto. Solo che ciò significa, in ultima analisi, ridar voce alla conflittualità di classe, fuori e contro la logica parlamentare, governativa, fuori e contro la logica dei blocchi interclassisti che ne consegue. In una parola: ridar voce… al comunismo, alla prospettiva rivoluzionaria. Il che equivale esattamente alla negazione del riformismo.

In conclusione: se nel voto si è espresso, su più piani, quello slittamento a destra che ad esso preesisteva nel movimento all'interno della società e che i risultati elettorali minacciano di allargare ed approfondire, occorre constatare che tale slittamento non ha incontrato a sinistra alcun serio ostacolo, e che oggi il dato acquisito di esso viene addirittura parzialmente introiettato dal PDS, e non soltanto dal PDS, quale terreno su cui misurarsi (sia pure nella versione "progressista" d'obbligo). Nel caso del "patto Segni", poi, questa disposizione a competere con la destra sul suo stesso terreno ha addirittura visto la cooperazione attiva ed entusiasta di un partito come il PDS, che è destinato a subirne negativamente tutte le conseguenze -"particolare" che certo gli sfugge.

È questa una sconfitta nella sconfitta, destinata a pesare negativamente sugli sforzi di ripresa del proletariato nel prossimo tomo di tempo. Su questo urge una riflessione da parte delle forze d'avanguardia della classe.