DOSSIER - Lotte operaie

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La nuova offensiva capitalista non è rimasta senza risposta

RIPRENDE CON FORZA L'INIZIATIVA DI LOTTA

DELLA CLASSE OPERAIA.

È necessario ora che essa si dia degli obiettivi ed una direzione rispondenti alla posta in gioco

L'ultima ondata di lotte operaie (che hanno saputo convogliare dietro sé masse di popolazione egualmente colpita dalle misure di "razionalizzazione" del governo) ha mostrato come, ancora una volta, il centro nodale del problema stia nell'antagonismo lavoro salariato-capitale, socialismo-capitalismo e di quali energie materiali e morali la classe operaia disponga per portare avanti la sua battaglia. Potenzialità enormi si aprono; ma perché esse si traducano in risultati positivi occorre che il movimento si unifichi attorno ad obiettivi e secondo una direzione politica all'altezza della situazione. Fare i conti con la borghesia si può solo in quanto li si facciano con il "riformismo", autentica palla al piede del proletariato nel suo corso verso la ripresa.

 

Primavera '89: come sta la classe operaia?, come vanno le sue lotte sindacali?

Non male, stando ad una prima occhiata, vista la ripresa - che possiamo anche definire relativamente massiccia - delle agitazioni e il ventaglio dei temi e degli obiettivi affrontati. Se poi passiamo ad una diagnosi meno impressionistica, la prima sensazione ci pare completamente confermata: siamo in presenza di una situazione oggettiva favorevole al proletariato e di una situazione soggettiva aperta potenzialmente a sviluppi positivi ulteriori. I due fattori sono strettamente legati tra loro e, insieme, vanno perciò affrontati. Vediamo un pò meglio.

Per dire la nostra, se ci è concesso, abbiamo scelto una "trama" di riferimento altrui, e precisamente un fondo particolarmente incisivo ed efficace di V. Rieser su "L'Unità" del 4 aprile: "Gli 'scioperi dal basso' novità del 1989 nel mondo del lavoro". Questo articolo, che parla dal di dentro al "popolo (proletario) comunista", e con ciò, alle parte più avanzata della massa operaia afferma molte cose esattissime, e diciamo pur fondamentali, per capire a che punto siamo e dove stiamo andando, o potremmo andare. Le nostre conclusioni, poi, saranno "leggermente" diverse: spiegheremo come e perché; ma intanto partiamo insieme da qui.

Rieser stabilisce, innanzitutto, un paragone tra l'attuale ondata di scioperi e quella immediatamente precedente, dell'84, focalizzatasi attorno al "decreto di San Valentino". Si trattava allora, egli scrive, di un "ultimo atto, anzi una sorta di "fiammata ritardata", di una fase ormai conclusa", seppur caratterizzata da una "grande e spontanea partecipazione di massa" (con i giovani in prima fila ed a forte carattere unitario "in moltissime strutture sindacali di base"). Fase conclusa perché? Perché "l'offensiva di ristrutturazione capitalista era in pieno corso, la contrattazione articolata era bloccata o costretta sui temi difensivi della cassa integrazione e degli "esuberi"' e, perciò, mentre il tema della mobilitazione era "rivolto indietro", "alla difesa di una conquista dei passato", come "ultima, disperata risposta ad una sconfitta già largamente consumata". Il che, "incidentalmente", rimette in causa - per Rieser come un pò per tutto il PCI - la via allora percorsa dal partito di tradurre "la giusta e coraggiosa scelta politica di schierarsi senza riserva a favore del movimento di lotta" nell' "iniziativa tatticamente sbagliata del referendum".

"Nuova fase" e vecchie musiche

Possiamo accettare questa diagnosi se "solo" aggiungiamo che gli elementi di debolezza, sindacali e politici, non caddero dal cielo, dall'ineluttabilità di una ristrutturazione capitalista libera di fare il suo corso oblbigato, ma da tutta un'impostazione sindacale e politica (sintetizzabile nella "svolta dell'EUR" ed in quelle segnate da congressi del PCI sempre più... svoltanti) subordinati agli imperativi dello sviluppocapitalista, considerato come alfa ed omega della "variabile dipendente" della lotta di classe. E, sempre "incidentalmente", noteremo che la scelta del referendum può essere considerata "tatticamente sbagliata" unicamente in ragione del modo e degli orizzonti "all'indietro" con cui essa fu, non a caso, attuata, dissociandola dal movimento di lotta con cui oggi si pretenderebbe di essersi schierati "senza riserve". E questa impostazione, anticipiamo subito, che va rimessa in causa se davvero vogliamo affrontare con lo sguardo rivolto in avanti l'attuale "nuova fase". In caso contrario, non si farà che inseguire ancora una volta in maniera subordinata le leggi e le compatibilità del sistema, accontentandosi di raccattarne le briciole (quante? e sino a quando?) che esso, nella "nuova fase", lascerebbe spontaneamente a disposizione.

Da cosa sarebbe caratterizzata, infatti, la fase presente? "Nelle aziende sono riprese le assunzioni, con l'ingresso massiccio di giovani, che certo costituiscono un'incognita, ma che hanno già mostrato di non essere una docile massa di manovra dei padroni... È ripresa dovunque la contrattazione articolata... La vertenza fisco, malgrado i limiti dei suoi risultati (peraltro oggi parzialmente rimessi in questione), ha fornito comunque spunti di un rapporto concreto tra mobilitazione di massa ed obiettivi generali. La campagna sui diritti lanciata dal PCI, e le ripercussioni che ha innescato, costituisce un ulteriore elemento di questi "segnali di ripresa"..." e va sottolineata "l'ampiezza e l'intensità della mobilitazione di massa", con "elementi importanti di unità sindacale" che non si limitano alla "ripresa di iniziativa unitaria dei consigli di fabbrica, mai rivestono i livelli di direzione locale (cittadina, provinciale e regionale) del sindacato" per cui "per la prima volta dopo anni... la dialettica politica del sindacato non segue rigidamente le demarcazioni di organizzazione".

Ancora una volta possiamo, condizionatamente, convenire. Una fase-bruciante della ristrutturazione capitalista si è conclusa. La classe operaia ne è uscita con le ossa rotte, ma tutt'altro che pacificata e meno che mai "integrata" ed oggi entra nella fase post-ristrutturazione con un"inedita" volontà di ripresa, riorganizzando le proprie file. I campi sociali si vanno, nel frattempo, vieppiù polarizzando. "RItornare all'offensiva" ha un senso a patto di prenderne atto, e di contrapporre alla strategia del capitale (diventato tutt'altro che magnanimo in forza degli alti profitti e del ripristino del proprio dispotismo conseguiti nel corso della ristrutturazione) una propria strategia.

Anticapitalista. È il caso di aggiungerlo?

Rieser stesso lo ammette in linea di principio: "La convergenza di questi elementi oggettivi e soggettivi determina potenzialità di grande portata (e cioè?, n.): ma il cammino verso la loro piena realizzazione (e cioè?, n.) è irto di difficoltà, e non autorizza a facili ottimismi o a semplificazioni. Anzitutto, i tempi sono stretti e le alternative sono "secche", non consentono cioè molte sfumature e mediazioni (ancora una volta: e cioè?, n.)".

Tutto esatto, nella sua astrattezza; come il resto che segue: le attuali misure padronali e governative (in quanto "comitato d'affari della borghesia", vero o no?) "non hanno una portata parziale o circoscritta: sono un "pezzo" (sia pure maldestro e improvvisato) di una strategia generale in cui la risposta al problema del disavanzo pubblico si salda ad una linea di smantellamento dello Stato sociale" (e, aggiungiamo noi, di corrispondenti strutture "antisociali" del potere). Quindi: il movimento non può limitarsi alla "condizione (almeno iniziale) di "protesta", di risposta difensiva a misure già in atto".

Perfetto. E tanto valeva, en passant, per la fase precedente, quando allo scontro "strategico" si è arrivati, da parte del sindacato e del partito riformisti, non con semplici "ritardi (di elaborazione e di iniziativa)", ma con una meschina, seppur sentita, petizione degli interessi immediati del proletariato dentro una strategia procapitalista comune rispetto all'avversario. È oggi cambiato qualcosa, nel mutar di fase, rispetto a questo dato?

Certamente si è indurito il contrasto tra le parti, ma non ci par proprio di poter dire che col passaggio da Pizzinato a Trentin, dal post-berlinguerismo ad Occhetto (tanto per usare dei "simboli"), si sia verificato o sia suscettibile di verificarsi un mutamento strategico.  Da questo punto di vista, anzi, si sta parlando sempre di più una stessa lingua: interessi nazionali più che mai, competitività e profitti del "nostro" apparato produttivo più che mai, rinnegamento del "mito socialista" ed apologia aperta del liberalismo - tanto economico che politico - più che mai e più che mai ricusazione della "centralità operaia", svillaneggiata come sinonimo di un "corporativismo" superato in un mondo "complesso", "pluriclassista", neppur più leggibile secondo un' "obsoleta chiave di classe".

Diamo pure atto a Rieser, ed a molti epsonenti sindacali e politici CGIL-PCI di sentire l'antagonismo presente "dalla parte degli operai". Ma proprio qui interviene un "blocco": o questo sentimento, questa volontà si traducono in una alternativa radicale alle basi della "strategia" presente, passata e futura del riformismo cosidetto "forte", o, come paventa Rieser, nessuna risposta positiva sarà data a ciò che i tempi stretti e le scelte strette impongono.

Alternativa? Bene, ma quale?

Il nostro prestatore di argomenti riesce particolarmente efficace nel delineare le impasse del sindacato; non altrettanto davvero nel motivarne le ragioni e nel delineare una via d'uscita. Egli scrive: "Lo sciopero generale non ha un valore taumaturgico e risolutivo, ma serve... nel momento in cui è uno "strumento tatticamente efficace" di un'azione razionale rispetto allo scopo. E però, questa linea d'azione, questa "strategia razionale" non viene per ora delineata e proposta ai lavoratori da parte delle direzioni sindacali nazionali. L'unico elemento concreto di una linea d'azione, per ora, sono appunto gli scioperi "decisi dal basso"; e anziché valorizzarli pienamente... le direzioni sindacali hanno verso di essi un atteggiamento ambiguo, sottolineandone più i limiti che le potenzialità, o addirittura riducendoli a un elemento di deteriore dialettica "interburocratica" Fin qui, con qualche "ambiguità" in meno, sono parole che potremmo benissimo aver scritto anche noi. Così come sottoscrivamo toto corde che "non si può certo pensare di rovesciare scelte governative di portata strategica con qualche incontro governo-sindacati (e governo ufficiale-governi "ombra", n.) sorretto da forme di pressione simbolica". L'"alternativa" proposta, però, è puro fumo: "Di qui l'urgenza di rispondere alla sua (del proletariato, n.) discesa in campo con un itinerario preciso e tempestivo di lotta, di proposta e di trattativa, adeguato alla portata degli obiettivi in gioco." Il guaio è che proprio gli obiettivi rimangono avvolti nel mistero.

Di che, concretamente, si tratta? Per noi: di una "razionale" direzione della lotta sociale del proletariato, saldata alla lotta politica, di partito, per il potere, per il socialismo.

Intendiamoci bene: non disegniamo barricate, rivoluzioni e soviet per domani mattina; non saltiamo sopra gli obiettivi immediati, anche i più "terra terra". Sin dai tempi (per limitarci ai casi più recenti) del referendum contro il decreto di San Valentino l'abbiamo mostrato a josa. Ma il modo di "usare" le lotte è diametralmente diverso a seconda che si miri all'uno o all'altro obiettivo storico. Sindacato e PCI, allora, rifiutarono di porre la questione sulle gambe della lotta sociale (per la quale, noi con Rieser crediamo ci fosse un'ampia disponibilità) ed anzi smorzarono tale lotta per promuovere una "conta delle opinioni"  indirizzata interclassisticamente a "tutto il popolo".

Se il proletariato è solo "una parte del popolo", da cui deve partire ed a cui deve ritornare dentro la cornice della "democrazia", è logico che alla forza della lotta di classe si debba sostituire la "mobilitazione delle coscienze" (tra l'altro, assai poco ben disposta a mandar giù fiammate "vetero-operaiste").

Coi risultati che sappiamo, ampiamente scontati. Esattamente quello che, Rieser ce n'è testimone, si sta ripetendo oggi (e non solo da parte del sindacato). Pressione simbolica e interclassismo reale; difesa degli interessi operai impotente e sostegno reale alla macchina del reale potere, economico-sociale e politico, con cui si va a "contrattare" senza forza alle spalle.

Tutti i recenti esempi di mobilitazione, principalmente promossi dal PCI (questo non abbiamo problemi a riconoscerlo), stanno a dimostrazione del vicolo cieco cui ineluttabilmente conduce il riformismo. Da un lato si sollevano problemi e si eccitano forze reali, dall'altro il processo di lotta così avviato viene bloccato nel momento in cui si tratta di "scegliere" un'appropriata strategia per appropriati obiettivi di classe.

Una rapida carrellata.

La battaglia per i diritti negati. Questa sacrosanta battaglia, non solo non ha travalicato più di tanto i confini di un "contenzioso FIAT" (facendo così mancare ad esso stesso il necessario ossigeno, benché fosse fortemente sentita da masse di lavoratori ben al di là delle fabbriche FIAT, ma è stata rapidamente dirottata sui binari dell'intervento "imparziale" di un governo chiamato a schierarsi "al di sopra delle parti". Così, l'intervento degli ispettori di Formica, cui è tornato bene ammannire qualche tiratina d'orecchie ad agnelli, ha praticamente sancito la chiusura della vertenza, con un pugno di mosche in mano e, per giunta, l'accredito al governo di aver fatto, sia pur parzialmente, la parte cui era stato chiamato. Il "caso Molinaro", a questa stregua, è stato usato più per riscaldare l'"opinione pubblica" che l'effettiva disponibilità alla lotta dei proletari. È vero, una certa parte di detta pubblica opinione ha "simpatizzato" cogli operai, ma ad un duplice patto: che la simpatia non si traducesse in nulla di concreto e che gli operai, "forti" del contentino di Formica, continuassero a starsene buoni.

Secondo esempio: la battaglia sul fisco. Problema sentitissimo da chi paga due volte (e principalmente "alla fonte", al momento dell'erogazione della propria merce-lavoro). Manifestazioni imponenti di conseguenza. Una "pressione simbolica", giustamente scrive Rieser. A servizio di che? Del nulla. Quante parole si sono sprecate attorno allo slogan "paghiamo tutti, paghiamo meno"!

Ma si può pagare di meno, noi operai, senza lotta e senza aggredire gli interessi della borghesia e della pletora dei "ceti parassitari" al suo seguito? Abbiamo così avuto da un lato una "pressione" (... senza troppo premere) finalizzata alle solite "trattative" del comitato d'affari della borghesia e dell'altro, ogni volta che si tratta concretamente di fare i conti di chi deve pagare, si scoprono i "poveri commercianti", i "poveri artigiani" etc. etc., e addirittura ci si mette alla testa della loro protesta contro i "nuovi balzelli fiscali". Ve la ricordate la rivolta dei commercianti e l'appoggio ad essa dato proprio dal PCI?

Infine, la battaglia contro i ticket (tra parentesi, già di fatto isolata dalla battaglia generale, che s'imponeva e s'impone, contro l'insieme delle misure governative e, di conseguenza, limitata all'opposizione alla singola, più evidente - ma non più grave - "stortura" terminale del decreto: si pensi ai salassi nelle F.S., al corso accelerato verso la privatizzazione del sistema-USL, alla spada fatta calare sulla testa dei dipendenti pubblici e ai contestuali regali ai "soliti noti" dell'evasione fiscale). Indignazione, manifestazioni, scioperi a catena, tuttora in corso, "dal basso" e dall'alto. Anche qui, però, subito l'avvertenza a non invocare lo sciopero generale, come arnese inutilizzabile (od utilizzabile in una data direzione non gradita ai vertici?); gli scongiuri contro il "debordare" dell'azione dall'ambito delle proprie competenze, a non mettere in causa il governo (quello vero e quello "ombra"). Anche qui la corsa alle "trattative" disarmate, ai "correttivi" parlamentari, alle "larghe intese" e gli appelli alla "ragione" dell'"opinione pubblica".

La somma di questi tre assi rivendicativi, combinati con la lotta per il salario e l'occupazione, mostra quale sia l'effettiva "portata degli obiettivi in gioco" e il potenziale rapporto di forze tra le classi in campo. La classe operaia ha mostrato di essere unificabile su questo terreno e di poter trarre dietro di sé, allorché si dimostri forte della propria compattezza e di un proprio progetto, larghissime fette della "popolazione" non proletaria che non partecipa al banchetto capitalista. E' una potenzialità (bravo Rieser!). Perché si traduca in atto, essa deve però scrollarsi di dosso innanzitutto le ipoteche del riformismo, inteso non come astratta ideologia, ma come concreta rete di interessi extraproletari ed antisocialisti che si traduce in una precisa ideologia.

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MA I LAVORATORI SONO D'ACCORDO?

"A costo di deludere quell'area della sinistra (comunista e no) che ha tanto contribuito a issarlo sulla poltrona che fu di Pizzinato, Bruno Trentin ha dato al programma della CGIL uno stampo chiaramente riformista. Ovviamente l'etichetta non è sua, ma sue sono le critiche implacabili contro il "mimetismo dei gruppi dirigenti" sindacali che per non sbagliare mai "si appiattiscono" su movimento "e non ammettono pubblicamente" quello che ci diciamo in amicizia" e cioè che "i lavoratori possono avere torto". "Quando nel movimento c'è di tutto, è sbagliato considerarlo come gli umori positivi della classe lavoratrice. Ecco perché io nutro una idiosincrasia per il movimento inteso come entità"...

E' più di quanto la componente socialista della CGIL, attraverso il discorso di Ottaviano Del Turco, aveva chiesto a Trentin in termini di riformismo, di abbandono della "visione salvifica della lotta di classe" e dei "miti statalisti" o di "demonizzazione del profitto", come in termini di critica a "quel gruppo di compagni cresciuti nel sindacato degli anni sessanta e settanta che si atteggiano a guardiani della rivoluzione".

(da "la Repubblica" del 15.4.1989)

La condizione prima a ciò è che, oggi, il fronte di lotta si allarghi ed approfondisca gli obiettivi su cui muoversi. Gli "scioperi dal basso" stanno svolgendo una parte di questo compito. È indubitabile che essi hanno, in qualche modo, superato la prima trincea di sbarramento loro opposta dai "vertici" e salutiamo come un importante risultato il fatto che essi abbiano obbligato persino un Trentin a riconsiderare la questione dello sciopero generale. È un punto di ripartenza, come tale non sufficiente, ma necessario e salutare. Da qui in poi si deve, si può andare avanti.

Poniamo un solo quesito: c'è o no una differenza se il governo De Mita cade sotto i colpi della lotta operaia o se cade per i contrasti interni al pentapartito, "grazie" a Craxi? In entrambi i casi entrerebbe in gioco un' "alternativa".

La prima sarebbe, in nuce, un'alternativa di potere, tra le classi; la seconda aprirebbe forse le porte all'"alternativa di sinistra" (inevitabilmente affidata al benvolere ed all'egemonia craxiani) delineata al 18° Congresso del PCI: con quali concreti risultati? Gli esempi francese e spagnolo lo indicano bene. Quale strada intensiamo percorrere? Qui sta il punto. La linea riformista è tutt'altro che "ambigua" o "priva di strategia" su ciò. Al contrario, essa è perfettamente chiara e strategicamente orientata. Se la lotta operaia andrà sviluppandosi, comunque e sotto qualsivoglia insegne essa sia partita, non potrà fare a meno di prenderne atto.

Il "nodo non risolto" resta uno solo: o capitalismo o socialismo

Abbandoniamo qui Rieser e passiamo, per chiarirci ancora un pò le idee, a tutt'altro soggetto: quel Guido Bolaffi che gli operai della FIAT ricorderanno molto bene ed il suo articolo su "La Repubblica" del 2/3 aprile dal titolo inequivoco "Ma i nostalgici della classe operaia non sanno che lo sciopero è inutile".

Questo forcaiolo, che non ha disdegnato di stare ai vertici di un'organizzazione operaia come la CGIL senza alcuna "nostalgia" per la classe operaia (ma chi diavolo "dirigeva" allora?), parla un linguaggio franco e brutale. Non saremo noi a ribadire come si tratti di un linguaggio da nemico di classe. La cosa dovrebbe, semmai, preoccupare chi l'ha precedentemente posto su quella data poltrona e l'ha generosamente difeso quando vi è stato sacrosantissimamente scalzato.

Il fatto è che, da buon forcaiolo, egli può dire delle scomode verità con cui si devono pur fare i conti. Di ciò gli sia dato merito.

Dopo essersela presa coi camalli di Genova e gli operai FIAT di Pomigliano e tutti coloro che sono scesi in piazza contro i ticket, chiamando a soccorso delle sue posizioni "non nostalgiche" Trentin e "gli stessi indirizzi programmatici dell'ultimo congresso comunista" (se ne prenda ben nota!), Bolaffi denunzia un riemergere nel sindacato di "posizioni vetero-operaiste" e di puro "opposizionismo". Di queste affermazioni gli operai sapranno bene che farsene, ma è esatto l'aut aut che egli pone al sindacato (ed al PCI): o questo "si batte per la conquista di nuove relazioni sindacali (a Bolaffi piacciono, ovviamente, quelle "elargite" dalla FIAT che ha creato "nuove occasioni di lavoro"!, n.), o predica (Predica?, n.) il superamento del sistema capitalistico".

La verità, aggiunge di seguito, è che "la cultura sindacale di parte comunista è oggi a una svolta. In ballo è un punto decisivo: il superamento del legame classico tra opposizione politica e opposizione sociale operaia. Non meraviglia se questo passaggio, saltato e dunque non risolto dal dibattito congressuale del PCI, oggi riemerga nel luogo più emblematico: la FIAT. Ed è anche naturale che i nostalgici della classe operaia come classe generale siano tentati di risfoderare le armi... Al fondo di queste vicende persiste dunque una concezione che vede nella fabbrica e nei settori storici della classe operaia il centro delle rappresentanze del conflitto sociale. Ma ormai la critica è nelle cose più che nelle idee. Se il PCI infatti ha scelto che il capitalismo deve essere guidato ma non superato, è anche perché sa bene che nella realtà non esiste più alcun soggetto storico in sé abilitato ad assumere quest'onere per conto dell'intera società."

Da apologeta convinto e coerente di un capitalismo "guidato" (guidato ad essere sempre più tale), ma certamente non fesso, Bolaffi indica chiaramente come stanno le cose nel campo sindacale e politico "operaio"-borghese. Una volta disconosciuta la classe operaia come "soggetto storico generale" (e le Tesi del PCI non lasciano adito a dubbi quanto a ciò) ed una volta.accettato che il capitalismo non può essere "superato", ogni ritorno alle armi della lotta operaia diventa un'operazione "nostalgica" priva di prospettive (salvo quella, diciamo noi, di mantenere il controllo su una classe che, guarda un pò, esiste e conta).

Evidentemente, noi che crediamo al ruolo oggettivamente crescente del lavoro salariato, al crescente antagonismo che esso comporta rispetto al capitale, alla centralità di esso per l'intera società in quanto storicamente portatore dell'istanza socialista, più che mai attuale, respingiamo con ribrezzo la "teoria" secondo cui "i conti sociali si fanno sempre meno in fabbrica e nei luoghi storici della produzione" ragion per cui sarebbe perfettamente inutile che gli operai si agitino. Al tempo stesso riconosciamo, però, come tortuosamente ha riconosciuto Rieser, che le armi della lotta oggi rinfoderate devono esserle sino in fondo, e cioè secondo principi e "progetti" anticapitalisti. "Altrimenti - rubiamo ancora una volta la parola a Rieser -, si riapre il rischio che la mobilitazione di questi giorni, anziché essere una tappa di una ripresa sindacale e politica, produca ulteriori elementi di sfiducia e di distacco nel rapporto tra lavoratori e sindacato".

D'accordissimo, "come sempre". Ma di che e di chi parla la favola?