I DISOCCUPATI SI ORGANIZZANO:
FUORI O DENTRO IL SINDACATO?
Il tanto decantato "miracolo economico" degli anni '80, questo è certo, non ha ridotto la disoccupazione, per lo meno in Europa e in Italia. Anzi, ha perfino esteso l'area del lavoro nero e super-sfruttato.
Ed ora, proprio dalle migliaia e migliaia di senza-lavoro cominciano a venire segnali di una nuova volontà di lotta e di organizzazione. A Napoli anzitutto (con il "Movimento di lotta per il lavoro"), ma non solo a Napoli. La stessa CGIL, come del resto il PCI, ne sono investiti in pieno.
Sta avvenendo una cosa curiosa: per la prima volta nel dopoguerra, una fase di "ripresa economica" non fa diminuire i disoccupati, ma anzi in alcune zone, come nell'intero Sud, li fa aumentare e di molto.
Curiosa non significa inspiegabile. Spiegarla è, con i criteri marxisti, del tutto possibile e crediamo di averlo fatto, almeno a grandi linee, altrove, parlando sia delle caratteristiche che la "ripresa" ha, sia di quella linea dei "sacrifici necessari" per il bene dell'economia nazionale che ha avuto effetti negativi per il proletariato anche in questo campo.
Qui ci limitiamo ad assumere ciò come un dato di fatto ed a discuterne alcune conseguenze.
Auto-organizzazione per la lotta ed obiettivi unificanti
La prima è la constatabile ripresa di una tendenza dei disoccupati ad organizzarsi. Questa tendenza non è certo scontata, tutt'altro. Per i disoccupati l'organizzazione collettiva e stabile è un punto d'arrivo, non di partenza. Materialmente divisi ed in concorrenza tra loro sul mercato del lavoro, i disoccupati accedono al momento collettivo come ad una conquista. Una conquista spesso precaria e rimessa continuamente in discussione tanto dall'illusione di una personale qualificazione che faccia emergere il singolo dalla "massa", quanto dalle sirene messe in azione dai centri clientelari, quanto, e più spesso, dall'apatia e dalla sfiducia nella possibilità di cambiare, con la lotta, la propria condizione.
Solo attraverso l'organizzazione i lavoratori disoccupati possono entrare in lotta. Solo attraverso la mobilitazione e la lotta i disoccupati imparano davvero ad organizzarsi, ad avere fiducia nella massa organizzata come "comunità" di interessi e di intenti capace di strappare alle controparti (governo centrale o locale, singolo padrone, uffici di collocamento, etc.) ciò che al disoccupato isolato è precluso.
Soltanto l'organizzazione e la lotta proprie e del movimento di classe più in generale, consentono alle diverse "figure" dei senza-lavoro (scolarizzati e non, giovani e non, uomini e donne, bianchi e neri) di unirsi, sottraendosi al potente ricatto delle leggi di mercato e delle leggi statali che tendono a dividere, anche artificialmente, questa massa. E, infine, soltanto una lotta imperniata su obiettivi egualitari e generali può essere capace di far superare frammentazioni tanto oggettive quanto, entro una certa misura, obsolete.
Si può dire senz'altro che la ripresa dell'organizzazione dei disoccupati a Napoli, che si è espressa nel "Movimento di lotta per il lavoro", ha fatto tesoro di questi "insegnamenti" che vengono da precedenti esperienze di lotta (non solo né principalmente locali). Questo movimento si è dato una forma di organizzazione particolare. Non si tratta delle "vecchie" liste di lotta. Di queste si riconosce giustamente che costituirono un potente fattore di richiamo all'organizzazione collettiva dei senza-lavoro e che diedero, negli anni '70, un duro colpo alle aggregazioni clientelari di Napoli e provincia. Ma, altrettanto a ragione, si rileva che la DC ed altri partiti dell'area di governo hanno appreso col tempo a servirsi delle "liste" non come strumenti di lotta, ma come armi contro la lotta unitaria di occupati e disoccupati.
Per questo si è andati ad un movimento "aperto", che rivendica il lavoro o, in mancanza del lavoro, il salario garantito per tutti i proletari disoccupati (forma dell'organizzazione ed obiettivi, naturalmente, si tengono, nel senso che la prima è funzionale ai secondi).
Il "Movimento di lotta per il lavoro", presente a Napoli in modo abbastanza esteso e capillare nei quartieri più proletari, si prefigge di consentire il massimo di vera partecipazione alla vita collettiva del maggior numero di disoccupati possibile. Si configura come un'organizzazione di lotta e per la lotta, perché, senza la lotta proletaria, l'unico destino dei disoccupati è quello di passare la vita tra incertezza, stenti, brutale sfruttamento e umiliazioni. Le regole del "gioco" capitalistico, un "gioco" fruttuoso per gli sfruttatori, assai gramo per gli sfruttati, non prevedono altro. Lo scrivono gli stessi documenti ufficiali: fino al 2000, scrive ad es. la "Relazione alla Conferenza per lo sviluppo dell'Area metropolitana di Napoli", la disoccupazione è destinata ad aumentare in molte aree del Sud (e del "Sud" del mondo...).
Se si vuole cambiare una situazione che vede da un lato operai spremuti fino all'osso e lavoratori disoccupati tenuti "in riserva" come ricatto, dall'altro capitalisti che s'ingrassano di profitti e cosche (altrettanto capitalistiche) clientelari e mafiose che sfruttano a dovere la condizione di precarietà permanente di tanti lavoratori, se si vuole cambiare una situazione sociale e politica che penalizza insieme lavoratori occupati e disoccupati, salariati stabili e precari, è necessaria appunto una lotta organizzata che metta in campo e riunifichi tutte le energie potenziali oggi disperse. Una lotta di disoccupati, di lavoratori precari organizzati che non si separi, né tanto meno si contrapponga, ma al contrario si rapporti costantemente ai lavoratori occupati ed alle loro lotte (assai significativa è stata, a questo riguardo, la solidarietà dei disoccupati con gli operai Italsider).
È evidente che una tale prospettiva, l'unica - del resto - che non si accontenti dei pannicelli caldi che lasciano le cose al punto in cui sono, richiede un'organizzazione dei disoccupati estesa al di là dei confini territoriali di un singolo comune, si tratti pure di una metropoli come Napoli. Lo richiede anzitutto per la forza delle resistenze capitalistiche da vincere onde poter conseguire materiali e tangibili risultati. Ciò è evidente alle avanguardie più coscienti e lo è più ancora, staremmo per dire, all'avversario di classe che ha fatto calare una rigida cappa di silenzio intorno a questa esperienza di riorganizzazione dei disoccupati.
Qui vi è una contraddizione oggettiva: l'auto-organizzazione dei disoccupati per la lotta è ripresa a Napoli, favorita dalla maggiore acutezza del problema e dalla sedimentazione di precedenti esperienze di lotta (non per caso il punto di riferimento è stato Banchi nuovi). Ma, per poter sprigionare tutte le sue potenzialità, per non essere lentamente asfissiata nella dimensione locale dal sapiente tiramolla delle "aperture" di questo o quel settore delle istituzioni locali, questa ripresa ha un bisogno vitale di estendersi oltre Napoli. Come più in generale, ha un bisogno vitale di un più complessivo rilancio del conflitto di classe.
La CGIL volta pagina o tenta la quadratura del cerchio?
Qualche segnale interessante, sotto questo aspetto, sta venendo e dev'essere valutato con molta attenzione anzitutto dai rivoluzionari.
Negli scorsi anni l'acutizzarsi del problema disoccupazione ha avuto conseguenze visibili anche nel PCI e nella CGIL. Le pur episodiche marce annuali per il lavoro organizzate dal PCI, le meno occasionali esperienze di lotta dei comitati per il lavoro in regioni come la Calabria e la Sardegna, la decisione della CGIL di aprire formalmente le proprie porte ai disoccupati costituendo i CID (Centri di informazione per i disoccupati) e poi alcuni Comitati per il lavoro, sono, da un lato, la risposta ad una pressione della massa dei senza-lavoro, dall'altro una sollecitazione ad organizzarsi rivolta a questa stessa massa.
Il recente dibattito nella FGCI e nel PCI sulla proposta (di lotta o parlamentare?) del "reddito minimo garantito" e la recente Convenzione nazionale dei Cpl e dei CID affiliati alla CGIL testimoniano che queste organizzazioni, a cui guarda tuttora la parte meno rassegnata dei senza-lavoro, sono investite in pieno dalla questione.
Quale la loro risposta? Occupiamoci qui della CGIL, rinviando ad una futura occasione l'esame delle proposte e delle iniziative di FGCI e PCI.
La CGIL ha riconosciuto che "è mancata finora una battaglia per il lavoro" (così Cazzola nella relazione introduttiva alla Convenzione di Bari). Ammissione significativa di un sindacato che, come gli altri sindacati europei (a proposito di "corporativismo"!), non ha avuto, in questo campo, "un vero e proprio impegno politico".
A questo riconoscimento si accompagna la percezione del "rischio" di una possibile rottura tra il sindacato ed "una intera generazione di giovani lavoratori precari, disoccupati, immigrati".
Ma perché è avvenuto tutto ciò, indebolendo insieme disoccupati e occupati?
La risposta rinvia ad un nodo di fondo. A come, cioè, il sindacato ha accettato, almeno dalla "svolta" dell'EUR in poi, di farsi carico della difesa e della promozione dell'"economia nazionale". Dalla accettazione delle "compatibilità" capitalistiche è derivata un'impostazione complessiva della politica sindacale che nei fatti ha subito la ristrutturazione di questi dieci anni puntando, nella migliore delle ipotesi, a limitare i danni per i lavoratori occupati. Va da sé che, mentre la ristrutturazione e la più generale offensiva "neo-liberista" erodeva a fondo la forza della classe operaia occupata, tagliando ad un tempo addetti e salario reale, un solco profondo si scavava tra le esigenze di difesa di chi comunque manteneva un posto di lavoro e chi veniva espulso dalla produzione o era impossibilitato non dalle sue "incapacità", ma dalle ferree leggi del profitto, ad entrarvi.
Questi ultimi, anzi, finivano con il rappresentare un mezzo di ricatto verso i lavoratori occupati.
I risultati di questa politica sono sotto gli occhi di tutti: profitti e rendite di ogni tipo sono saliti alle stelle, concentrandosi ulteriormente; salari, occupazione e forza organizzata dei lavoratori sono diminuiti senza sosta. Ma il danno tra tutti più grave è che è venuta consolidandosi, nel sindacato, una "cultura" secondo cui i conti aziendali e i vincoli della concorrenza internazionale, entrambi dettati dal capitale, sono variabili indipendenti e sovrane, mentre il salario, l'orario di lavoro (che si sta allungando di fatto ovunque!) e l'occupazione, ovvero la condizini di lavoro e la forza dei lavoratori, sono variabili dipendenti e subordinate.
Di qui il fatto che produttività ed efficienza, flessibiltà e mobilità siano diventati i mostri sacri davanti ai quali inchinarsi in ogni contrattazione. E quando pur si è ripreso a contrattare occupazione aggiuntiva, lo si è fatto e lo si fa nelle forme più accettabili per le aziende: giovani lavoratori, assunti a termine, deboli sindacalmente, poco costosi (e più profittevoli perciò) grazie ai salari inferiori ed agli sgravi fiscali, spesso inseriti in accordi che penalizzano i "vecchi" occupati (turni di notte, aumento di ritmi e di cadenze, mobilità esterna e qualche volta anche cassa integrazione). Insomma accordi a costo zero per le aziende, spesso più subiti che accettati dai lavoratori interessati. Per arrivare, infine, alla sempre più diffusa monetizzazione della mobilità, agli straordinari generalizzati, alle quote di assunzione di figli di dipendenti, e così via.
È abbastanza, crediamo, per comprendere da un lato le tante resistenze interne alla stessa CGIL (di CISL e UIL è inutile starne a parlare...) all'apertura nei confronti dei disoccupati, e dall'altro lo scetticismo dei disoccupati nei confronti di un sindacato che con la mano destra firma simili accordi e con la sinistra apre le porte dei "Comitati per il lavoro".
Eppure, lo dicono le cifre (raddopio nell'88 dei disoccupati iscritti alla CGIL, addirittura più che triplicati in Sicilia), lo dice la affollata e viva Convenzione di Bari, una attesa, una domanda di impegno alla CGIL sale.
Come vi ha risposto il vertice della Confederazione? Andando, alla lettera, in controsenso rispetto alle necessità di una lotta organizzata e di massa dei disoccupati quale parte del fronte unitario dei lavoratori. Questo per lo meno nelle considerazioni ed indicazioni di Trentin. Secondo la concezione del suo segretario, la CGIL mira sì alla "rappresentanza" del vasto arcipelago del lavoro precario e della disoccupazione, ma in quanto rappresentanza (con o senza lotta?) di tanti individui diversi e - va da sé - distinti e separati da portare e "far valere" nelle sedi istituzionali di mediazione e di contrattazione. Trentin ha respinto quasi con sdegno la prospettiva della rivendicazione del "lavoro eguale per tutti", di un "lavoro qualsiasi", contrapponendovi la prospettiva di "lavori diversi secondo i bisogni degli individui", "il diritto non ad un lavoro qualsiasi ma ad un lavoro scelto". Gli ha replicato, con sacrosanta passione, il n. 6 di "Banchi nuovi": "Ci sforzeremo di spiegarlo, questo loro "diritto", a chi schiatta nei cantieri edili in subappalto o a chi, fuor di adulti disoccupati, passa la propria giornata (lavorativa) fra l'ossido di carbonio degli scarichi di migliaia di auto a vendere fazzolettini, sigarette, giornali, cianfrusaglie. Ripeteremo loro che non dovranno rivendicare un "lavoro qualsiasi", magari stabile e garantito con tanto di cassa mutua, bensì ergersi - ben inteso, da individui - per esigere una qualità... ovviamente compatibile con i tempi della crescita economica" capitalistica.
Con decisione Trentin ha inoltre respinto come "assistenzialistica" la proposta, formulata dalla stessa FGCI, di un "reddito minimo garantito" per tutti i disoccupati, contrapponendovi quella, ci sia consentito dire umoristica, di un "welfare state personalizzato", ossia che dà a ciascuno, con l'affetto di un buon padre/madre di famiglia, ciò che il ciascuno si aspetta. Sorvolando sulla piccolezza (viene in mente il Batini...) che da un decennio almeno assistiamo allo smantellamento vero e proprio del "welfare" (per così dire) sul versante della spesa sociale, ed alla sua rigorosa "personalizzazione" sulle esigenze capitalistiche (l'assistenzialismo ai poveri... padroni). Sorvolando bellamente sulle immani risorse che un'effettivo soddisfacimento delle esigenze sociali della massa dei disoccupati richiederebbe, e sulla asprissima lotta di classe (ahi!) a ciò indispensabile, se non si tratta di chiacchiere.
Nonostante ciò, e dobbiamo ammettere che non ci attendevamo dal vertice CGIL qualcosa di sostanzialmente diverso, nonostante la sfiducia e la rassegnazione che una tale impostazione può produrre in settori di disoccupati che si affacciano per la prima volta alla lotta, non pensiamo affatto che la partita sia chiusa, né in via complessiva, né entro gli stessi organismi che comunque la CGIL ha attivato (ed entro alcuni dei quali c'è una certa spinta verso la lotta), né entro il perimetro toccato dalla proposta del "reddito minimo garantito".
La durezza delle contraddizioni materiali, il riaccendersi della lotta operaia, lo stesso positivo impulso del "Movimento di lotta per il lavoro" concorrono, ostacolando il disfattismo dei vertici confederali, a favorire le tendenze alla estensione della lotta organizzata dei disoccupati. Ai movimenti di massa, si sa, non si possono e non si debbono chiedere, specie in fasi come queste, "miracoli rivoluzionari". All'Organizzazione rivoluzionaria, per minuscola che sia, si può e si deve chiedere di agire sistematicamente da "nucleo più organizzato ed illuminato", a sostegno dell'estensione ed unificazione del fronte di classe, compito nel quale nessuna forza sociale "spontanea", foss'anche la più puramente "operaia", può sostituirla.