DOSSIER - Lotte operaie

 

IL CONTRATTO

DEI DIPENDENTI PUBBLICI

 

La rampante borghesia italiana è in ritardo, rispetto ai suoi concorrenti, nella ri-organizzazione in senso "efficientista" della propria macchina statale. Da qui un attacco sempre più deciso del governo alle condizioni di lavoro dei pubblici dipendenti.

Questa "efficienza", benché si nasconda demagogicamente dietro i "diritti degli utenti", va in controsenso rispetto ai bisogni dei lavoratori di potenziare i servizi "socialmente utili". E questo il terreno su cui i pubblici dipendenti possono, difendendo se stessi, realizzare l'unità con l'intero fronte del lavoro salariato.

Ad oltre un anno dalla scadenza (gennaio '88), i contratti dei dipendenti pubblici sono ancora ben lontani dal loro rinnovo. L'enorme ritardo, tuttavia, non "scandalizza "più nessuno ed anche gli stessi lavoratori si sono - pur controvoglia - rassegnati a quella che è ormai diventata una consueta routine: le ipotesi di piattaforma iniziali vengono "verificate" nel corso del triennio di durata contrattuale e quindi definite soltanto a consuntivo, in base alle effettive disponibilità di bilancio.

Riguardo al triennio '89-'91, per la verità, i conti del Governo sono già bell'e fatti e la disponibilità finanziaria appurata è risultata eguale a zero. L'offerta massima - bontà sua - si limita al contenimento degli aumenti entro 1'1 % del tasso di inflazione programmato (cioè due o tre punti in meno rispetto a quello effettivo), mentre non è stata del tutto archiviata l'ipotesi di uno slittamento, se non addirittura di congelamento, del rinnovo.

Il deficit pubblico - si dice - ha raggiunto il limite di guardia ed ha fatto scattare l'"allarme rosso", rischiando di compromettere la 5a posizione mondiale di potenza industriale raggiunta dall'operosa "Azienda Italia" (e soprattutto, i sostanziosi profitti e i lauti dividendi, che continuano a registrare sempre nuovi records).

Ma le difficoltà di bilancio non possono rappresentare un motivo sufficiente per giustificare un attacco deciso e profondo alle condizioni di lavoro dei pubblici dipendenti, se prima non si "dimostra" che sono loro i diretti responsabili dello sfascio pubblico, come va insinuando un'insistente campagna - alimentata dai periodici blitz ordinati dalla Magistratura - contro l'assenteismo dei lavoratori del settore pubblico. Cambiati i debiti termini, si sta ripresentando lo stesso canovaccio già usato per colpire i lavoratori del settore industriale, quando la causa di tutti i mali veniva individuata nell'alto costo del lavoro, diretta filiazione dell'assenteismo. E, come allora, sotto tale voce vengono comprese tutte le assenze, sia per malattia (per cui, paradossalmente ed in maniera grottesca, tra i maggiori assenteisti rientrerebbero gli ammalati di cancro!), sia per maternità, dono sangue, matrimonio, motivi sindacali, sciopero, ecc.

Contro una malattia così grave, è necessaria una cura oltremodo vigorosa, e quella proposta dal governo non è certamente delle più blande: abbandono dello "schema garantista", con introduzione di cassa integrazione e licenziamenti nei casi di esubero o inefficienza; blocco delle assunzioni e del turn over; mobilità e flessibilità; drastico contenimento degli aumenti economici, privilegiando l'icentivazione e riducendo gli automatismi.

Non meno preoccupate sono le reazioni delle organizzazioni sindacali, che vedono nel forte disavanzo di bilancio - sommato alla ripresa inflazionistica - una seria ipoteca per lo sviluppo dell'economia, degli investimenti e quindi dell'occupazione. Obiettivo principale, dunque, resta la tenuta dell'economia nazionale, che non può prescindere dal risanamento della finanza pubblica.

Al contrario del Governo, però, la ricetta sindacale non prevede "tagli indiscriminati, che si rivolvono in un attacco allo Stato sociale e alle conquiste dei lavoratori", bensì una razionalizzazione strutturale della spesa pubblica, che ne aumenti l'efficienza e consenta una espansione riqualificata soprattutto nel settore dell'occupazione e della formazione. Ma, mentre fanno la voce grossa contro i tagli e i ritardi del Governo, nonché contro ogni tetto precostituito ai futuri miglioramenti - guardandosi, comunque, dal chiamare i lavoratori ad una lotta seria per bloccare i ventilati provvedimenti - i sindacati finiscono per riproporre le stesse misure. Si rivendica, così, l'eliminazione degli automatismi collegati all'anzianità, il rifiuto degli aumenti "indiscriminati" e a pioggia (leggasi "egualitari'), la valorizzazione della professinalità, una ristrutturazione del salario che preveda una significativa parte legata ad incentivi collegati all'efficienza e allo sviluppo della produttività, la flessibilità e mobilità sia all'interno del comparto che intercompartimentale, la fine dei "contratti a vita" utilizzando anche nuove forme contrattuali di natura privatistica, la riduzione degli organici "sovrabbondanti " (e quindi cassa integrazione e licenziamenti).

L'obiettivo proclamato è il miglioramento della qualità dei servizi, in un nuovo contesto di rapporti che vede i "diritti" dei cittadini - e soprattutto del "super-cittadino" capitalismo nazionale - in una posizione di assoluta preminenza rispetto a quelli dei lavoratori (e precisamente in questa direzione va letta anche l'autoregolamentazione del diritto di sciopero nei pubblici servizi). Il riconoscimento di tali esigenze - sostanziato in una specie di nuovo "patto di alleanza" con i cittadini, che implica la riorganizzazione del lavoro e degli orari in rapporto all'intensità della domanda, introducendo flessibilizzazione e turnazione degli orari - dovrebbe portare alla valorizzazione, in termini di mercato, dei servizi pubblici.

La chiave di volta dell'intera manovra è individuata in una radicale riforma della dirigenza che - dotata di ampi poteri e responsabilità e preservata dall'invadenza politica grazie ad una piena autonomia gestionale - dovrà por mano all'ammodernamento dell'amministrazione.

Gli effetti di un tale progetto sui lavoratori non potranno che risolversi in una accresciuta sottomissione al potere dirigenziale, in una ulteriore stratificazione e allargamento della forbice salariale a vantaggio dei settori medio-alti, foriera di nuove divisioni settoriali e, in ultima analisi, di una crescente perdita di forza contrattuale complessiva dei lavoratori.

Ci troviamo forse di fronte "ad un'opera di accorta ingegneria sociale, che divide, ristratifica, restituisce privilegi a figure socialmente obsolete, usa la tecnologia contro l'unità di classe, dà vita all'ideologia della professionalità ", come sostengono alcuni gruppi "di sinistra", che vedono nel sindacato il complice di una manovra congiunta col Governo, anzi il principale nemico, tolto di mezzo il quale i lavoratori riuscirebbero agevolmente ad imporre la propria linea di classe?

La realtà è ben diversa.

Dopo la pesante ristrutturazione nel settore industriale, che ha ridato capacità produttiva e forza competitiva alla nazione, le esigenze di concentrazione e centralizzazione del capitale si riflettono inevitabilmente anche sulla macchina statale, che dovrà a sua volta essere ristrutturata per poter rispondere adeguatamente alle nuove necessità dell'apparato produttivo borghese. La rampante borghesia italiana - in sostanza - registra un pesante ritardo nell'organizzazione strutturale del suo Stato. Occorrono razionalizzazione, capacità di risposte in tempi reali, adattamento rapido e flessibile alle nuove situazioni, decisioni immediate, tagli ai rami secchi.

L'attuazione di un simile obiettivo presuppone, da parte dello Stato, non solo una struttura funzionale, ma un potere decisionale assoluto, che può essere in un certo modo garantito da frizioni e conflittualità sia "istituzionalizzando" il sindacato, sia "corrompendo "gli strati più alti dei lavoratori con incentivi economici e maggior potere, sia attaccando direttamente i settori più bassi, per ridurne la forza ed il potenziale antagonismo.

Non solo. Come il "risanamento" della macchina statale è strettamente connesso al generale progetto di rilancio dell'intero apparato produttivo, così l'attacco contro i pubblici dipendenti - una volta che il principio dell'assoluta preminenza dell'economia nazionale si sarà materializzato in concreti rapporti di lavoro ed in una serie di conseguenti misure antisciopero - è anche una potenziale arma già puntata contro il pilastro portante della classe operaia e pronta a colpire non appena le supreme esigenze della nazione fossero seriamente minacciate.

Quanto al sindacato, il perseguimento degli obiettivi contrattuali indicati non è il frutto di una astuta manovra di supporto all'azione del Governo, perpetuata dall'interno stesso della classe lavoratrice per meglio fotterla, ma la logica conseguenza di una scelta riformista, fondata sull'accettazione delle compatibilità di bilancio, che considera il miglioramento o mantenimento delle condizioni di vita dei lavoratori come una variabile dipendente dallo stato di salute dell'economia nazionale. Ma in una situazione in cui i margini di mediazione si sono relativamente ristretti, non è possibile alcuno scambio "alla pari", per cui l'accettata rottura della rigidità della forza lavoro avrà come contropartita unicamente un indebolimento della forza contrattuale dei lavoratori e del sindacato stesso.

Alla base dello scambio proposto tra salario e produttività (poco salario e molta produttività) vi è la fiduciosa illusione di poter costruire una sorta di contropotere dei lavoratori (anzi: della dirigenza!) che permetterebbe di attuare scelte gestionali svincolate dagli obiettivi (e quindi dal potere) del Governo. I progetti per obiettivi, i premi incentivanti - in barba alle belle speranze - non saranno finalizzati al miglioramento della qualità dei servizi pubblici, ma dell'efficienza statale. Anzi, i tagli di personale e di finanziamenti andranno a colpire proprio i servizi socialmente utili, ma "improduttivi", a favore dei settori preposti al controllo sociale (come, appunto, nel caso della dirigenza pubblica).

La tanto sbandierata efficienza della pubblica amministrazione, lungi dal coincidere (se non nei sogni!) con il potenziamento dei servizi, si risolverà proprio nel consolidamento di una macchina che opera contro i bisogni della società: basti pensare al recente progetto governativo per il risanamento del deficit pubblico, frutto della "capacità professionale" e dell'"efficienza" della dirigenza ministeriale (in probabile attesa del "meritato" premio incentivante, per aver raggiunto l'obiettivo prefissato).

Il problema di poter disporre di servizi sociali organizzati e funzionanti è molto sentito da tutti i lavoratori, per i quali può rappresentare una detrazione o un incremento del salario indiretto. Partendo da qui i pubblici dipendenti possono contribuire ad un reale miglioramento e potenziamento dei servizi, realizzando un vero "patto di alleanza", non con generici cittadini, ma con i lavoratori degli altri settori. Su questo terreno è possibile lo "svuotamento" delle ipotesi sindacal efficientiste, attraverso un "progetto "comune di lotta che porti ad un massiccio "investimento " della grande massa di dipendenti pubblici nei settori socialmente utili e - contemporaneamente - al superamento dell'attuale stratificazione e divisione, per una necessaria riaggregazione di classe.

Soltanto a questo "progetto per obiettivi"potrà essere commissionato l'incarico di realizzare un vero vantaggio sociale.