Alfa-Lancia (FIAT) di Arese e Pomigliano
STORIA DI OPERAI "MATTI" E "CORPORATIVI" E DI BUROCRATI SINDACALI "SAGGI" E...
Esportare l'ordine-FIAT negli stabilimenti di Arese e Pomigliano si sta rivelando un'impresa non propriamente agevole per Romiti e i suoi scagnozzi. Intendiamoci: di colpi alla classe operaia la FIAT ne ha assestati. Ma, come riprovano le vicende degli ultimi mesi, la resistenza operaia è tutt'altro che sbaragliata. Si sta, anzi, temprando nel vivo di scontri con il capitale e di conflitti con i vertici sindacali ricchi di insegnamenti per tutto il movimento proletario.
Tanto prima di Valletta che dopo, la FIAT non ha mai fatto mistero di concepire il proprio rapporto con i lavoratori all'insegna dello sfruttamento più intenso e del comando aziendale più esclusivo sulla forza-lavoro. Ieri come oggi, è questo il suo modo, non anomalo del resto ma coerentemente capitalistico, di intendere e praticare (se ne ha la possibilità le "relazioni industriali" (1).
Non vi era perciò ragione di dubitare che, incorporata - per regalo statale - l'ex-Alfa Romeo, ne avrebbe riorganizzato gli stabilimenti mettendo in discussione le condizioni di lavoro e le garanzie strappate dagli operai con dure lotte. È quanto puntualmente è avvenuto e continua ad avvenire. L'iter di fondo seguito da Agnelli, così come l'obiettivo ultimo perseguito, sono i medesimi ad Arese e a Pomigliano, sicché non ha senso considerare separatamente i due "casi", ciò che tuttora, anche in ambienti "militanti", si continua a fare.
L'attacco all'organizzazione e alla condizione operaia in fabbrica
In entrambi i casi, tanto per cominciare, l'attacco padronale ha preso avvio dai delegati e dagli operai più coscienti. Ad Arese, al primo pretesto "utile", sono scattati 9 licenziamenti politici mirati. A Pomigliano è stata falciata, d'un colpo, con la cassa integrazione, l'intera struttura dei delegati FIOM-PCI.
Nel modo più spiccio e classico, la FIAT si è preparata il terreno per un giro di vite nei reparti sulla massa dei lavoratori. Ecco un primo flash sulla fabbrica "post-moderna", nella quale non ci sarebbe più classe operaia: rafforzamento della vigilanza sui lavoratori, nel tentativo di togliere loro ogni spazio di comunicazione e organizzazione.
In questa stessa chiave il "modello Romiti" realizza la rigenerazione dei capi. Si sa che le moderne tecnologie hanno progressivamente svuotato la funzione "tecnica" dei capi. La FIAT interviene allora curandone minuziosamente l'addestramento politico alla funzione di controllori soprastanti degli operai, con l'obiettivo di farne un apparato rice-trasmittente del sentimento di "appartenenza all'azienda".
Nei confronti dei tecnici, degli impiegati e dei settori più qualificati tra gli operai l'azienda porta avanti una sistematica pressione alla desindacalizzazione, alla desolidarizzazione dal fronte di classe. In cambio, vi saranno i fuori-busta, i cosidetti aumenti di merito, e altre agevolazioni del caso.
In parallelo, la FIAT passa a riorganizzare le linee ed i reparti secondo il criterio della massima intensificazione possibile della produttività del lavoro.
A Pomigliano questo comporta l'abolizione delle "isole" ed il ritorno per tutti alla catena di montaggio, con buona pace delle illusioni tanto a lungo accarezzate sulla possibilità di realizzare nelle imprese capitalistiche un "nuovo modo di lavorare". Sia a Pomigliano che ad Arese è il via libera al parossistico incremento dei ritmi, nel mentre che gli operai vengono privati degli stessi strumenti acquisiti di controllo (lo evidenzia la vertenza sui cartellini alla catena di montaggio della 164 a Milano). La direzione pretende inoltre di gestire unilateralmente la mobilità, la flessibilità, gli straordinari, il lavoro festivo e notturno.
E il rapporto con il sindacato? "Agnelli vuole un sindacato suddito", ha affermato Bertinotti; e non si può certo dargli torto. La FIAT, anzitutto, "salta" sistematicamente la struttura dei delegati, alla quale intende negare di fatto ogni potere contrattuale. In secondo luogo, profittando delle divisioni esistenti tra FIOM, FIM e UILM e della pressocché incondizionata predisposizione di FIM e UILM ad accettare i piani aziendali, ha verso le direzioni nazionali dei sindacati l'atteggiamento "prendere o lasciare" (v. la vertenza aziendale dell'88). In terzo luogo scoraggia metodicamente la sindacalizzazione (specie con la FIOM) e promuovere, invece, quella con il "suo" sindacato di massima fiducia (il SIDA).
Ma, dice il proverbio, non si può vendere la pelle dell'orso prima di averlo ucciso. E l'orso si è dimostrato vivo e in buona salute, nonostante i colpi ricevuti.
L'importanza della risposta unitaria alla Fiat
Ad Arese il risultato più importante conseguito in questi due anni è, a nostro avviso, il recupero dell'unità nella massa operaia e nel consiglio di fabbrica rispetto alle divisioni che si ebbero in passato davanti all'avvento della FIAT ed alla vicenda dei licenziamenti politici.
Due anni fa, infatti, una doppia pericolosa spaccatura indebolì la capacità operaia di fronteggiare l'attacco del padrone. Il "no" operaio alla ristrutturazione FIAT fu massiccio, non plebiscitario. Rimaneva in una parte dei lavoratori il dubbio che valesse la pena "scambiare" un di più di produttività con una maggiore sicurezza del posto di lavoro (messo in forse dai deficit dell'Alfa), un dubbio che albergava, forse, anche in settori non arretrati della massa. Bene: la stessa "cura Romiti", che altro non è - torniamo a ripetere - che l'applicazione delle ferree leggi dello sfruttamento capitalistico del lavoro salariato, ha fatto evaporare questa illusione. Ed è venuta emergendo una sempre più compatta volontà di resistere agli imperativi padronali. Le lotte delle officine contro i ritmi e gli infortuni, la contestazione dell'applicazione dell'accordo, il rifiuto della imposizione degli straordinari (con l'alta adesione agli scioperi indetti il sabato) ed infine la campagna dei "diritti negati" sono stati i passaggi in cui questa forza di resistenza si è trasformata in resistenza organizzata. Nel corso di questa complicata esperienza i delegati ed i lavoratori di Arese hanno anche iniziato a comprendere che, se non si vuole essere sconfitti, bisogna saper contrapporre alla forza centralizzata dell'avversario di classe un adeguato fronte di lotta. L'iniziativa di rivolgersi direttamente ai lavoratori della FIAT di Torino durante la vertenza aziendale è stato un atto esemplare in questa direzione; la solidarietà data agli operai ed ai delegati di Pomigliano in dissenso con i più recenti cedimenti sindacali alle pretese della FIAT ne è stata la logica prosecuzione. Bisogna proseguire su questa strada.
Una seconda spaccatura ci sembra in via di positivo superamento: quella sulla lotta ai licenziamenti politici. Due anni fa la maggioranza dei delegati e dei lavoratori non riuscì a vedere come, attraverso l'espulsione di militanti operai particolarmente combattivi, la FIAT intendesse colpire l'agibilità politica e sindacale di tutta la massa operaia. Sicché venne a determinarsi un certo isolamento dei compagni licenziati. Oggi, anche sotto questo prifilo, si è fatto del cammino in avanti. Lo sciopero del 1 ° febbraio in solidarietà con i licenziati, la raccolta di migliaia di firme perché il ritiro dei 9 licenziamenti venisse inscritto nella piattaforma aziendale, il suo effettivo inserimento entro la piattaforma come aspetto, non secondario, della lotta per l'agibilità politica e sindacale in azienda: questi i passaggi di una progressiva presa in carico della questione da parte di un arco sempre più ampio di delegati e di settori sempre più estesi di lavoratori. Solo in questo modo è stato superato, il rischio (alimentato anche dalle insistenze avanguardistiche e dalle illusioni legalitarie presenti tanto nelle FIM milanese quanto in DP) che la questione uscisse dall'attenzione della massa operaia, la cui forza e la cui lotta erano ieri e sono oggi l'unica garanzia per un definitivo ritorno in fabbrica di tutti i licenziati politici, l'unica garanzia per fronteggiare a dovere lo sfruttamento e il dispotismo capitalistici.
Il sindacato sono i lavoratori organizzati, o no?
A Pomigliano il processo di risalita e di reazione all'attacco della FIAT è stato più tortuoso, perché più fragile vi era e vi è l'organizzazione operaia. Nondimeno risalita vi è stata. A partire dalle timide prese di posizione contro la vendita del gruppo Alfa ad Agnelli, passando attraverso il pronunciamento FIOM contro l'accordo dell'87, una microconflittualità mai completamente domata, l'adesione di massa convinta alla campagna sui "diritti negati" (gli operai di Pomigliano scesero in sciopero e si recarono in corteo a relazionare ai travet inviati dal ministro del lavoro).
La contestazione del recente "accordo" FIAT-sindacati è il punto culminante di questo processo, che non va scollegato, evidentemente, da una più ampia, ancorché irregolare, ripresa dello scontro di classe.
A tutta prima, quanto si è venuto esprimendo nell'Alfa-Lancia e a Pomigliano può dare l'impressione di una ennesima esplosione di collera destinata presto a rientrare come le molte altre che l'hanno preceduta, prima e dopo della gestione FIAT. Così non è. Pur non trovandoci di fronte alla lenta e costante progressione di Arese verso uno schieramento di resistenza non eclatante ma risoluto e difficilmente erodibile, a Pomigliano la classe operaia, e soprattutto la sua parte più avanzata, ha, con le lotte degli ultimi due mesi, bruciato le tappe obbligate sia della ripresa di conflittualità che della ritessitura dell'organizzazione operaia. Vediamolo in breve.
L'accordo che i dirigenti nazionali di FIM, UILM e - alla loro coda - FIOM esaltano e difendono, prevede carta bianca alla FIAT in tema di "ristrutturazione degli impianti, razionalizzazione produttiva, delocalizzazione di impianti e macchine mobilità interaziendale, flessibilità e straordinari". In "cambio", nel quadro di un globale potenziamento delle capacità produttive dello stabilimento ex-Alfa di Pomigliano, la FIAT promette il rientro di 2-300 cassintegrati e 500 nuove assunzioni di giovani.
Nonostante, nel mezzo della "trattativa" (le virgolette sono d'obbligo) migliaia di operai (oltred 6000 firme raccolte) chiedano, in un appello a Trentin e Del Turco, di tenere un'assemblea generale per valutare la base di intesa, i dirigenti dei sindacati metalmeccanici, escludendo dalla fase finale della "trattativa" i delegati delle fabbriche, decidono di firmare.
Dalla massa dei lavoratori di Pomigliano si leva un secco, doppio "NO" sul contenuto e sul metodo (che è, a ben vedere, anch'esso sostanza). I delegati FIOM, che guidano dall'inizio la risposta operaia, affermano che non vi è, con l'accordo, alcuno scambio, se non, come dichiara il segretario del PCI aziendale Barbato (a "Rinascita" dell'8.4.'89), "uno scambio... tra le diverse esigenze della FIAT". L'incremento dell'occupazione, anche giovanile, è una necessità dell'azienda in questo momento, e non una concessione al sindacato. Viceversa ci sono, e pesantissime, concessioni da parte dei burocrati sindacali, che porteranno ad un ulteriore, netto e generale peggioramento delle condizioni di lavoro in fabbrica. Inoltre, denunciano giustamente i delegati più coscienti, con l'uso incontrollato della mobilità, lo scorrimento della mensa, etc., il capitale potrà colpire la già precaria tenuta dell'organizzazione sindacale sul posto di lavoro.
Altrettanto motivata, da un punto di vista di classe, è la denuncia del metodo con cui si è giunti all'accordo-capestro: "un sindacato non è tale se passa sulla testa degli operai"; è "ingiustificato ed inaccettabile consentire all'azienda di aprire e chiudere un negoziato senza la partecipazione negoziale delle strutture di fabbrica" (così in un comunicato del direttivo FIOM di Pomigliano d'Arco).
Tagliati fuori brutalmente da decisioni che riguardano la loro stessa pelle, gli operai e i delegati FIOM contestano il rovesciamento della "democrazia del mandato" in "dittatura del mandato" e portano il conflitto, con la forza della lotta e con una continuità ed un'organizzazione che non ha riscontri nella storia di Pomigliano, nell'intera struttura FIOM e CGIL.
Contro questi "pazzi" e "corporativi" che prendono sul serio le promesse di una vera democrazia sindacale, che pretendono di difendersi come sfruttati (la classe operaia è appunto la "corporazione" dei produttori sfruttati) almeno altrettanto bene di come gli Agnelli affermano i propri interessi come capitale, si è scatenato non solo il livore (noto) dei Morese e dei Benvenuto, ma anche le violente reprimende (forse inattese) dei Del Turco e dei Trentin. Lo scontro, non certo confinato a Pomigliano o nella struttura FIOM campana, è tra due concezioni alternative della democrazia nel sindacato e dello stesso ruolo del sindacato (due aspetti tra loro inseparabili).
E' evidente che chi, sposando sempre più a fondo come propria la causa della competitività dei capitalismo "nazionale", propugna il passaggio del sindacato "da antagonista a gestore", da "sindacato d'opposizione" a "sindacato che partecipa al governo dell'economia" ("gestione" e "governo" che poi, in fin dei conti, inutile dire, restano saldamente nelle mani della borghesia!); chi non perde occasione di rilanciare una politica di "concertazione" che ha prodotto, per il proletariato, solo perdite materiali e di "potere"; chi, nei fatti, accetta il dominio esclusivo della proprietà dell'impresa sull'organizzazione del lavoro, limitandosi al più a piatire un semplice "diritto d'informazione"; burocrati sindacali di tal fatta, che non hanno casa più soltanto in CISL e UIL, trovano non solo giustificato ed accettabile, ma addirittura necessario svuotare non solo la democrazia "assembleare" o "diretta" (iddio ce ne scampi!), ma anche quella "delegata". I campioni di ieri dei referendum (in quanto mezzo da contrapporre a forme più organizzate e militanti di "democrazia" dei lavoratori) oggi li liquidano con disprezzo (in quanto possibile mezzo di espressione, comunque, della volontà dei lavoratori). Non ne parliamo, poi, dei delegati e dei consigli di fabbrica.
Ma il sindacato non è tale se passa sulla testa delle esigenze della classe operaia! Nell'affermarlo, oggi i "matti" di Pomigliano e ieri i loro "colleghi" di Arese, hanno completamente e incondizionatamente ragione. Per quello che può contare, stiamo sino in fondo dalla loro parte e con la loro lotta.
Ci consentiamo "solo" di sintetizzare a modo nostro le lezioni che la lotta di Arese e Pomigliano suggerisce a tutta la classe operaia:
*Di contro ad una borghesia (non è solo la FIAT di Agnelli) che afferma in forma sempre più aggressiva e centralizzata le proprie esigenze, il proletariato, se vuole difendersi con efficacia, deve dire basta ai cedimenti ed agli "scambi" sempre più apparenti e organizzare la propria forza su un programma unitario di rivendicazioni e di lotte.
*L'unità della classe su questa prospettiva di lotta, che non va sacrificata sull'altare dell'unità di sigle, va perseguita sistematicamente (il che ha precise conseguenze, ad es., sullo stesso coordinamento Arese-Pomigliano-Torino e sul modo di concepire le vertenze aziendali) e su scala generale, valorizzando ciò che unisce gli sfruttati e non ciò che li divide (come suggerisce la "saggezza" bancarottiera di certi dirigenti sindacali).
*Il sindacato sono tutti i lavoratori disposti a lottare e a organizzarsi. Il mandato sindacale viene da loro. Chi pretende, in quanto "nostro" rappresentante, di avere un ruolo di "mediazione politica" (tra chi e chi? chi altro gli ha conferito il mandato?) tra lavoratori e capitale, segua Bolaffi al ministero del lavoro.
Ci sarà un equivoco in meno.
(1) Per limitarci al dopoguerra, ricordiamo ai lettori più giovani che, tra il 1949 e il 1971, la FIAT schedò 354.077 operai, tecnici, sindacalisti, politici. Lo accertò agli inizi degli anni '70 un pretore. Su ciò gli Editori Riuniti pubblicarono, a suo tempo, due inchieste di B. Guidetti Serra e di D. Novelli.