Appello della coalizione A.N.S.W.E.R. per una mobilitazione contro la guerra

L’ALTRA AMERICA DICE NO ALLA GUERRA ALL’IRAQ
E SI PREPARA AL 18 GENNAIO!!!

Riceviamo e pubblichiamo una corrispondenza dagli Stati Uniti sul movimento contro la guerra


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Appello di sindicalisti americani contro la guerra

L’11 Settembre 2002 George Bush ha annunciato al mondo che era ora per la banda di terroristi che è al governo degli Stati Uniti di ricominciare a bombardare esplicitamente l’Iraq. Un milione e settecentomila morti e la campagna di sterminio continuata negli ultimi 11 anni non sono più sufficienti. E’ ora di ricominciare una guerra, e non più una guerra fatta "solo" di bombardamenti bisettimanali, di inquinamento di acqua e cibo da uranio impoverito, di embargo di beni primari, di cibo solo in cambio di "petrolio". La guerra dev’essere ancora più esplicita, intensa, estesa: "senza fine".

George Bush ha aspettato l’anniversario dell’11 Settembre per annunciare chiaramente i piani del governo americano, e l’occasione non è una mera coincidenza. L’11 Settembre 2001 è una data fondamentale per il proletariato e la borghesia mondiali. In quella data, l’amministrazione americana ha dichiarato l’inizio di un’impennata di guerra burocratica e militare da esercitarsi contro tutti gli oppositori dell’imperialismo americano (e a danno dei propri concorrenti).

Molta strada è stata fatta in questo anno e tre mesi di distanza dall’11 Settembre. Il movimento di opposizione negli Stati Uniti si è messo attivamente in cammino. Alcune date sono importanti per chiarire la direzione in cui questo si sta muovendo. Le date più importanti sono la manifestazione del 29 Settembre 2001, del 20 Aprile 2002, del 26 ottobre 2002, e tutte le attività che sono state organizzate negli ultimi tre mesi nella gran parte degli Stati Uniti.

L’11 Settembre 2001 il movimento no global si stava preparando a scendere in piazza contro il FMI e la BM, in una manifestazione che si preannunciava partecipata ed importante sull’onda di Seattle, Praga, Toronto e Genova. Ma la caduta delle due torri e un pezzo del pentagono crea sconcerto, paura e smarrimento. Chi è il vero nemico, cosa significa patriottismo, con chi e contro chi bisogna stare: tutte queste sono domande complesse a cui non si riesce a rispondere in modo univoco.

Perciò, dopo l’11 Settembre il "popolo di Seattle" prende tempo. Il vertice del FMI viene cancellato. La manifestazione del 29 viene cancellata. Il sindacato tace o sussurra. Alcune organizzazioni si uniscono in una nuova coalizione, l’International ANSWER, Act Now to Stop War and End Racism. ANSWER decide che il 29 di Settembre deve essere comunque una giornata di protesta. Dice che bisogna dare al mondo una prova del fatto che esiste una voce negli Stati Uniti che non si allinea al governo, ed organizza per il 29 Settembre una giornata contro la guerra e il razzismo.

All’appello risponde soprattutto la nuova generazione. In piazza il 29 Settembre 2002 scendono 10.000 giovanissimi. Dicono che l’11 Settembre è stata una tragedia, ma che non vogliono nessuna guerra in loro nome. "Not in our name", si dice in piazza, ed il motivo è che "Our grief is not a cry for war" ("il nostro dolore non è un grido a favore della guerra") perché: "An eye for an eye makes the world blind," e perché "War is not the answer." La "guerra non è la risposta giusta", dice il movimento. Ma il movimento non sa ancora dire "perché". Il "nostro dolore non è un grido a favore della guerra", si limita a dire, e fare guerra all’Afghanistan dopo l’11 Settembre equivale a togliere un "occhio" all’Afghanistan in risposta all’"occhio" che "loro" hanno tolto a "noi", e questa pratica prima o poi renderà tutto il mondo "cieco".

"Occhio per occhio" è lo slogan, invece, che più chiaramente localizza politicamente la piazza a quel tempo. I giovani in piazza dicono che fare guerra all’Afghanistan equivale a togliere "occhio" per "occhio". Ma la caduta delle torri gemelle non è un "occhio". La caduta delle torri gemelle è una prima, "piccola" reazione delle popolazioni mediorientali alla infinita catena di oppressione e di crimini che anzitutto per mano degli Stati Uniti esse debbono subire, è un primo, lieve pizzicotto che esse hanno dato allo stesso popolo americano perché si svegli. L’11 Settembre è il segnale più evidente che le popolazioni mediorientali sono stanche di essere dissanguate. Non si tratta di "occhio per occhio", ma di politica sterminio da un lato e di un pizzicotto, ancora, dall’altro. Per questo sono cadute le due torri ed un pezzettino del Pentagono: per una storia di sfruttamento pianificata esattamente da quei luoghi, le torri gemelle ed il pentagono, simboli rispettivamente economico e militare dello stato e del capitalismo americano, e mondiale.

Questo ragionamento è assente in piazza. In piazza a fatica si parla di colonialismo, di guerra interna contro colorati e immigrati, di guerra in Iraq, Jugoslavia, Panama, Filippine, in Africa, Medioriente, Sud America... Il movimento non riesce ad elaborare il perché materiale, storico e politico della caduta delle torri gemelle. Ma pur con questa mancanza, pur nella resistenza a capire che il nemico non sta in Afghanistan, ma in casa loro, ci sono tutti i presupposti in piazza il 29 Settembre per una crescita futura. In piazza, infatti, c’è la nuova generazione. Quella stessa nuova ed inesperta generazione che più che mai, nella storia del mondo, è stata svezzata ed educata al capitalismo ed all’americanismo. E questa generazione (una piccola avanguardia di essa) è presente in piazza in opposizione al proprio governo nel momento esatto in cui più che mai il governo la richiama a sé. I giovani dicono NO al governo proprio mentre questo chiede loro di essere più obbedienti e "patriottici" che mai. E questa loro risposta spontaneamente controcorrente è il suo più grande e pericoloso segnale di forza, benché con il grande limite appena detto.

La presenza e lo spessore politico cambiano (in meglio) il 20 Aprile 2002, quando sono in 100.000 a Washington a gridare FREE PALESTINE!! Ma anche questa volta l’America bianca, il no-global movement non convince. In quella data è la comunità islamica che costituisce i 2/3 dei manifestanti. La comunità islamica viene in aiuto al proletariato americano e manda un segnale esplicito di solidarietà al popolo palestinese e di opposizione ai governi israeliano ed americano. Le masse islamiche dicono NO al governo americano, NO agli assassini israeliani, NO alle loro politiche di morte, NO alle loro politiche di razzismo. La comunità islamica dice NO! Free Palestine! Stop Killing the Palestinian people! Stop Killing the Iraqi people! No Blood For Oil! Ed il suo è un NO forte e chiaro, che supera di gran lunga le voci bianche americane, e mostra loro la giusta direzione della lotta.

26 Ottobre 2002. La data è cruciale. Il governo americano ha aspettato l’anniversario dell’11 Settembre per rendere esplicito il suo bisogno di ri-attaccare il popolo irakeno. Il piano era far leva su sentimenti "patriottici" per far passare un "nuovo" messaggio di guerra. Ma da qualche mese l’America mormora una scomoda relazione con l’amministrazione Bush. I 2 milioni di posti di lavoro persi in due anni cominciano a farsi sentire, la lotta ai "civil rights" entra in tutte le case, nei telefoni, le e-mails, le carte di credito, i libri letti e le attività nel tempo libero tutti controllati. La social security coinvolge tutti i cittadini e il Patriot Act persegue tutti gli immigrati. Tutti rientrano nello stereotipo del terrorista: da gennaio 2003 tutti i maschi delle università americane devono dichiarare tutte le organizzazioni delle quali hanno fatto parte, le armi che sanno usare; tutti gli studenti maschi mediorientali devono rilasciare fotografie, impronte digitali ed interviste prima di iscriversi ad un esame, e tutti gli studenti internazionali devono essere intervistati. Ma che social security è se il budget per l’esercito toglie soldi per la scuola, la sanità, e la sicurezza sul lavoro? Che social security è se sempre più gente dorme sulle strade, se due quinti (il 40%) della popolazione sono senza assicurazione sanitaria, se i soldi per le armi e per l’esercito affamano ed ammalano tutto il resto della popolazione? Che social security è se la recessione, l’aumento della disoccupazione, gli scandali nelle maggiori corporazioni, l’aumento del budget militare, la diminuzione della sicurezza sul lavoro, gli attacchi all’attività sindacale (già così tanto ostacolata dalle leggi) e i tagli alla spesa sociale significano una vita sempre meno tutelata per la classe lavoratrice? Che social security è, se questo sistema non regge che a mezzo di un crescente lavoro in nero, dello sfruttamento a costo zero dell’esercito di 2 milioni di lavoratori detenuti nelle prigioni americane dai giganti della Westinghouse, AT&T, Sprint, MCI, American Express, General Electric, del costante e vertiginoso aumento della violenza di stato e, di converso, della violenza di strada?

Tutte queste domande formano un brusio quotidiano. Ed il governo lo sa, ed attende risposta. Ad attendere una risposta sono anche i proletari e i capitalisti degli altri paesi del mondo. E il 26 Ottobre l’"altra America" dice NO!

Il 26 Ottobre in piazza ci sono già 100 mila persone alle 11 di mattina. 400 bus sono partiti la sera prima da diversi angoli degli Stati Uniti per arrivare a Washington. Altri 200 raggiungeranno San Francisco. La manifestazione è convocata da International Answer, e ha nome "Stop the War before it Starts". International Answer ha tra le più attive organizzazioni firmatarie l’IAC, Al-Awda, Nicaragua Network, Pastors for Pace, School of the Americas Watch, Partnership for Civil Justice, ma tra gli organizzatori quel giorno ci sono anche "not in our name", "global exchange" ed altre organizzazioni più moderate. Sul palco si alternano voci democratico-istituzionali stile Jesse Jackson o la repubblicana Cyntia Mckeney, e voci più esplicitamente radicali come Brian Baker, Sarah Flounders o Larry Holmes del WWP. L’opposizione a Bush mobilita da una parte repubblicani "pentiti" e riformisti democratici, e dall’altra segmenti del movimento che dichiarano esplicitamente l’intenzione di portare la guerra al capitalismo in casa propria, ove ha origine. La pluralità di voci molli e radicali, democratiche e rivoluzionarie si alterna sul palco a riflettere le contraddizioni e la pluralità interne al movimento anti-war americano.

La manifestazione coinvolge i gruppi sociali più disparati. Una grossa mobilitazione viene dalle chiese, dagli ex veterani, dal vecchio movimento contro la guerra in Vietnam, ma la maggior parte del movimento è ancora rappresentata dalla fascia giovane della popolazione piccolo borghese bianca. Meno rappresentati il movimento nero, ancora meno la comunità islamica. Per la prima volta in un anno, però, quasi tutte le generazioni sono presenti: giovanissimi e anziani, bimbi e adulti di mezza età. In tutto quasi 400 mila persone sfilano nelle piazze di Washington e San Francisco, arrivando, nella capitale, a circondare la casa bianca, con una partecipazione che non si vedeva dai tempi della guerra del Vietnam, e che la gran parte del movimento americano non aveva mai visto prima.

Ancora una volta, la piazza dimostra sia la forza che la debolezza del movimento. La forza del movimento è nella sua capacità di percepire l’ampio raggio e la pericolosità delle azioni e delle menzogne del governo. In piazza si sollevano temi quali la guerra in Iraq, in Afghanistan, in Colombia, nelle Filippine ed il Patriot Act, ed il loro sollevamento quantitativamente inaspettato è un segnale, credo, di forte incoraggiamento alla lotta mondiale. Ciò che manca ancora a questo movimento, ed è invece urgentemente necessaria, è una adeguata politicizzazione.

Il movimento anti-war americano tradisce lo svuotamento della coscienza politica americana, la mancanza da lungo tempo di una coscienza di classe organizzata. La presenza in piazza del movimento si esprime ancora in larga prevalenza attraverso fantocci, abiti carnevaleschi, colori e imitazioni. Un eccesso di colore che non può certo compensare la superficialità del messaggio politico. La nuova generazione sfila nelle strade focalizzata all’attenzione dei media, più che a quella del governo. Sfila per farsi vedere e sentire, ma i suoi slogan sono ancora deboli e la sua presenza in piazza è ancora piuttosto sbrindellata. Gli slogan più ricorrenti sono: What do we want? Peace! When do we want it? Now!, alternato ad un altro che chiarisce la prospettiva debolmente pacifista e piuttosto istituzionale che ancora lo attanaglia. Il movimento canta di essere la faccia della democrazia, mentre la faccia di Bush è quella dell’ipocrisia: "This is what democracy looks like/this is what hypocrisy looks like". Ogni contestualizzazione storica e materiale della guerra senza fine e della svolta a destra della destra e della sinistra mondiali sono ancora pressoché assenti dalla maggior parte della piazza. La prospettiva di lotta è riconosciuta da tanti ancora come individuale, e non sistematica. Vogliono che ci si liberi di Bush: "Drop Bush not bombs", e resistono a qualunque slogan che renda esplicito che la violenza burocratica e militare sono costitutive del governo americano. La gran parte di questo movimento fatica ancora molto a riconoscere il proprio governo come un apparato di violenza organizzato e sistematico e si limita a dichiarare che non vuole più guerre razziste, violenza o "odio" (1-2-3-4 we don’t want this racist war - 5-6-7-8 no more violence no more hate), che non vogliono che si versi sangue per il petrolio, (No blood for oil), che non vuole morire per la Texaco (No George, we won’t go, we won’t die for Texaco). Sì, lo so, non è poco, non è poco, specie qui, proprio dentro il cuore fortificato del capitalismo mondiale, ma mi fa una certa rabbia che slogan più efficaci e pungenti come: "Hey George we know you, your daddy was a killer too!" ("Ehi, George, noi ti conosciamo bene, anche tuo padre era un killer") o "Ehy George, what do you say, how many kids have you killed today?" ("Ehi, George, cosa ci dici, quanti bambini hai ucciso oggi?"), o "Us-Cia, biggest terrorist in the world today" ("Stati Uniti e Cia, i massimi terroristi nel mondo di oggi") rimangano isolati perché rifiutati dalla massa dei manifestanti. Solo le frange più radicali del movimento costituite per lo più dai contingenti della comunità islamica e dagli immigrati puntano alla faccia di Bush come a null’altro che al rappresentante provvisorio di interessi capillarmente pianificati su scala mondiale, espressione di una violenza né casuale o individuale, ma sistematica, sanguinaria ed organizzata.

La limitatezza politica dell’attuale movimento nord-americano, fortemente comprensibile alla luce della sua origine sociale e della storia della lotta di classe negli Stati Uniti e nel mondo, è riconosciuta come problema all’interno dello stesso paese. Il movimento stesso riconosce la propria scarsa politicizzazione. Di due cose il movimento è sempre più cosciente. La prima, è che il sentimento anti-war in America è sempre più diffuso. Il più recente sondaggio d’opinione del "Los Angeles Times" dice che i pro e contro la guerra sono rispettivamente il 40% e 60% della popolazione al 20 Dicembre 2002. È un fatto di grandissima importanza, specie se si ricorda quanto sostegno incontrò Bush solo un anno fa nello scatenamento dell’aggressione contro l’Afghanistan. Ma il movimento è anche cosciente che se a questo 60% della popolazione "contraria" viene chiesto "perché" è contro la guerra, la risposta media nella maggior parte delle volte non si discosta molto dal generico "Perché è sbagliata". Il problema più grande che si percepisce all’interno del movimento no-war oggi è che è necessario rompere la gabbia della propaganda di regime con la quale viene svezzato dalla nascita il proletariato americano, e ci si comincia a rendere conto che è finalmente possibile spezzare il meccanismo ipnotico prodotto sui lavoratori degli Stati Uniti dal sistema educativo-culturale-massmediatico poiché più che mai questi lavoratori stanno provando sulla propria pelle le contraddizioni esplosive del sistema che li governa e li schiaccia. Sotto questo aspetto mi pare che il movimento di opposizione alla guerra stia negli ultimi tempi crescendo anche in qualità.

Sono in corso infatti centinaia di iniziative in tutti gli Stati Uniti volte allo studio e all’approfondimento nei campus e nelle chiese, oltre che alla mobilitazione e all’organizzazione. Ci sono state decine manifestazioni a seguito del 26 ottobre. Novembre è stato un mese denso di attività in tutti gli Stati Uniti. Decine di migliaia di persone hanno manifestato: 10.000 a St. Paul, Minnesota; 3.000 ad Augusta, 5.000 a Seattle, 4.000 a Chicago, 5.000 a Denver, 2500 a Taos, New Mexico, 1.000 a Madison, Wisconsin, 1.000 ad Albany, New York, 500 a Nashville, Tennessee, e a Salt Lake City, Utah, 1.500 a Tucson, Arizona, 3.000 ad Atlanta e 10.000 a Forth Benning per la chiusura della School of the Americas, il famigerato centro di addestramento dei killer più o meno golpisti del Sud America, e queste sono solo le principali manifestazioni.

All’aumento delle attività e del dibattito si accompagna una più intensa collaborazione tra i settori bianco e nero della lotta. Il 21 Novembre la comunità nera di New York ha appoggiato pubblicamente l’attività di ANSWER in una manifestazione tenutasi nella chiesa nera The House of Lord Church in Brooklin’s Atlantic Avenue. La leadership della comunità afro-americana di New York, nelle persone del rev. Doughtry, del rev. Paul Majer del NYC Forum of Concerned Religious Leaders e di Viola Plummer hanno esplicitato il loro dissenso nei confronti dell’amministrazione Bush e delle sue azioni di guerra e di terrorismo all’interno e all’estero. Il maggiore coinvolgimento e la radicalizzazione del movimento nero va di pari passo –è questa un’altra importante novità degli ultimi tempi- col maggiore coinvolgimento e la radicalizzazione di strutture del sindacato. Il 9 Dicembre il San Francisco Labor Council AFL-CIO ha approvato all’unanimità una risoluzione in cui si afferma che "il lavoro deve prendere una posizione chiara contro la guerra". L’AFL-CIO di San Francisco afferma che dall’11 settembre c’è stato un chiaro assalto contro il lavoro, una escalation di licenziamenti ed una guerra esplicita al diritto di sciopero, al welfare, alla social security, a tutti quei diritti conquistati negli anni ’30 (in una precedente presa di posizione di questo organismo venivano messe in parallelo la guerra esterna contro il popolo dell’Iraq e la guerra interna contro i lavoratori portuali dei porti del Pacifico ed altri lavoratori condotta dal governo Bush). Il San Francisco Labor Council ha esplicitato come nel nome della social security l’Amministrazione Bush stia conducendo una guerra nelle Filippine, in Afghanistan, Iraq, Colombia, e come "si richiede che il lavoro prenda una posizione chiara e forte di lotta alla guerra di Bush e veda nell’anti-war movement e nell’anti-globalization movement degli alleati strategici, essenziali se vogliamo sconfiggere l’assalto al lavoro e muovere all’offensiva. Abbiamo visto il risultato di questa collaborazione negli anni ‘60 e a Seattle. Dobbiamo resuscitare questa collaborazione, sconfiggere la guerra di Bush e il razzismo che essa implica e promuove, perché la nostra lotta contro la guerra dell’amministrazione Bush al popolo iracheno ed ad altri paesi sovrani è la lotta dei lavoratori in difesa degli interessi dei lavoratori di tutte le razze e nazionalità."

Una presa di posizione dal grande significato e valore politico, che comincia ad avere molteplici riscontri, certo meno "forti", anche fuori da San Francisco, a New York, a Washington e altrove. E le strutture "locali" dell’AFL-CIO non sono le sole strutture sindacali ad aver preso posizione contro la guerra: negli ultimi due mesi si sono fatti sentire, tre gli altri, l’ILWU, International Longshore and Warehouse Union, e l’ASU, American Servicemen’s Union, sindacato fondato due anni fa dai veterani di guerra e che ora conta 10.000 iscritti a livello nazionale.

La gran parte delle attività preventive contro la guerra degli ultimi mesi sono finalizzate a fornire appoggio alla manifestazione che avrà luogo il 18 Gennaio a Washington. La manifestazione è convocata ancora una volta dall’International ANSWER, che prevede una partecipazione superiore a quella che c’era stata il 26 Ottobre. Già 150 città negli Stati Uniti stanno organizzando autobus per raggiungere Washington e San Francisco. La manifestazione comincerà al Capitol Building e terminerà alla Washington Navy Yard, con l’intento "provocatorio" di dare la possibilità ai manifestanti di "ispezionare" le armi di distruzione di massa della marina americana (il titolo della manifestazione è: "No alla guerra all’Iraq. Eliminazione delle armi di distruzione di massa degli Stati Uniti").

La manifestazione del 18 gennaio è stata criticata dal nuovo movimento "contro" la guerra di origine hollywoodiana, che propone nientepopodimeno che Madaleine Albright e "Jimmy" Carter come leaders "pacifisti" del movimento, e che, tant’è, è chiamato "Win Without War" ("Vincere senza la guerra"), in un intento chiaramente razzista nei propositi e nelle azioni. "Win Without War" aderisce ad una diversa manifestazione convocata a Washington per metà febbraio, ed organizzata in contemporanea in diversi centri europei con l’appoggio di organizzazioni moderate come "Not in our name". Queste diverse influenze e prospettive "contro" puntano, tra le altre cose, a spaccare il seguito di ANSWER, seguito considerato, pur nei suoi limiti, potenzialmente troppo pericoloso per il governo. La guerra imminente ed il tentativo di spaccare il movimento rendono la data del 18 Gennaio 2003 estremamente importante. Il 18 Gennaio è un banco di prova per il movimento, e non solo negli Stati Uniti, credo, che dovrà scegliere con chi schierarsi in piazza. Esso inoltre darà visibilità ed unitarietà a tutte le attività portate avanti negli ultimi mesi in luoghi e modi diversi negli Stati Uniti e anche fuori dagli Stati Uniti. Qui negli USA si dice che mai, dalla guerra del Vietnam, si era sentita l’opposizione fibrillare come negli ultimi mesi. Ma se la guerra del Vietnam aveva dovuto aspettare migliaia di morti a "stelle e strisce" per mobilitarsi, oggi essa avviene prima dell’inizio ufficiale della guerra, sulla base, non esclusiva ma determinante, di un nuovo sentimento di solidarietà spontanea tra i lavoratori mondiali. E questi presupposti fanno, con le dovute cautele, ben pensare e ben lottare.

  Appello di sindacalisti americani contro la guerra
  Siti da cui raccogliere informazioni sul movimento contro la guerra:
  • International Action Center
  • International ANSWER 
  • www.workers.org
  • Al-Awda 
  • Mumia Abu Jamal site 
  • global research
  • peoples video
  • indymedia
  • colored girls 
  • Di seguito alcune pagine specifiche di particolare interesse:

    Di seguito elenchiamo alcuni degli articoli dedicati dal che fare alla ripresa del movimento di lotta negli Stati Uniti che testimoniano la continuità delle nostre posizioni sui temi richiamati in questa pagina.