La Marcia delle Donne da New York a Porto Alegre verso Genova
Sul supplemento al n. 54 del che fare, dedicato alla lotta di liberazione della donna, abbiamo dato ampio spazio alla documentazione e al nostro bilancio della Marcia Mondiale delle Donne e della nostra partecipazione ad essa. Aggiungiamo qui ora solo qualche ulteriore spunto di riflessione a partire dalle valutazioni delle promotrici, presentate nel bollettino comparso sul sito internet dopo la marcia (v. riquadro), perché pongono alcune questioni essenziali per lo sviluppo di questa prima mobilitazione delle donne su scala mondiale, questioni non rinviabili e già dentro l’ordine del giorno delle prossime scadenze di lotta.
È comprensibile e condivisa, crediamo, da tutte le partecipanti, la fierezza con cui vengono riportati i numeri della manifestazione: la sua ampiezza, la sua capillarità, la sua capacità di coinvolgere in vario modo donne di tante nazioni e di tutti i continenti. Sono dati su cui è giusto riflettere per mettere a fuoco la generalità (al di là della varietà delle forme e dei gradi) dell’oppressione delle donne nel mondo e il suo costante aggravarsi, vere cause di una così vibrante risposta. Più che legittimo l’orgoglio di avere "fatto da sè", puntando tutto sull’azione diretta, escludendo per principio di appoggiarsi agli organismi e alle associazioni istituzionali, o alla adesione di "personalità di spicco". Più che giusto l’appello all’unità "delle donne del mondo intero", a "globalizzare la solidarietà" tra di loro, come diceva lo striscione che apriva la manifestazione di New York. Fondamentale, infine, l’intuizione, che ha avuto anche dei momenti di realizzazione pratica, di dover contrastare la divisione e la contrapposizione tra donne del nord e del sud del mondo, tra donne occidentali e immigrate, tanto tenacemente perseguita dal sistema capitalistico ed essenziale alla sua stabilità, fondata sul divide (il fronte degli sfruttati) et impera (su di loro).
"Missione compiuta", hanno annunciato con orgoglio le organizzatrici. Questo successo porta con sé, però, alcuni interrogativi per la massa delle partecipanti, e la pone di fronte a nuovi, più impegnativi compiti.
Il primo deriva dall’accoglienza che le richieste della Marcia hanno ricevuto dai vari organismi internazionali a cui sono state recapitate. Ebbene, riferiscono le delegate, tra le richieste delle donne e la posizione di Fmi e Banca Mondiale si è manifestata "una distanza incolmabile", resa ancora più evidente dal tono paternalistico e sfrontato con cui è avvenuto l’incontro, o per meglio dire lo scontro. La cosa, per noi -ci si permetta di notarlo- scontata in partenza, può consentire un ulteriore passo in avanti rispetto a Pechino ’95, ma a condizione di saper e voler rispondere alla domanda: perché questi organismi non vogliono e non possono cambiare la loro politica criminale? cosa determina la loro irremovibilità? non conoscono forse gli effetti delle loro decisioni sulla vita delle donne (e degli sfruttati tutti) dei cinque continenti?
Essi, rispondiamo noi, li conoscono bene e sanno altrettanto bene che tali effetti disastrosi per l’esistenza di vastissimi strati della popolazione mondiale sono vitali per la conservazione del sistema di dominio capitalista, dell’imperialismo, di cui essi sono una tra le massime espressioni. Il movimento delle donne non potrà mai contare su simili "interlocutori", e deve prenderne definitivamente atto.
Su questo organismo permangono davvero troppe e troppo diffuse illusioni, tanto tra le organizzatrici della Marcia quanto tra le "semplici" partecipanti. Ma anche su questo aspetto, l’esperienza della marcia aiuta a fare chiarezza. Infatti, anche se con un maggior rispetto delle "buone maniere", la risposta dei rappresentanti dell’Onu alle richieste delle delegate è stata, nella sostanza, la stessa. La globalizzazione non si discute. Noi obbediamo ai governi. Non abbiamo potere. Possiamo sfornare centinaia di risoluzioni (il popolo palestinese ne sa qualcosa) ma sappiamo in partenza che resteranno lettera morta, se esse non sono a favore dei potenti del mondo. Le cose che volete, chiedetele ai vostri governi.
D’altronde, basta chiedersi: quando, perché e da chi sono state create le Nazioni Unite? a favore di quali interessi, di quali rapporti, di quali poteri, hanno operato nei loro 50 anni di vita? non ricordiamo forse che è stato l’Onu a dare il via libera all’"umanitaria" guerra del Golfo, con tanto di bombardamenti all’uranio impoverito e successivo embargo con immane strage di bambini? non ricordiamo che la missione "umanitaria" in Somalia si tradusse in massacri della popolazione e in violenze contro le donne? e andando un po’ più indietro, ci siamo dimenticati le guerre contro la Corea, il Vietnam, il Congo? Crediamo se ne ricordino molto bene le donne di quei paesi che hanno subito violenze di ogni tipo a causa di aggressioni scatenate sempre con il benestare e la copertura delle Nazioni (imperialiste) Unite, che nel libro nero della violenza esercitata contro le donne meritano davvero un posto d’onore.
E quando leggiamo nel Bollettino delle organizzatrici della Marcia che "uno dei momenti emotivamente più forti" dell’incontro all’Onu è stato allorché la rappresentante afghana si è tolta il velo suscitando "un lungo scroscio di applausi", ci viene spontaneo chiedere se ci si ricorda o no del fatto che, insieme agli Stati Uniti e all’Occidente tutto, l’Onu è stato in prima fila nell’organizzare e legittimare quella guerra civile in seguito alla quale la condizione delle donne afghane è paurosamente regredita. Non è di un’ipocrisia sconfinata che costoro facciano mostra ora di stracciarsi le vesti per l’infelice destino delle donne afghane che essi stessi hanno contribuito a fabbricare con le loro mani? non è forse di una estrema ingenuità, per non dire altro, credere di trovare proprio nell’Onu una buona sponda nella lotta contro il peggioramento della condizione di vita delle donne nel mondo?
L’atteggiamento formalmente più aperto e "sensibile" (rispetto a quello del Fmi) della burocrazia onuista non deve trarre in inganno questo giovane movimento su cui già aleggia il tentativo imperialista di svilirlo e annichilirlo anche, e proprio, attraverso queste apparenti "aperture". Non è un caso che la Marcia mondiale delle Donne sia stata candidata al premio Nobel per la pace. Ma per quale mai "pace" l’imperialismo si è inventato questo riconoscimento internazionale? La sua. La "pace" dei suoi embarghi, delle sue guerre, delle sue aggressioni, delle sue "normalizzazioni" sociali. Da questa "pace" le donne non hanno nulla da guadagnare, se non altra aggiuntiva "povertà e violenza". Il movimento delle donne deve fermamente rigettare e denunciare il tentativo che si nasconde dietro questa "candidatura", che punta a neutralizzarne la rabbia, la determinazione, la lotta.
Certo, per molte è duro constatare che non vi sono a tutt’oggi organismi internazionali di riferimento, disposti a farsi carico dei bisogni e degli immani problemi delle donne; è duro rinunciare alla speranza che essi possano "essere riformati", che possano venir meno cioè alle ragioni stesse della loro esistenza, ma è così. È ora di prenderne atto e rivolgersi altrove per mettere in piedi quell’organismo internazionale nostro che giustamente si sente indispensabile per il successo della lotta in corso.
In un passaggio del loro bilancio, rivendicando il carattere multirazziale della Marcia, le organizzatrici di essa affermano: "Noi abbiamo oggi il difficile obiettivo di mantenere viva questa solidarietà tra bianche e colorate… e decidere chi deve essere il nostro referente nelle nostra lotta per trasformare il mondo". Una prima risposta è implicita nell’appello che loro stesse formulano a partecipare alle lotte contro gli effetti della globalizzazione capitalistica, lotte che vedranno nelle manifestazioni anti-G8 a Genova un’altra tappa importante. Ma anche su questo punto è necessario andare al di là della semplice, e giustissima, adesione alle manifestazioni chiedendosi: come rispondiamo alla globalizzazione? Lottando per ritornare ognuna e ognuno nel proprio ambito ristretto, nel localismo, nella piccola economia locale di sussistenza? Globalizzare la solidarietà, è stato lo slogan centrale della marcia. Solidarietà per cosa? per riformare un sistema sociale che ogni giorno di più mostra il suo volto assassino? per cercare di ripristinare un passato che non è stato certo idilliaco per le donne, e che comunque non tornerà? No, bisogna rafforzare ed estendere la solidarietà delle donne del mondo intero per aggredire alla radice la causa prima della loro schiavitù e della loro oppressione: la società classista e patriarcale, il capitalismo. Un capitalismo che è irriformabile, quale ha sempre dimostrato di essere quando è in gioco la sua sola e unica ragione di esistenza, il profitto, con qualunque mezzo e a qualunque prezzo.
Una nuova comunità sociale, nuovi rapporti tra i sessi e le generazioni potranno sorgere solo sulle rovine, e non già dai "restauri", di questa società capitalistica, dalla distruzione violenta, cosciente ed organizzata di tutte le sue istituzioni oppressive: lo stato, la famiglia, il mercato, la proprietà privata. Altre strade di liberazione non ve ne sono, né saranno concesse alle donne.
Chi potrà essere, quindi, il "referente", di questo immane compito di "trasformare il mondo"?
Questo sentimento ha serpeggiato dopo la conclusione della marcia, e proprio a causa della sua riuscita. Essa ha toccato sì i punti nodali e unificanti della condizione delle donne: la povertà e la violenza, ma necessariamente questo primo tentativo di mobilitazione su scala planetaria ha coinvolto solo una rappresentanza "simbolica" delle donne del pianeta. Esse vanno ora raggiunte negli strati più profondi della società, vanno chiamate a scendere in campo, ad agire in prima persona in assai più grandi contingenti, con un’azione capillare. Deve iniziare per milioni e milioni di donne un percorso collettivo di lotta, che le porterà a riconoscersi come doppiamente oppresse, come sfruttate, come proletarie. In questo percorso esse incontreranno -stanno già incontrando- il loro unico possibile referente: i lavoratori delle metropoli e la grande massa degli sfruttati e dei proletari del Sud del mondo. E ad essi sono chiamate a rivolgersi sin da adesso per chiamarli in campo.
Certo, al momento questo incontro è ben lungi dal darsi come a noi piacerebbe, ma è solo la scesa in lotta delle donne che potrà "obbligare" il resto (maschile) del proletariato a fare la scelta vincente: rinunciare ai propri miserabili privilegi sulle proprie donne e lottare insieme, al loro fianco, contro ogni oppressione di classe, di sesso e di razza. Essi perderanno così la più atavica delle loro catene e guadagneranno la possibilità di costruire una comunità sociale finalmente umana.
A questa società noi diamo un nome: è la società comunista, meta della rivoluzione comunista. L’unica che abbia mai preso in carico fin dai suoi primi passi (con la Comune di Parigi e l’Ottobre russo) la condizione di vita delle donne, l’unica che le abbia chiamate incondizionatamente ad agire per sé. L’unica che si sia proposta di realizzare una società senza classi, senza oppressione di sesso, che abbia posto all’ordine del giorno la necessità di gettare le basi per una nuova umanità. Sogno utopico? Per noi è solo guardare in faccia la realtà. È dare una risposta coerente al bisogno di "trasformare il mondo". È dare una prospettiva alla lotta contro la globalizzazione.