Pubblichiamo in queste pagine due vibranti prese di posizione di veterani dell’esercito statunitense contro l’aggressione al popolo afghano. E insieme la lettera con cui 53 riservisti dell’esercito israeliano (ma il numero va allargandosi) hanno reso nota la decisione di non prestare più servizio militare nei territori occupati.
Con questo vogliamo -prima cosa- evidenziare come l’antagonismo di classe -sia quello oggettivo che emana dalla realtà dell’oppressione, ma anche quello soggettivo che si esprime nella lotta delle masse sfruttate palestinesi, islamiche, di tutto il Sud del mondo- non può non ripercuotersi anche sugli eserciti più ideologizzati del mondo, quali sono l’esercito statunitense e quello israeliano. Le prese di posizione che riportiamo, ancorché limitate, sono dunque il portato inesorabile delle contraddizioni che avanzano anche dentro i paesi oppressori.
Su questo dato, destinato a potenziarsi, vogliamo -seconda cosa- richiamare ai compiti di un’organizzazione comunista e di un movimento autenticamente di classe. Già al tempo dell’aggressione alla Jugoslavia ci rivolgemmo con un manifesto anche in inglese ai soldati della Nato. È una tradizione di classe da riprendere sulla base e in stretto collegamento con l’azione di resistenza organizzata degli sfruttati che rappresenta l’unica vera possibilità di arrivare alla paralisi degli eserciti imperialisti e anzi, almeno in parte, alla lotta della componente "proletaria" (non in senso strettamente sociologico) di essi.
Anche da questo si vede il carattere limitato e impotente di un certo nazionalismo (le direzioni borghesi e piccolo-borghesi dei moti antimperialisti) che non sa e non vuole usare la leva di classe per scardinare l’avversario (magari continuando a rivolgersi, nonostante tutto, alle borghesie dei paesi oppressori...). Al tempo stesso è evidente l’inanità e, al fondo, la complicità con le centrali del vero terrore dei tentativi di utilizzare questi episodi per evocare un disarmo generalizzato -come fa il pacifismo- buono solo a disarmare la lotta degli oppressi. Non solo perché questi primissimi segnali di disfattismo si danno solo ed esclusivamente grazie a questa lotta durissima, condotta con tutti i mezzi necessari. Ma anche perché essi evocano una battaglia per distruggere dall’interno e dall’esterno questi apparati di morte e distruzione dell’imperialismo. Vanno salutati non come episodi isolati di "testimonianza", ma come parte di un processo di riconquista dell’autonomia di classe da parte della componente oppressa dei paesi che opprimono altri popoli. Con le parole di uno di questi appelli: "Messo di fronte a questa realtà, ho cominciato a diventare uno che pensa in modo non-americano (non-europeo, non-italiano, n.), ho cominciato a pensare che gli interessi dei popoli del mondo sono più importanti del mio proprio personale interesse... Sebbene essi non mi sembrino molto simili a me, ho scoperto che avevo molto più in comune con i popoli del Medio Oriente che con quelli che mi comandavano di ucciderli"!