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Si fa strada l’esigenza di una direzione proletaria, internazionalista della lotta di liberazione nazionale palestinese.
Il primo dato da tenere a mente (e che spesso nelle "pacifiche" metropoli tendiamo a dimenticare) è costituito dai mezzi con cui lo stato d’Israele impone la sua politica. Che non sono quelli della "violenza potenziale", come accade di solito in Occidente. Se i palestinesi provano a resistere alla demolizione delle loro abitazioni, all’occupazione delle terre che coltivano, al divieto di recarsi al lavoro (o di cercarlo), se provano ad organizzarsi collettivamente per far fronte alla macchina che non solo li espropria ma impedisce loro anche di lavorare, sono colpiti da un mostro militare (vedi riquadro in basso). La cosa non data da oggi. Non da oggi il popolo palestinese sente giustamente che la lotta contro l’oppressione nazionale non può che porsi anche sul terreno della lotta armata.
Ciò non è smentito dall’andamento della prima Intifada. Allora la lotta di massa non andò oltre il lancio dei sassi e, nella fase finale, l’uso dei coltelli. Ma perché accadde questo? Perché i palestinesi di Gaza e della Cisgiordania non disponevano di altro; perché la precedente organizzazione militare della resistenza palestinese, che aveva i suoi centri nei campi profughi di Libano, Giordania e Siria, era stata colpita, smantellata, costretta ad un nuovo esilio sotto l’azione combinata di Israele, dei paesi arabi "amici" (la reazionaria Giordania e la "progressista" Siria) e, dietro e al di sopra di essi, dell’Occidente; perché i palestinesi nutrivano ancora la speranza che la lotta di massa pacifica fosse sufficiente per strappare al tavolo negoziale il ritiro, pur graduale, dell’esercito e degli insediamenti colonici dai "Territori Occupati" o anche solo da una parte di essi. La speranza si rivelò vana, l’accordo di Oslo aprì la strada all’accelerazione dell’occupazione israeliana. I palestinesi, istruiti anche dalla vittoria degli Hezbollah in Libano, hanno ripreso l’Intifada e, questa volta, hanno cercato di compiere anche azioni armate. Le quali, diversamente da quel che dicono alcuni settori della sinistra in Italia, si sono sviluppate tutt’altro che separatamente e in contrapposizione all’organizzazione e alla lotta di massa.
Ancor più che nella prima Intifada, dall’autunno 2000 le istanze di base si sono costituite in comitati di resistenza popolari (divenuti, in seguito, bersagli degli squadroni della morte israeliani), con i quali la popolazione organizza e coordina i vari momenti della lotta quotidiana, dagli scontri ai check points al rifornimento alimentare, l’assistenza ai feriti e alle famiglie dei caduti, ecc. Ed è questa stessa azione di massa che è riuscita a dotare l’Intifada di quelle armi che sono state e sono ancora (almeno in parte) in mano ai palestinesi: i fucili e l’esplosivo in dotazione alle forze di polizia dell’Anp. Queste armi, secondo gli accordi di Oslo, dovevano essere puntate contro i palestinesi. E per una serie di anni lo sono state: basti ricordare che nel 1996 nelle carceri palestinesi erano rinchiusi 12mila detenuti politici. Ma i palestinesi in uniforme che le tenevano in mano hanno risentito dell’umore e della volontà di lotta maturata nelle masse lavoratrici, e, sin dal settembre 2000, le hanno spesso rivolte contro le forze armate israeliane o messe a disposizione dei Crp.
La seconda Intifada ha così acquisito, scrive la rivista Limes, "una valenza militare offensiva assente nella prima. L’Anp non dispone di armamento pesante ed è impreparata a un conflitto armato, ma Arafat non blocca [non riesce a bloccare, n.n.] gli attivisti locali di al-Fatah che colpiscono i coloni e i posti di blocco israeliani. Accanto a questo conflitto di bassa intensità (...) si sviluppa una lotta armata sorretta dall’unità di azione tra i militanti di base di al-Fatah, gli attivisti del Fplp e del Fdlp, e gli integralisti di Hamas e della Jihad islamica. I mezzi sono modesti ma gli obiettivi ambiziosi: seguire l’esempio vittorioso di Hezbollah" (n. 2 del 2002, pp. 51-52).
In questo quadro, le azioni "kamikaze", lungi dall’essere l’unica forma di lotta armata, s’intrecciano ad altre azioni, più simili a quelle classiche guerrigliere. Che sono compiute, a partire dall’agosto del 2001, anche da Hamas, parallelamente al suo ingresso nei Crp. Ancora da Limes: "Dopo l’espulsione in Libano nel 1993 di 415 attivisti di Hamas e della Jihad, tra palestinesi e Hezbollah inizia una collaborazione nel settore dell’addestramento militare e della lotta armata clandestina. Negli anni successivi migliorano anche i rapporti tra gli Hezbollah e gli attivisti di Al-Fatah dei campi profughi libanesi. Dopo la ritirata israeliana dal Libano del Sud, la simpatia popolare per Hezbollah cresce tra i palestinesi dei Territori e dello stato di Israele. Per questo Hamas lancia la parola d’ordine della libanizzazione della Palestina. Il passaggio da una strategia prevalentemente terroristica a una lotta armata più articolata consente un’alleanza operativa de facto con i Tanzim. In battaglia Hamas applica tattiche nuove, probabilmente apprese da Hezbollah, dalle mine anti-carro ai razzi a corto raggio ai tiri di mortaio" (p. 52).
È in questo passaggio che va collocata la serie delle missioni "kamikaze". "La tattica, una volta limitata ai militanti delle organizzazioni islamiche -scrive Suzanne Goldenberg in un’inchiesta sul Guardian del giugno scorso-, è stata adottata anche dalle organizzazioni laiche come al-Fatah e il Fronte Popolare." Le azioni kamikaze non nascono, quindi, da motivazioni religiose. E neanche dalla disperata deriva della lotta palestinese. Sono, invece, un mezzo per realizzare un obiettivo politico che la sospinge in avanti. Nell’unico modo in cui tale obiettivo può essere perseguito oggi, visto l’isolamento che si trova a scontare l’Intifada. È l’unico modo a nostra disposizione, dicono i palestinesi, per passare la linea verde e colpire Israele al cuore.
Il fratello di un kamikaze, in un’intervista riportata nell’inchiesta del Guardian, afferma: "L’attacco distrugge la loro economia. Causa più danni di ogni altro tipo di operazione che siamo in grado di compiere. Distrugge la loro vita sociale. Sono tesi e nervosi, e li costringerà a lasciare la terra che occupano per la paura." Il leader di Hamas in Gaza, Abdel Aziz Rantissi, precisa: "Hamas usa questa tattica e questi mezzi di lotta perché non ha gli F-16, gli Apache, i carri armati e i missili, e così usiamo tutti i mezzi che ci rimangono. Non lo facciamo per guadagnarci il paradiso o le vergini in cielo, ma perché siamo sotto occupazione e siamo deboli" (12 giugno). I palestinesi hanno intuito che non potranno sconfiggere il mostro militarista di Israele contando solo sulle proprie forze e sui mezzi che hanno attualmente a disposizione, che c’è bisogno anche di un sommovimento nella società d’Israele che ne paralizzi dall’interno l’infernale macchina d’oppressione. Certo, c’è il rischio che gli Sharon usino gli effetti di questi atti per cercare di cementare l’unità interna e l’appoggio alla propria politica d’aggressione, ma, dopo decenni di inascoltate parole, in quale altro modo si può svelare ai cittadini israeliani la semplice verità che la pace dentro Israele si regge solo sull’oppressione e sulla guerra ai palestinesi?
Non si può inoltre negare che, nelle condizioni di isolamento internazionale in cui è lasciata l’Intifada e di arretratezza politica del proletariato mondiale, le azioni dei Sansoni del nostro tempo abbiano avuto una certa efficacia su questo terreno (in sinergia con l’altrettanto eroica resistenza di massa a "bassa intensità" e con le altre iniziative armate fuori e dentro la "linea verde"). La polarizzazione, più o meno sotterranea, in atto nella società israeliana è anche il frutto di quello che il generale E. Gilady (capo della pianificazione strategica dell’esercito di Israele) chiama il "missile più accurato che si possa avere: il bomber può arrivare esattamente nel punto in cui si farà poi esplodere" (ib.)
Affermare questo vuol dire accodarsi alla politica di Hamas e delle altre formazioni palestinesi? Vuol dire disconoscere i rischi politici di contrapposizione tra sfruttati palestinesi ed ebrei connessi a questo tipo di azioni? Assolutamente no. Significa semplicemente riconoscere i dati di fatto. Solo sulla loro base è possibile vedere come superare questi rischi, mettendo al contempo in opera una lotta armata ancor più dirompente per lo stato d’Israele e l’ordine occidentale nella regione. Il problema, però, più che al piano strettamente tecnico-militare è legato a un mutamento di prospettiva politica generale (da cui il primo dipende) sul problema di fondo di come rendere vincente la lotta di liberazione nazionale del popolo palestinese. Quale mutamento di prospettiva? Quello che è evocato dai sentimenti e dalle reazioni che si stanno facendo strada tra le stesse masse lavoratrici palestinesi.
La lotta di liberazione nazionale divide la nazione.
Nello scontro con Israele sta emergendo che ci sono due modi in seno al popolo palestinese di portare avanti la resistenza. Due modi che fanno riferimento a interessi sociali antagonistici interni alla nazione palestinese.
Da un lato i dirigenti dell’Anp e gli strati borghesi che chiedono di porre fine all’Intifada (come fanno 55 intellettuali e burocrati con un appello generosamente sovvenzionato dalla Ue!) e si apprestano, sotto la bandiera della "riforma dell’Anp", ad andare ancora più in basso nella linea compromissoria seguita a Oslo. Il loro orientamento è chiarito dalla presenza di un ministro del Fmi in seno all’esecutivo palestinese, dalla consegna di 6 militanti del Fplp ai secondini statunitensi e britannici come pegno per la fine del primo assedio di Ramallah, dall’accettazione dell’esilio di 13 combattenti del gruppo asserragliato nella chiesa di Nazareth, dal discorso pronunciato da Arafat davanti al suo parlamento in settembre per il ritorno alla linea negoziale.
Il fatto è che il negoziato può offrire qualcosa solo a settori minoritari del popolo palestinese, gli strati borghesi che hanno i monopoli commerciali a Gaza e Cisgiordania o che respirano l’aria senza confini del capitale arabo. Sempre che, però, si diano da fare per mettere a tacere la resistenza della massa della popolazione. E accettino le misure pianificate a settembre in una serie di riunioni da un gruppo di dirigenti dell’Anp sotto la diretta istruzione di agenti della Cia e dei servizi segreti di Giordania, Egitto e, forse, Arabia Saudita.
Sul versante opposto abbiamo i proletari di Gaza, i militanti di base delle organizzazioni della resistenza, la massa della popolazione che chiede, come mostriamo nel riquadro, che l’Anp sia sì riformata, ma per organizzare meglio la vita sociale, per affrontare la fame che comincia a dilagare e per condurre avanti l’Intifada. La frattura orizzontale dell’Olp e la parallela convergenza nella lotta tra la bandiera "rossa" delle organizzazioni storiche della resistenza palestinese e quella verde delle formazioni islamiche esprime proprio questo processo di polarizzazione in atto nel popolo palestinese secondo potenziali linee di classe. La stessa mobilitazione di massa e la sfida al coprifuoco per fermare l’assedio di settembre al Muqata sono state animate non certo dal sostegno alla linea ultra-moderata di Arafat ma dalla volontà di opporsi al tentativo israeliano di distruggere quel che resta di una struttura che, nella sua base, è parte attiva e militante dell’Intifada (nonostante e contro tutti i compromessi al ribasso dell’Anp) e di installare al suo posto figure-fantoccio nei diversi "bantustan" in cui verrebbe confinata la popolazione palestinese.
I proletari e i combattenti palestinesi sono chiamati a prendere atto di questa divaricazione e a trarre fino in fondo la lezione che vi è contenuta: per portare avanti la lotta per la liberazione nazionale occorre portare avanti insieme e fondere con essa la lotta di classe contro l’elemento borghese palestinese, il quale è pronto a tradire la sua stessa causa nazionale pur di vedere tutelati i propri interessi economici. Come si può resistere allo stato israeliano se non si divide il pane, come chiedono i manifestanti di Gaza, se cioè non si organizza la vita economica e sociale in modo fraterno e in funzione del rafforzamento del fronte di lotta? E come si può dividere il pane senza che i proletari palestinesi si organizzino autonomamente? Senza che si liberino dal frontismo interclassista con quegli interessi borghesi palestinesi che non vogliono saperne di una simile condivisione?
La rottura dell’unità nazionale non sarebbe un indebolimento del fronte di lotta. Al contrario, permetterebbe di sviluppare fino in fondo l’energia rivoluzionaria delle masse lavoratrici palestinesi e, soprattutto, di avviare quell’azione di fraternizzazione con gli sfruttati dell’area che è la carta vincente per scontrarsi con l’altrimenti imbattibile macchina militare israeliana. Eccoli i veri alleati della causa palestinese: gli sfruttati del Medioriente (palestinesi o arabi in generale, ebrei e ora sempre più thailandesi, russi, argentini, ecc.), gli unici interessati a quel terremoto sociale e statuale del Medioriente senza il quale, come affermiamo e motiviamo da sempre, non potrà avviarsi la liberazione del popolo palestinese. Non già gli stati arabi che, a parte qualche lacrima, non hanno mosso un dito in primavera. Non già l’Europa che in risposta all’Intifada, nel giugno scorso, ha incluso Hamas, il Fronte popolare e la Jihad nell’elenco delle organizzazioni terroristiche e riproposto una nuova Oslo peggiore della prima.
I servizi segreti di Giordania e Egitto collaborano con la Cia e i settori compradores del popolo palestinese: perché i palestinesi devono continuare a "non-intervenire" nelle faccende politiche interne di questi e degli altri paesi arabi? perché non chiedere ai lavoratori di questi paesi di mobilitarsi contro il regime di stato d’assedio (simile a quello che vige sotto Israele) in cui i rispettivi governi tengono i campi profughi palestinesi ad Amman, Beirut, ecc? Per gli sfruttati mediorientali "far qualcosa per la Palestina" vuol dire innanzitutto farsi garanti della "libertà" di organizzazione sindacale e politica dei rifugiati palestinesi, vuol dire intrecciare con essi, come accadde tanti anni fa, un comune percorso di lotta contro l’imperialismo in tutta la sua articolata struttura, dagli stati occidentali ad Israele ai governi di Amman, del Cairo, ecc. e alle borghesie arabe.
L’impostazione della lotta di liberazione nazionale su basi classiste permetterebbe inoltre di mettere a frutto le reazioni divaricanti che la stessa Intifada sta producendo all’interno di Israele. Da un lato c’è chi, nei piani alti dell’apparato statale e del sistema bancario e industriale, spinge per incrudire la repressione e passare alla jugoslavizzazione del popolo palestinese. Dall’altro lato, c’è chi comincia a rifiutarsi di servire nelle armate d’occupazione, a non riconoscersi nella politica di Sharon-Peres, ad aprire gli occhi sul fatto che Israele non ha dato soluzione alla questione nazionale ebraica, all’aspirazione delle masse lavoratrici ebree di trovare una convivenza con il resto dell’umanità. A nutrire questi sentimenti sono, per ora, piccole minoranze, ma essi corrispondono all’interesse della massa della popolazione non sfruttatrice d’Israele.
La lotta del popolo palestinese ha bisogno non solo di neutralizzare il sostegno di questa massa al governo di Tel Aviv, ma di stabilire un fronte comune di battaglia con essa. Ha bisogno, quindi, di rimettere in discussione un’idea che, in modo più o meno strisciante, le classi dirigenti arabe hanno cercato di imporre nel movimento antimperialista del mondo arabo e palestinese, e che oggi torna prepotentemente sul campo anche in virtù delle posizioni delle formazioni radicali islamiche: l’idea che la popolazione non sfruttatrice d’Israele e lo stato d’Israele siano la stessa cosa, che siano la stessa cosa i tanti lavoratori ebrei che aderirono e aderiscono, ingannati, al progetto sionista da un lato e la direzione borghese di esso direttamente collegata all’imperialismo dall’altro.
Quest’insieme di esigenze si esprime anche nella convergenza che si è stabilita durante la seconda Intifada tra le bandiere "rosse" del Fplp (e di altre formazioni tradizionali della resistenza palestinese) e le bandiere verdi delle organizzazioni islamiche. Le migliori tradizioni dell’ala radicale nell’Olp sulla necessità di legare riscatto nazionale e riscatto sociale e di proiettarsi verso gli sfruttati ebrei stanno entrando in comunicazione, nel fuoco della lotta, con il sentimento alla base della diffusione del radicalismo islamico, cioè con la percezione che la causa palestinese non può essere risolta entro i confini della Palestina (lasciando in piedi Israele) ma richiede un orizzonte d’azione più vasto, che (per ora) è visto nella illusoria prospettiva dell’"internazionalismo islamico". Stanno maturando le condizioni perché si costituisca nella resistenza palestinese una formazione proletaria e internazionalista, che riconquisti le basi teoriche e politiche con cui il marxismo rivoluzionario impostò sia il riscatto del mondo arabo che la soluzione della questione ebraica, dall’imperialismo connessi l’uno all’altra.
Una mano tesa
È chiaro che un simile mutamento politico avrebbe un’immediata ricaduta sul terreno della lotta armata. Che non verrebbe certo eliminata o ridotta. Bensì organizzata più efficacemente (anche per colpire dentro i confini di Israele) secondo la bussola che il marxismo vide perfettamente applicata dal partito bolscevico di Lenin prima, durante e dopo la rivoluzione di Ottobre. La scelta dei bersagli per esempio. Va compiuta in funzione del duplice fine di portare il terrore contro la macchina d’Israele (ben oltre la linea verde) e di favorire (insieme a un acconcio intervento politico e organizzativo) la fraternizzazione con gli sfruttati ebrei. Anche su questo piano, ci sembra (le informazioni sono scarse e non sicure) che la situazione sia tutt’altro che ferma.
Boicotta l’Occidente! Sul manifesto del 31 marzo Pintor scrive: "La condotta di Israele è del tutto irrazionale. (...) L’Occidente è un dio minuscolo. Governa il mondo ma lascia quella provincia a Erode e Pilato." Non è affatto così. La condotta di Israele è razionalissima. E l’Occidente non lascia fare. Spinge a fare. Sono i dati che parlano. La macchina bellica israeliana costa 9 miliardi di $ l’anno (il 20% del bilancio nazionale). Dagli Usa giungono 3 miliardi di dollari ufficialmente, che diventano 10 se si aggiungono gli stanziamenti delle agenzie federali, i prestiti privilegiati e i contributi (deducibili dalle tasse) dei comitati pro-Israele. Per quanto riguarda poi le relazioni economiche "pacifiche", basti dire che in Israele c’è il più grande centro di ricerca e sviluppo della Microsoft al di fuori degli Stati Uniti. E i paesi europei cosiddetti amici dei palestinesi? "Nel 2000 lo stato ebraico ha esportato nel continente europeo beni per un valore di 8,52 miliardi di $ (il 27% delle esportazioni) e ne ha importati per 15,46 miliardi (oltre il 40% delle importazioni). Alla Germania Israele deve i sottomarini Dolphin e i carri armati Merkava" (da Limes, n. 2 anno 2002, p. 135). Per quanto riguarda l’Italia: oltre ad alcuni accordi militari, alla vendita di cannoni, pistole e munizioni, ci sono gli investimenti di società italiane in società israeliane (Telecom, Generali, Bassetti, Italgas), c’è l’importazione di merci di società israeliane o a partecipazione israeliana (Lovable, Ocean, Jaffa e Carmel, Oreal, H. Rubinstein, Estee Lauder, Calvin Klein, Ralph Lauren, Banana Republic), c’è la società Cois 94 (distributrice dei semi per il pomodoro Pachino) che ha rapporti con la multinazionale israeliana Hazera Genetics, nota per la produzione di ogm. Israele potrebbe reggersi in piedi senza questa copertura economica e militare da parte dell’Occidente? No di certo. E perché c’è questa interconnessione? Per un immediato tornaconto economico? Anche. Ma, intrecciata con esso, vi è un’altra ragione: la funzione strategica svolta da Israele in Medioriente, il suo ruolo di baluardo della "civiltà capitalistica" nell’area e per la costruzione del quale il governo inglese nel novembre 1917 (mentre stava per vincere l’Ottobre rosso e in tutta l’Asia fremeva la rivoluzione anti-coloniale) varò la dichiarazione Balfour. Si può fermare Sharon senza prendere di petto questo ruolo di Israele e l’imperialismo che lo tiene in piedi per tenere in piedi se stesso? |
Nei mesi estivi c’è stato nelle organizzazioni della resistenza palestinese un acceso dibattito sulle forme della lotta armata. Da un lato c’è chi dice basta alle azioni kamikaze per dire basta alla resistenza armata e all’Intifada tout court. Dall’altro lato, c’è chi è passato a una riconsiderazione delle forme di lotta armata da un punto di vista potenzialmente di classe.
Ci sembra significativo di un sentimento più vasto quello che abbiamo trovato scritto nel sito del Guardian in un appello, non pubblicato, discusso in seno ai Tanzim nei mesi scorsi. Il testo si rivolge ai cittadini degli Stati Uniti e a quelli di Israele, e già questo è un passo in avanti di incalcolabile portata. "Noi scegliamo il futuro", è scritto nel documento. "Decidiamo di sospendere gli attacchi kamikaze. Perché ora? È una mano tesa. Ci siamo resi conto che così non usciamo da un bagno di sangue reciproco. Vi offriamo una chance. Quello che è accaduto negli ultimi mesi ha trasformato la vostra società. (...) I nostri alberghi sono vuoti, i nostri ristoranti deserti, le nostre fabbriche chiuse, i nostri commerci interrotti e i nostri bambini hanno fame. E voi? Voi potete sopravvivere, per il momento, con il 10% d’inflazione, con la disoccupazione in aumento, e un esercito di giovani che occupa una terra straniera. E presto -forse non domani, certo- ma inevitabilmente, anche i vostri alberghi saranno vuoti, le vostre fabbriche chiuse, i vostri affari interrotti, i vostri bambini avranno fame e i vostri soldati vorranno tornare a casa. Avete amici nel mondo che vi sostengono. Ma non sarà così per sempre. Non dovreste pensare a trovare in voi stessi il vostro sostegno? Noi ci auguriamo che voi risponderete positivamente al senso di questa storica dichiarazione, e accettiate la verità dell’affermazione che non può esserci pace con l’occupazione. Dovete cessare di strangolare le nostre città, di uccidere la nostra gioventù, di prendere la nostra terra per annetterla negli insediamenti colonici, di sradicare i nostri frutteti, di umiliare le nostre donne e i nostri bambini, di detenere i nostri giovani nei vostri squallidi campi di concentramento, di demonizzare chi sceglie di combattere contro di voi. Tu popolo d’Israele dovresti comprendere la portata di questa dichiarazione. (...) Non porremmo fine alla nostra lotta per la nostra terra, non rinunceremo ai nostri sogni. Continueremo a resistere all’occupazione militare delle nostre campagne e delle nostre città (...) Non è una resa, non è una ritirata. Siamo sicuri che vi riusciremo e che saremo vittoriosi."
Non è la nostra posizione, ma è di incalcobile portata il fatto che le masse lavoratrici palestinesi percepiscano la volontà d’Israele di innescare una dinamica di "impazzimento" à la Fis algerino all’interno delle loro formazioni armate palestinesi. E che comincino a chiedersi come mettere a frutto la polarizzazione provocata dentro Israele dalla loro resistenza per arrivare ad un’azione convergente con i "cittadini d’Israele" finalizzata a trovare una soluzione rispondente alle aspirazioni di entrambi i popoli.
Il tutto si sta sviluppando dietro l’illusoria bandiera dei "due popoli, due stati"? Sì è vero, ma è una direzione di marcia che spiana la strada all’unico obiettivo che secondo noi può sbrogliare il groviglio creato dall’imperialismo in Medioriente: la lotta rivoluzionaria per la distruzione dello stato d’Israele e la costruzione sulle ceneri di esso di una fraterna comunità di lotta tra sfruttati palestinesi ed ebrei (e di altre nazionalità e religioni) in direzione del socialismo internazionale. Uno dei motivi che spingono l’Occidente a mettere all’ordine del giorno una nuova aggressione militare contro l’Iraq è proprio la necessità di isolare e spegnere la scintilla che, dalle prigioni a cielo aperto di Gaza e della Cisgiordania, può accendere l’Intifada generalizzata di cui è gravido il Medioriente (ne parliamo anche negli articoli sull’Iraq). L’esito dello scontro dipende da quello che riusciranno a fare i proletari ebrei e, soprattutto, i proletari occidentali.
Perché soprattutto i proletari occidentali?
Perché è dall’Occidente che Israele riceve la linfa vitale senza la quale non riuscirebbe a fronteggiare la resistenza palestinese e a portare avanti la sua politica. Le associazioni che qui in Italia (e in altri paesi occidentali) stanno promuovendo il boicottaggio delle aziende italiane legate all’economia israeliana, colgono finalmente il problema. Finora ci si è appellati all’Europa oppure ci si è organizzati per andare in Palestina a interporsi tra l’esercito israeliano e i palestinesi. Cosa stia facendo e possa davvero fare l’Europa per la Palestina è sotto gli occhi di tutti, se solo lo si vuol guardare. Per quanto riguarda l’interposizione, non saremo certo noi a negare la necessità di viaggi per stabilire dei contatti, per portare un aiuto materiale alla popolazione palestinese sotto assedio. Quanto però l’interposizione possa frenare la macchina bellica israeliana, i pacifisti italiani lo hanno sperimentato in primavera, e ne è una testimonianza la lettera scrittaci da alcuni di essi al ritorno dalla Palestina. Per fermare la repressione israeliana, è molto più efficace un’azione di lotta ben condotta qui in Italia (e in Occidente). Il problema è a chi rivolgersi in questa campagna e sulla base di quali motivazioni. Noi crediamo che, per darle la massima efficacia, occorre basarla su un’instancabile propaganda verso i lavoratori che denunci quello che realmente sta succedendo in Palestina e mostri il legame che c’è tra lo schiacciamento dei palestinesi, l’inganno degli ebrei e l’attacco anti-proletario portato avanti dal governo Berlusconi e dal padronato. E dunque, un’azione che chiami all’unione della battaglia contro la politica interna di Berlusconi-Fini-Bossi con il sostegno incondizionato alla lotta palestinese.
Che demistifichi il preteso ruolo di pace che l’Europa potrebbe svolgere se solo lo volesse e per il quale rimandiamo al riquadro "Europa! Europa!" di p. 5. Che si batta per il ritiro dei contingenti italiani e occidentali sparsi per il Medioriente per aiutare la macchina militare israeliana ad appesantire il maglio che comprime lo sviluppo della lotta dei palestinesi e delle masse lavoratrici di tutta l’area. Che sostenga la resistenza delle masse oppresse palestinesi e arabe incondizionatamente, a prescindere dalle attuali direzioni e dalle forme di lotta adottate, ne riconosca invece il valore vitale come parte della più vasta opposizione che sta incontrando l’imperialismo globalizzato negli altri continenti di colore e in Occidente. Che sappia vedere in essa la prova che è vana la speranza del proletariato occidentale di costruire un mondo diverso per gli sfruttati senza arrivare alla resa dei conti con il capitalismo. Che si adoperi per la costruzione di un fronte internazionale di battaglia che superi in avanti le azioni kamikaze nell’unico modo possibile, con la messa in campo cioè di uno schieramento proletario in grado di brandire l’arma che metterà al tappeto l’imperialismo e il suo baluardo israeliano: la lotta e la violenza rivoluzionaria dei proletari occidentali e delle masse lavoratrici del Medioriente e del Sud del mondo dietro la bandiera del socialismo internazionale.
Una lettera ricevuta da alcuni pacifisti al ritorno dalla Palestina.
Il trenta marzo in Palestina ricorre la Giornata della Terra. (...) Ci dirigiamo verso Ramallah, e poco prima di uscire dalla città siamo vittime del check point di El-Ram. Molti di noi non hanno mai visto da vicino un check point. Una barriera messa per impedire ai palestinesi di spostarsi liberamente sulla propria terra, dalla propria casa alla casa di un vicino, a quella di un parente, al proprio luogo di lavoro. (...) All’ingresso di Betlemme, l’insediamento di Har Homa. Molti di noi non hanno mai visto da vicino un insediamento. Quella che osserviamo uscendo dall’autobus era una collina coperta da un fitto bosco solo cinque anni fa. A non più di un chilometro possiamo ora ammirare una sorta di roccaforte con tanto di mura e bastioni all’interno della quale risiedono i coloni, gli israeliani più fanatici, l’esercito in borghese che lo stato provvede a distribuire nei punti strategici per provocare, fronteggiare e controllare la popolazione palestinese. (...)
Ma Betlemme ci aspetta, e affrontiamo il check point con la certezza di un inutile rituale da ripetere all’infinito. (...) L’ufficiale ventenne questa volta ha cambiato idea. (...) Molti di noi non hanno mai visto da vicino un campo profughi. Qualcuno pensava a tende, baracche, accampamenti. Ci ritroviamo in un paese di diciassettemila persone adiacente a Betlemme, considerato dagli israeliani un covo di terroristi. Prima che faccia buio ci accompagnano a vedere il concetto di dialogo che ha l’esercito israeliano. Cumuli di macerie segnano il luogo dove hanno ritenuto che abitasse un combattente palestinese, bombardata assieme a tutte le costruzioni vicine. Poco più in là, la sede della polizia palestinese è stata abbattuta con un missile, portando con sè la costruzione che ospitava la Mezzaluna Rossa. Uno spiacevole effetto collaterale. In una casa che espone uno striscione verde di Hamas un gruppo di donne veglia per la morte di un ragazzo, colpito da un mortaio nella sua auto con un amico. (...) Si continua a temere per l’ingresso dell’esercito, e ci vengono date le istruzioni da seguire in tale eventualità. Qui devi imparare a convivere con questa presenza. Alcuni di noi sono ospitati da famiglie palestinesi, altri rimangono nel centro. (...) La mattina successiva, da Gerusalemme, ci informano che il console non garantisce per la nostra incolumità. I nostri compagni lì ritengono sia meglio farci tornare. Decidiamo di lasciare Deheishe per non dividere il gruppo e creare problemi logistici in un momento delicato. I carri armati entrano a Betlemme occupando la città ed il campo di Deheishe il pomeriggio di quello stesso giorno, trentuno marzo duemiladue. Nel mondo cattolico è Pasqua. In Palestina inizia l’operazione Muraglia di Difesa. I compagni palestinesi hanno continuato a ribadire, nei giorni successivi, l’importanza della nostra presenza. I governi occidentali esprimono indignazione per l’accaduto. Molti di noi non hanno mai visto da vicino l’indignazione dei governi, ma adesso hanno un’idea più chiara degli effetti della loro connivenza.