Palestina

Nel manifesto, affisso a luglio sui muri delle principali città israeliane, è scritto: "Io, tenente David Zonshine, ufficiale in una unità di élite dei paracadutisti, ho servito per dieci anni lo stato d’Israele nei Territori e in Libano. Per anni ho eseguito con i miei soldati operazioni orrende, il cui unico scopo era la perpetuazione dell’occupazione e delle colonie, contrabbandate come difesa del focolaio e della patria. Mai più! Rifiuto di servire nei Territori, per il bene dello stato e d’Israele."

Le prospettive della lotta palestinese a Gaza e in Cigiordania sono legate a doppio filo con quanto accade entro i confini di Israele. Qui non c’è solo la continuazione dell’opposizione delle centinaia di ufficiali e soldati sionisti che si rifiutano di servire oltre la "linea verde" e il loro passaggio da una posizione di non-adesione a una posizione di attiva mobilitazione, convinti -giustamente- che non è sufficiente per fermare Sharon-Peres sottrarsi ai loro ordini di richiamo militare. C’è anche la diffusione in profondità nella popolazione ebrea d’Israele (e nella più vasta comunità ebraica occidentale) di un sentimento di allarme verso la politica di genocidio dello stato d’Israele: "una società -scrive E. Salerno dall’interno di Israele- profondamente divisa, stanca della guerra, priva di una causa superiore da perseguire" (In Israele. La guerra dalla finestra, Editori Riuniti, Roma, 2002, p. 158). Lo rivelano tanti episodi, tante voci dei più diversi ambienti sociali e culturali, più di altre significative quelle provenienti, come la denuncia della cantante Yaffa, dall’interno di un mondo finora ben compatto dietro la politica dello stato d’Israele. Ne diamo alcuni esempi.

 

"Gli economisti vedono rosso per il 2002, 250 mila disoccupati [il 10%, un vero e proprio trauma per Israele], al massimo una crescita dell’un per cento dopo la crescita negativa del 2001, l’anno più nero dal 1953, quasi zero gli investimenti stranieri [dopo gli accordi di Oslo vi è era stato un boom, n.n.], collasso totale dell’industria del turismo, il settore delle costruzioni verso il fallimento. (...) La crisi globale influisce su Israele, ma è il Conflitto a trascinare sempre più in basso l’economia e a determinare, comunque lo stato d’animo, la depressione. Ogni famiglia ha qualcuno sotto le armi, la riserva impedisce di accantonare se non per qualche mese il confronto con la realtà" (ib., pp. 179-180). La gente è "preoccupata per i kamikaze e per i parenti richiamati e finiti in quel territorio palestinese che la maggioranza degli israeliani vorrebbe restituire agli arabi. ‘Non voglio finire come questo’, ci ha detto una cassiera di una banca a ridosso della famosa pizzeria Sbarro, due volte colpita. Indicava la pagina di un quotidiano con le foto delle cento e passa vittime del terrorismo di questo mese" (ib., p. 185).

 

Nel dicembre scorso un gruppo di ebrei israeliani ha fatto leggere dal canale 2 della tv e pubblicare dal Jerusalem Post un appello rivolto ai cittadini della città statunitense di Ann-Arbor, nel Michigan:

"Abbiamo appreso di un’iniziativa dei cittadini di Ann-Arbor affinché il consiglio comunale di Ann-Arbor lanci una campagna di disinvestimento dagli investimenti eventualmente fatti in compagnie o fondi che intrattengano rapporti con Israele. Noi appoggiamo con forza questa iniziativa. (...) La ‘democrazia israeliana’, di cui sentite molto parlare, non è assolutamente tale quando ha a che fare con questi tre milioni di palestinesi, che da generazioni vivono sotto l’occupazione militare israeliana. (...) È evidente che gli israeliani e i palestinesi che lavorano insieme contro questa occupazione militare violenta e razzista, saranno incoraggiati nel sapere che voi ci avete dato ascolto nel vostro consiglio comunale. Per favore, decidete di disinvestire dalle compagnie e dai fondi che fanno business in Israele" (dal manifesto del 22 dicembre 2001)

 

"Quando ho visto i palestinesi con le mani legate dietro la schiena, giovani ragazzi, mi sono detta che era uguale a quello che era stato fatto a noi durante l’Olocausto, mi sono detta: noi siamo passati attraverso l’Olocausto. Come possiamo essere capaci di fare questo ad altre persone?" Sono le parole che Yaffa Yarkoni, cantante, un icona nella cultura israeliana, ha pronunciato in una intervista alla radio dell’esercito. (...)

Yaffa Yarkoni, che ha oggi 77 anni, è stata per generazioni la ‘cantante della guerra’. Ogniqualvolta i soldati andavano in battaglia, c’era lei con i suoi canti patriottici ad incitarli e ad alzarne lo spirito. (...) [Questa volta] invece Yaffa non solo non ha detto parole di incoraggiamento ma ha criticato aspramente l’esercito, il governo e il primo ministro Sharon  per i crimini che venivano commessi contro la popolazione palestinese.

Sono allora cominciati i dolori per Yaffa, che non ha più voluto parlare e forse non potrà più cantare. (...) Sua figlia Orit Shohat dice che la madre ha ricevuto telefonate di odio e che ha paura di apparire in pubblico. (...) Adesso Yaffa trova conforto nel genero che è parte del movimento dei soldati che si sono  rifiutati di "andare a distruggere un altro popolo".

(Da una lettera d’informazione di Luisa Morgantini)

 

L’8 agosto un gruppo di 45 intellettuali britannici ebrei annuncia con una lettera al Guardian la volontà di rinunciare al diritto acquisito da ogni ebreo alla cittadinanza israeliana. "Siamo in disaccordo con il principio secondo cui l’emigrazione sionista verso Israele rappresenti una ‘soluzione’ per la diaspora ebraica, per l’antisemitismo o il razzismo."