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Guerra all’Iraq, 1999

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L’IMPERIALISMO GANGSTER DEL DOLLARO PROSEGUE NELLA SUA AZIONE LIBERATRICE

Indice

Chi voglia per davvero intendere cos’è l’imperialismo, e perché è sempre più urgente, per il proletariato e per tutti gli sfruttati, spezzargli la schiena, non ha che da volgere il suo sguardo verso l’Iraq. Verso questo fierissimo popolo arabo assediato, affamato, sfigurato, derubato, bombardato, criminalizzato senza tregua dalle massime potenze "civili" e democratiche dell’Occidente.
La sua vicenda mostra al meglio come la guerra imperialista e la pace imperialista non sono l’una l’opposto dell’altra, ma le due facce della stessa medaglia del capitalismo putrescente.

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"Perché l’America sferra un nuovo attacco all’Iraq?", si chiedeva la stampa a dicembre, come se l’Iraq non fosse quotidianamente sotto attacco da un decennio. E, omesso questo piccolo particolare, ci ri-ammanniva le sue scontatissime o devianti "analisi" su Saddam e non Saddam; sulle pretese (ed introvabili) riserve di armi non convenzionali di cui l’Iraq pullulerebbe; sulle relazioni di questo o quell’ispettore ONU (cioè: CIA); o -come nei prodotti-fotocopia di un vignettismo politico impestato di sciovinismo- sul nesso Monica-Iraq. Svettanti, per così dire, da e su questa montagna di menzogne e di spazzatura, ecco le facce di tolla di D’Alema e di Bertinotti dirci che l’ultima raffica di bombe angloamericane sull’Iraq era, accidenti, davvero "inutile" o "ingiustificata".

Tutta questa trista compagnia di "analisti", gazzettieri, vignettisti e capi "riformisti" degni della stampa padronale che li ospita, ha "dimenticato" la grande verità di Clausewitz: la guerra, ogni guerra non è che "la continuazione della politica con altri mezzi". L’utilità e la giustificazione dei grandi e dei "piccoli" atti d’aggressione bellica all’Iraq da parte dell’imperialismo yankee e dei suoi soci, si scoprono agevolmente andando a vedere appunto di quale politica la guerra all’Iraq (di ieri e di oggi) è la naturale prosecuzione. Ovvero: quali interessi hanno reso e rendono una certa politica dell’imperialismo nei confronti dell’Iraq non solo pienamente "giustificata", ma obbligata. Dal punto di vista degli interessi dell’imperialismo, s’intende: e da qual altro "punto di vista" può mai essere guidato l’imperialismo?

Questi interessi furono apertamente dichiarati da Bush e dai suoi alleati nel macello del 1991: assicurare agli USA e all’Occidente una quantità illimitata di petrolio e di gas mediorientale a costo zero, per un tempo indeterminato; infliggere al ribelle Iraq, per avere osato ricongiungere a sé la sua antica provincia kuweitiana sottraendola alle grinfie dell’Occidente, una punizione esemplare che servisse da monito a tutte le potenziali ribellioni del Terzo Mondo. A difesa di questi stessi interessi del capitale imperialista è venuta, dopo la devastazione bellica dell’Iraq, ed a sua coerente prosecuzione, la spietata pace onuista con il suo embargo genocida. Poiché però neanche il genocidio gestito dall’ONU è riuscito a piegare interamente le masse irachene (e lo stato iracheno), la politica imperialista ha di nuovo cambiato forma, ed è tornata a parlare con i raid missilistici.

Non c’è bisogno d’essere ferrati marxisti, basta non avere il sangue interamente intossicato dalla propaganda anti-islamica per intendere che se la Casa Bianca, se il Pentagono, se Wall Street, se la borsa di Londra, se il governo britannico (con l’unanime consenso ed incitamento delle potentissime lobbies finanziarie ebraiche) hanno deciso di vibrare altre coltellate sul corpo iracheno, è perché ci sono ragioni (imperialiste) molto serie per farlo. La prima ragione è che all’imperialismo USA (e non solo) necessita il petrolio a costo zero.

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Petrolio a costo zero

L’Iraq c’entra molto con questa storia, perché è venuta proprio da Baghdad la più grave minaccia dell’ultimo ventennio al progressivo ritorno alla "normalità" (imperialista) dopo lo "shock petrolifero" degli anni ’70. Una minaccia costituita dalla nascita, tramite una violazione di forza dello status quo, di una grande potenza petrolifera (Iraq e Kuweit uniti) che sarebbe stata dotata di una elevata capacità di resistenza al brigantaggio occidentale.

Il prezzo del petrolio ha avuto una storia relativamente tranquilla dalla seconda metà dell’800 fino ai primi anni ’70 quando, nel 1973, avvenne una brusca rottura. In quell’anno i 6 paesi del Golfo membri dell’OPEC decisero che da quel momento in poi i prezzi del petrolio sarebbero stati fissati unilateralmente dai paesi esportatori, e cioè dai massimi paesi produttori (se s’esclude l’ex-URSS), com’è abituale sul mercato su cui i prezzi di Windows 98, delle macchine per l’industria, delle sementi per l’agricoltura o delle auto, tutte produzioni monopolizzate dall’Occidente, non sono certo fissati dai consumatori comuni o dai paesi del Terzo Mondo che le importano. Due mesi dopo questa decisione, il prezzo medio del greggio (qualità "Arab light") raddoppiò, superando per la prima volta i 10 dollari a barile. Intanto con la nazionalizzazione delle compagnie petrolifere e l’embargo selettivo sull’export di petrolio attuato verso gli USA ed i paesi europei sostenitori di Israele, il mondo arabo iniziava a scrollarsi di dosso, con iniziative finalmente unitarie, il sistema di saccheggio impostogli dall’imperialismo. Si manifestava così pure a questo livello la forza raggiunta dal moto nazional-rivoluzionario d’Asia e d’Africa, che l’insurrezione iraniana del ’79 potentemente ravvivò.

La quintuplicazione del prezzo del petrolio in due anni e poi il suo raddoppio nei successivi 8-9 anni assestò un brutto colpo alla gran parte dell’economia occidentale (ad onta degli ottimi affari delle 7 sorelle), concorrendo col ciclo delle lotte operaie del dopo-’68 ad accrescere i costi di produzione del capitale proprio nel momento in cui finiva un trentennio di super-sviluppo e più acuto diventava di conseguenza il bisogno del capitale di abbassare, invece, i costi di produzione. Nei 25 anni che ci dividono dal 1973 ha preso corpo una furibonda controffensiva USA-Europa-Giappone-Israele tesa a riassorbire questo shock e le sue conseguenze politiche. L’OPEC è stata praticamente distrutta. L’Iraq è stato scagliato (e si è lasciato scagliare) contro l’Iran. L’Algeria è stata devastata dalla guerra civile impulsata anche dall’esterno. La Libia, il Sudan, il Libano, la Palestina, la Siria, sono stati continuamente sotto tiro. E infine è arrivata nel 1991 la micidiale operazione anti-Iraq, che riportò il paese "all’era pre-industriale", come promesso da Baker.

Essa fu necessaria all’imperialismo per riportare il petrolio a costo zero. Ed è esattamente quel che è successo dopo la distruzione dell’Iraq se è vero che "in termini reali e in dollari del 1973, il prezzo medio del greggio OPEC (ormai solo una sigla vuota di significato -n.) è risultato, nei primi mesi del 1998, intorno a 3,81 dollari a barile, e cioè circa un terzo soltanto di quello che era il suo prezzo al 1974 (9,87 dollari a barile) e appena il 22% del massimo prezzo d’ogni tempo raggiunto nel 1982 (17,16 dollari a barile)" (Arabies Trends, dicembre 1998). Se si considera che un barile è poco meno di 160 litri, questo vuol dire che il greggio, il primo motore dell’industria, dei trasporti e della vita urbana nel mondo intero, viene a costare oggi ai paesi imperialisti non più di 40-100 lire al litro (a seconda che ci riferiamo al dollaro-1973 o a quello d’oggi)! Se non è una rapina legalizzata questa, quale lo è?

Questa rapina è assolutamente vitale per il mondo imperialista in quanto gli consente di contenere i costi complessivi di produzione (vedi riquadro), e quindi di conservare un certo livello di consumi di massa altrimenti impossibile data la contrazione del potere di acquisto dei salari. È con i proventi di questa e consimili rapine ai danni dei paesi del Terzo Mondo, è con il connesso strangolamento a mezzo crediti (cui questi paesi debbono sempre più ricorrere causa l’impoverimento derivato dal crollo delle loro ragioni di scambio), che l’imperialismo USA e l’Occidente tutto può evitare la recessione violenta, preservare la propria pace sociale e finanziare le armate di cielo e di mare con cui terrorizzare le masse supersfruttate della "periferia" (ed il proprio stesso proletariato).

Ma perché questa rapina prosegua indisturbata, l’Iraq deve rimanere indefinitamente in ginocchio, e, più in generale, non deve avvenire alcuna modifica dell’attuale ordine imperialista in Medio Oriente, se non nel senso d’una sua ulteriore balcanizzazione. Sennonché con un incredibile sforzo, e sapendo utilizzare abilmente sia il ritorno in campo della Russia, sia le contraddizioni tra USA ed Europa, sia la crescente insofferenza dei paesi arabo-islamici depredati, l’Iraq stava appunto rialzandosi in piedi, e iniziava a rivendicare con insistenza il ripristino dei suoi diritti. Tanto è bastato perché gli USA, con l’aiuto dell’arbitro venduto (l’ONU), si decidesse a sferrarle una raffica di colpi a tradimento. Sul versante del petrolio, il 1998 è stato un anno di sogno per gli stati grandi predatori, con un crollo dei prezzi intorno al 40%. Non si poteva permettere all’Iraq, per l’importanza oggettiva che esso ha, di interrompere quest’idillio rialzando la voce e sollecitando gli altri paesi produttori a rialzarla.

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"Popoli-paria"...

L’Iraq è diventato infatti un paese-simbolo della resistenza all’imperialismo in tutto l’Islam e oltre l’Islam. È appunto per questo che l’imperialismo gangster del dollaro (come lo definì Amadeo Bordiga nei suoi magnifici scritti degli anni ’50 dedicati alla "questione nazionale e coloniale") l’ha messo in cima alla lista di proscrizione dei "popoli-paria". L’ha amputato del 60% del suo territorio. Ha falciato con l’embargo un milione e mezzo dei suoi abitanti. Ne ha avvelenato e contaminato per generazioni le acque, l’agricoltura ed il patrimonio genetico umano, con l’uso di almeno un milione di proiettili di uranio impoverito (v. The Guardian Weekly, 10.1.’99). Ha sprofondato nella sottonutrizione la metà dei suoi bambini. Vi ha fatto tornare il colera. Ne ha spappolato le infrastrutture, e fa di tutto per impedirne la ricostituzione anche parziale. Ne ha raso al suolo le industrie. E quando a Bassora si era finalmente riusciti a rimettere in funzione la raffineria, l’ha fatta saltare di nuovo per aria. Ne controlla i più minuti movimenti attraverso uno sciame di spie e di manutengoli ONU, UNSCOM, CIA, ONG, etc., e chi più ne ha di questi sgherri (gli USA), più ne metta. Eppure non basta ancora.

Non basta perché, se ci sono popoli senza storia, quello iracheno non è tra essi. Le masse oppresse irachene hanno dato filo da torcere già al colonialismo britannico e alla monarchia che ne curava in Iraq gli interessi, detronizzata nel 1958 da una sollevazione popolare, e sono state sempre partecipi delle lotte anti-coloniali scoppiate nel mondo arabo. La fermezza e l’unità che stanno dimostrando dinanzi all’aggressione statunitense e britannica vengono da lontano. L’opera della sua divisione e libanizzazione è ancora largamente incompiuta. È in considerazione di ciò che gli USA non possono permettersi di mollare la presa, e continuano a mestare per creare, sia nel sud che nel nord, protettorati-fantoccio onde estendere il loro controllo sull’Iraq dall’aria al terreno. Nel mentre foraggiano all’estero i discendenti della deposta casa reale, ed una genìa di "oppositori democratici" così svergognata da stare al soldo degli assassini delle proprie genti.

Nei piani civilizzatori e liberatori dell’imperialismo yankee quello iracheno dev’esser trasformato in un popolo di paria, che baciano la mano che li percuote. Come ottenerlo se non con l’arma del terrore? E terrore sia! Il rotweiller di Clinton, il laburista Blair, non ha esitato a definire gli ultimi bombardamenti di dicembre "un modello per il nuovo modo di progettazione e di esecuzione della politica estera" (frase che andrebbe meditata). Non gli è stata da meno, a proposito di bestie feroci, l’Albright quando, a una giornalista che le domandava: "Abbiamo sentito che sono morti 500.000 bambini iracheni. È un numero superiore a quello dei bambini di Hiroshima. È possibile pagare tale prezzo?", ha replicato: "È una scelta molto dura, ma credo ne valga la pena". Sì, per tenere in piedi il suo ordine di sfruttamento e d’oppressione, per strozzare sul nascere il secondo tempo della rivoluzione anti-imperialista nel mondo arabo-islamico (e nell’intero Terzo Mondo), l’imperialismo USA ha bisogno d’infliggere alle masse irachene una punizione esemplare. Né soltanto ad esse, perché gli servono non uno, ma dieci, cento popoli-paria (da qui la moltiplicazione delle sanzioni specie con la presidenza Clinton), da scagliare, all’occorrenza, l’uno contro l’altro.

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...e "stati-kapò".

Ne ha bisogno in modo particolare in quest’area strategica per i suoi approvvigionamenti energetici perché i suoi tradizionali punti di forza stanno, progressivamente, venendo meno. Cadde ierl’altro l’Iran di Reza Palhevi. Traballano oggi Turchia ed Arabia saudita. E (peggio) non dà più le stesse garanzie di ieri neppure Israele, il primo degli stati-kapò dell’imperialismo nella regione, crescentemente esposto all’implosione, se non all’esplosione, delle sue contraddizioni. Questo mostruoso coacervo del massimo di "post- modernità" con il massimo di ultra-tradizionalismo; questa presunta "società delle libertà" che è in effetti una società interamente militarizzata; questa "terra promessa" che avrebbe dovuto fondere tutti gli ebrei in una sola entità e invece li oppone sempre più gli uni agli altri secondo inesorabili linee di classe; questa "società del lavoro e dell’eguaglianza" (secondo il vecchio mito del sionismo "socialista") che è sempre più diseguale ed infestata dalle classi parassitarie e dalle patologie tipiche del parassitismo; questa società che sempre più si frammenta anche per linee etniche, e che gronda come poche altre di razzismo non solo verso i palestinesi e gli arabi ma verso le sue stesse "etnie" de-privilegiate; questa società che si vorrebbe laica (in quanto moderna) in opposizione a quelle islamizzate, nella quale invece ormai è vincente una lugubre commistione politica-religione (domandate alle donne, per prime, con quali conseguenze); questa società la cui crisi di fondo si riflette nella crescente litigiosità del "mondo politico" borghese; questa società il cui esercito non è, non può essere, più quello di un tempo; questa società va, per l’imperialismo che ve l’ha voluta lì impiantare come suo presidio avanzato sulla terra del nemico Islam, protetta, proteggendo a tutti i costi il suo stato da ogni minima possibile minaccia esterna, da ogni pur minimo passo in avanti del processo di unificazione dell’esercito delle masse oppresse arabo-islamiche. Perché se dovesse saltare per aria, per implosione o per esplosione, la soluzione imperialista della questione ebraica (una soluzione falsa ed impraticabile alla distanza per la parte non sfruttatrice della massa ebraica) e con essa lo stato di Israele, si verrebbe a formare un’onda tellurica capace di terremotare per lungo e per largo il mondo islamico. È per questo che l’establishment statunitense e quello israeliano, pur avendo motivi di contrasto (dal momento che Israele non è affatto un semplice porta-ordini, ma agisce, cioé: aggredisce, in proprio, e come!), convergono però in pieno sulla necessità del sistematico terrorismo anti-islamico. Con Israele che fa la punta di lancia oltranzista in questa crociata in nome di un olocausto da monetizzare sordidamente all’infinito, a spese degli sfruttati arabo-islamici i quali, a differenza delle democrazie imperialiste e della Chiesa grandi complici del nazismo, non ne portano alcuna responsabilità.

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Un secondo aspetto

Dentro le nuove aggressioni belliche anglo-americane all’Iraq, oltre alla valenza anti-proletaria "esterna" ed interna di cui si è detto, c’è anche, non lo scordiamo, un elemento di contrasto inter-imperialistico. Con le loro iniziative gli USA, tagliando fuori progressivamente l’ONU ed altri possibili luoghi di intervento dell’Europa, e giocando in modo unilaterale la carta militare di cui restano padroni quasi assoluti, intendono mettere sempre più ai margini del gioco mediorientale i propri concorrenti europei e nipponici. I primi, in questo momento i più dinamici, si sono però ancora una volta divisi tra loro, grosso modo in tre posizioni. Al carro statunitense la Gran Bretagna. In una posizione mediana la Germania social-democratica e verde, che ha scaricato ogni colpa dell’accaduto sull’Iraq (su chi altrimenti?). Un po’ più mugugnanti e critiche, ma indisponibili ad esporsi un minimo verso i padrini d’oltre Atlantico, la Francia e l’Italia.

Più mugugnanti e critiche, sia chiaro, esclusivamente in ragione del fatto che l’opzione militare, in quella forma, dà loro poche chances di essere protagoniste e di poter incrementare i propri incassi a suon di bombe (è bastata, in proposito, l’esperienza del ’91). Il duo Jospin-D’Alema (ma avete forse sentito qualcosa di diverso dalle loro dépendances di "sinistra", verdi, "antagoniste", etc?) non ha il minimo dubbio che il prezzo del petrolio debba restare quello (ultrastrangolatorio) di oggi. Né che il popolo iracheno debba esser tenuto sotto speciale, stretto monitoraggio come tutti gli sfruttati islamici in genere. Il loro insistere sui mezzi di iugulamento non immediatamente militari è solo a scopo concorrenziale.

Invece, è stata capace di manifestare fermamente il proprio dissenso quella Russia di El’tzin e Primakov data per essere in mille pezzi, alla fame, all’elemosina di massa, all’accattonaggio internazionale. E non si è limitata ad atti dimostrativi, poiché tali non sono né le decisioni della Duma di agire per la totale revoca delle sanzioni all’Iraq e di congelare a tempo indeterminato il Salt-2, né la proposta del governo di Mosca di accordi a largo raggio con la Cina e l’India in chiave anti-USA, né -tanto meno- la decisione di grande rilievo militare di riunire in un solo comando centralizzato il suo armamento missilistico (oggi suddiviso in diversi comandi). La cosa più interessante, però, per noi che guardiamo ai contrasti inter-borghesi attraverso la lente dell’antagonismo capitalismo-socialismo e non viceversa, è che questo contrasto viva non solo come contrasto tra stati e tra potenze, ma coinvolga in misura crescente la massa della popolazione russa. Nelle pur piccole manifestazioni di sostegno all’Iraq e nelle dichiarazioni esplicite di disponibilità ad arruolarsi per l’Iraq date da un centinaio di piloti, emerge la percezione (giusta) che l’aggressione al popolo iracheno contiene in sé anche un attacco alle masse sfruttate slave e a quanti hanno la "sfortuna" di non appartenere all’Occidente e non intendono lustrargli le scarpe. Del resto nel mirino degli USA e dei loro mercenari dell’aria born to kill non è entrata forse, da tempo, anche la massa dei fratelli serbi?

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