Italia: i guasti del federalismo

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LA LUNGA MARCIA DEL FEDERALISMO CONTINUA, E PREPARA IL PEGGIO PER IL PROLETARIATO.

Indice

Quanto dà lo stato alle regioni


Da tempo abbiamo indicato nel leghismo un fattore di divisione e disorganizzazione del proletariato. Ma, mentre il federalismo oramai imperversa a destra, al centro e a sinistra, non si notano ancora apprezzabili reazioni di difesa e di lotta contro di esso, se non altro da parte dell’avanguardia di classe. E allora, riparliamone.

Settembre ’95. Due voglie dominano la scena politica: la voglia di centro e quella di federalismo.

Della prima ci occuperemo quanto prima, appena si sarà un po' diradata l’attuale confusione, che è tale da sembrare mettere in forse la stessa bi-polarizzazione degli schieramenti borghesi. E che ha toccato le vette del mistico o, se preferite, del grottesco, con l’apparizione a piazza Colonna d’un uomo uno e trino, concepito nel grembo non esattamente immacolato del FMI, capo del governo "tecnico" in carica e insieme dei due "contrapposti" governi politici a venire. (Una esemplificazione da manuale, questa, della sostanza totalitaria del pluralismo della democrazia borghese.)

Tratteremo qui, invece, dell’altra voglia dominante del momento.

Leghismo, oltre la Lega

E’ un dato di fatto difficilmente contestabile che il leghismo stia mettendo sempre più radici, quasi indisturbato, in tutte le classi della società. Parliamo di leghismo, e non di Lega, perché ci riferiamo non solo o tanto alla Lega Nord, quanto ad un processo economico-sociale, politico, culturale di portata più ampia, di cui la Lega è stata un prodotto, a cui la Lega ha contribuito ieri a dare forma, ma che oggi di molto la travalica. Un processo che se n’è reso anzi, in certa misura, indipendente, tra l’altro per l’alimento che gli stanno dando il PDS e la sinistra tutta, Rifondazione e avanzi imputriditi dell’ex-extrasinistra (v. l’ultima esternazione di Toni Negri) compresi.

Alla diffusione del leghismo come prospettiva, mentalità e -più ancora- come prassi (anche sindacale e dei partiti politici "di sinistra"), s’accompagna una sua seconda mutazione. La prima si verificò nel passaggio dall’etnicismo (Liga Veneta) al nordismo (Lega Nord) e vide questo inglobare, non negare, quello. La nuova mutazione, in parte subìta dalla stessa Lega bossiana che ne può essere indebolita e slabbrata, vede invece il federalismo nordista, dentro e (forse soprattutto) fuori la Lega, assumere connotati autonomistici, localistici, centrifughi via via più spinti. Non solo centrifughi rispetto allo stato unitario "centralista", ma anche all’interno stesso del Nord.

Questa diffusione-trasformazione del leghismo la osserveremo qui sotto il solo profilo della vita istituzionale, che è comunque uno specchio, pur se deformato, di quella sociale.

Autonomismo, al di là del nordismo

Partiamo dalla periferia, dove, solo nell’ultimo anno, ci imbattiamo in una sfilza di avvenimenti dall’inequivoco segno leghista. Particolarmente significativi, perché hanno per protagonisti interi organi istituzionali locali, e sono dunque, trasversali agli schieramenti politici di centro-destra e centro-sinistra.

Si può cominciare con l’achtung Rom (autunno ’94), la mezza rivolta di Bolzano contro la finanziaria del governo Berlusconi, accusata di perpetrare un furto di 300 miliardi ai danni di questa iper-depressa provincia iper-tartassata da Roma. Che infatti versa nelle casse bolzanine appena 7,7 milioni l’anno pro capite, a fronte di 2 milioni circa in media per tutte le altre regioni (incluse le "iper-assistite" del Sud -vedi riquadro). A guidare la protesta, condita di appelli all’Austria (garante ONU per il Sud-Tirolo) ed allusioni al tritolo, è la Svp, con cui di lì a pochi mesi l’Ulivo farà blocco elettorale, conseguendo a Bolzano un’altra delle famose vittorie del "progresso" e della "solidarietà".

Si può proseguire con la dichiarazione d’indipendenza dall’Italia di Cortina d’Ampezzo che si proclama -pretesto: i tagli alla sanità locale da parte della regione Veneto- Regione Dolomitica Europea. La protesta, con tanto di dogane, nuove targhe automobilistiche e passaporti europei, dura un solo giorno (30 ottobre ’94). Ma i suoi promotori (autorità, industriali, commercianti) fanno sapere di essere "disposti a tutto, anche alla violenza" (La nuova Venezia, 31.10) pur di proteggere i propri interessi locali, e di esser già collegati alla bisogna con altri 13 "comitati popolari" della stessa fatta.

Ben più rilevante, nel novembre, la ribellione dei comuni e delle regioni (Piemonte in testa) colpite dall’alluvione. Rivendicano la diretta gestione dei fondi per la ricostruzione, e, curiosamente, il loro bersaglio, in quanto difensore di strategie "centraliste", è il leghista Maroni. Nella scalmana federalista a difesa delle "comunità locali" (leggi: delle speciali agevolazioni per le aziende locali) si distinguono bei tomi di progressisti tipo il finanziere Debenedetti, che non spendono una parola (tanto meno di lotta) a tutela dei più danneggiati, i proletari, e contro le istituzioni centrali e locali che sistematicamente se ne "dimenticano".

Tornando in Veneto. A maggio ’95 viene eletta, in alternativa alla Lega e al suo "secessionismo", la giunta Galan, composta da FI e AN. Il suo primo atto? Banale: un progetto di legge d’iniziativa regionale volto a cambiare la Costituzione in senso fortemente federalista. Unanimi gli applausi dalla stampa locale, dalla Lega, dal Cacciari ultrà del federalismo seguace di Miglio, dal Cacciari-bis di Rifondazione ("purché non siano solo chiacchiere"...). Evviva, forza (export) Veneto!

Nord contro Nord (e Sud contro Sud)

Non basta: al conflitto con il governo nazionale e con lo stato nazionale vanno sempre più intrecciandosi e sovrapponendosi dei conflitti tra regioni, e perfino entro le regioni.

Il primo l’innescò proprio il senatur quando incautamente propose di creare uno "stato del Triveneto". Fulmini e saette! Trento, Bolzano e Trieste riunite d’urgenza respinsero sia l’idea delle macroregioni che la soffocatrice pretesa bossiana di "annullare la specificità delle diverse autonomie", rivendicando la propria competenza anche in politica estera. Ciascuna per sé, s’intende, e in competizione con tutti gli altri enti locali.

Il secondo conflitto inter-regionale formale si è avuto intorno al ritardato finanziamento europeo al progetto Malpensa 2000. Nella occasione il presidente della Lombardia Formigoni ha sferrato, per conto della "bottega" di cui è amministratore delegato, un attacco frontale agli "interessi di bottega" (parole sue) della regione Emilia-Romagna, privilegiati, dice, a cagione del "rosso". Un colore che a Bruxelles e in Europa, si sa, apre tutte le porte... Ma il problema vero è un altro.

Il terzo, e qui siamo al Sud (che certo non può dirsi vaccinato dal localismo), ha opposto Basilicata e Puglia. Oggetto del contendere, la quota-limite del 20% che la Basilicata ha posto alle assunzioni di giovani pugliesi alla Fiat di Melfi e nell’indotto. Tra i più attivi difensori delle "comunità pugliesi" si sono segnalati alcuni esponenti del Pds e della CGIL, "naturalmente"... della Puglia.

Né mancano i secessionismi e gli attriti infra-regionali. In Veneto, ad esempio, è stata ormai formalizzata da un consigliere del Ppi la proposta cortinese di una nuova Regione Alpina delle Dolomiti (in Italia, per ora...). E una diffidenza muta (ma fino a quando?) delle altre province contorna l’asse in costituzione tra Pa-Tre-Ve, che si è auto-proposto come il motore dell’autonomia dell’intera regione. E in Piemonte, intorno ai fondi post-alluvione non è in atto un tiro alla fune tra la città di Alessandria e il "resto del mondo"?

E si potrebbe continuare, purtroppo, nel descrivere la incessante metastasi di tendenze federaliste sempre più marcate in senso localista centrifugo (e non solo genericamente nordista), ricordando che la regione Friuli è mobilitata per strappare un prezzo furlan per la benzina concorrenziale con quello sloveno, che più di una regione del Nord sta inclinando a riservare ai "propri" cittadini con sangue locale d.o.c. i posti nel pubblico impiego, e così via.

Non è evidente che questa catena di fatti e la loro dinamica, oltre a rischiare di sfibrare la trama dell’unità nazionale borghese (che, pur con le sue contraddizioni, fu un evento progressivo), corrodono l’unità materiale e ideale del proletariato? che lo dividono innaturalmente per aree territoriali, regioni, comuni, chiamandolo ad accodarsi ai gruppi di potere locali, non meno fetidi e anti-operai di quelli nazionali?

Federalismo fiscale

La presa del leghismo nelle istituzioni non è crescente solo in "periferia", lo è anche al "centro". In Parlamento dove, pur se la Lega nel "ribaltone" ha perso il 28% dei suoi deputati, il leghismo ha fatto cappotto, dacché nessuno (neppure il deputato rautiano) osa ormai dichiararsi anti-federalista. Ai vertici del Parlamento, che sponsorizzano apertis verbis la riforma federalista dello stato (e Scognamiglio è uomo della grande industria e di F.I.). E infine, ed è cosa decisiva, sin nel governo.

Dopo il "libro bianco" di Tremonti che introduceva nella riforma del sistema fiscale il principio federalista, la finanziaria per il ’96 sarà la prima a contenere misure concrete in questa direzione, attribuendo a comuni e regioni la riscossione di alcune imposte (sul gas, l’elettricità etc.) di cui aveva finora la titolarità lo Stato. L’approccio prescelto è quello gradualistico (da "federalismo sostenibile"), l’importo iniziale è relativamente limitato (in un solo mese è già lievitato, però, da 2-3.000 a 10-12.000 miliardi!), ma il ministro delle finanze Fantozzi si è affrettato a dire: quello al federalismo fiscale è un "passaggio irreversibile". Esatto. Con quali conseguenze?

In Italia, al momento, il 91% delle entrate delle regioni, l’83% di quelle delle province e il 72,5% di quelle dei comuni derivano da trasferimenti dello stato. La introduzione del federalismo consiste, sotto il profilo contabile, nell’ampliare al massimo possibile le entrate fiscali dirette degli enti locali, "decentrando" loro parte o gran parte del potere fiscale centrale. A destra e a manca, la promessa è: il fisco federalista sarà più trasparente (1), più vicino ai cittadini e perciò, alla fin fine, più equo.

Demagogia e realtà

La realtà sarà ben diversa dalle promesse. Non per caso, gli sponsor del federalismo fiscale lo indicano come un mezzo per responsabilizzare gli enti locali all’obiettivo di contenere la spesa pubblica, in quanto li vincola al pareggio di bilancio, impedendo loro di scaricare sullo stato, come ora avviene, i propri deficit. Essendo la spesa sociale la principale voce di uscita dei bilanci locali, il suddetto vincolo comporterà il taglio della spesa sociale. Ed in modo più pesante proprio laddove ci sarebbe maggiore bisogno di potenziarla, ma ci si troverà di fronte, invece, ad una crescente penuria di mezzi finanziari. Infatti poiché il federalismo fiscale comporta che comuni, regioni, etc. spendano in proporzione alle loro entrate fiscali, ed essendo queste a loro volta legate al grado di sviluppo produttivo delle singole realtà (la Lombardia ha un reddito pro capite tre volte superiore ad esempio a quello della Calabria), è ovvio che il passaggio dal "centralismo" al federalismo significherà togliere alle regioni più povere per dare alle più ricche. Tant’è che in tutte le proposte di riforma, per temperare in qualche modo questo risultato (dato da tutti per scontato), è prevista la costituzione di un fondo di perequazione (più o meno cospicuo, a seconda dei varî orientamenti), cui lo stato potrà attingere per assistere le aree "più sfavorite", che la riforma federalista del fisco e dello stato sfavorirà un altro pò in più.

Che il fisco federalista sarà "più vicino ai cittadini" è una baggianata. L’ondata di federalismo fiscale che da tre lustri attraversa l’Occidente è una componente dell’offensiva neo-liberista contro i "cittadini" lavoratori, che accentua il carattere di classe del sistema fiscale, rendendolo "più vicino" ancora... al capitale. Guardiamo agli USA. Cos’ha decentrato il federalismo reaganiano? La spesa per l’aiuto alle famiglie povere e alle giovani madri, quella per i sussidi ai disoccupati ed ai programmi-casa, etc. Ebbene, credete che le aziende capitalistiche, dopo avere imposto al più forte esecutivo del mondo una detassazione senza precedenti dei propri utili, si siano poi tranquillamente lasciate alleggerire le proprie cassaforti da poteri locali molto più deboli, consentendo loro quegli "sprechi" da welfare state per cancellare i quali avevano fatto, a Washington e su Washington, fuoco e fiamme? Chiaro che no. Tant’è che in poco più di 10 anni la spesa sociale è stata falciata in media, proprio dagli enti locali!, del 40%. Bisogna esser davvero ingenui (o finti tali) per pensare che in Italia andrebbe in modo del tutto diverso.

In apparenza, dunque, il federalismo fiscale attua solo uno spostamento neutro, se non "positivo", di risorse e di potere dal centro alla "periferia". In realtà, esso sposta ricchezza e potere dal proletariato alla borghesia e dalle zone più povere alle più ricche. Accentra ulteriormente nelle mani del capitale l’una e l’altro, tanto al centro che in periferia. E in Italia, per la congiuntura storico-economica in cui cade, è probabile rafforzerà non solo le distanze tra Nord-Sud e il conflitto tra nordismo e meridionalismo, ma in generale tutte le spinte particolaristiche, sia a Nord che a Sud.

Monito jugoslavo

Dove porta la via del federalismo fiscale? Un primo sbocco certo è quello tracciato dal reaganismo. Un altro, possibile, specie in una realtà di stato unitario meno coeso che negli USA com’è quella italiana, è proprio lo sbocco jugoslavo; non necessariamente alternativo al primo (i due mali possono combinarsi, minando insieme l’unità della classe).

Tra le tante cose della vicenda jugoslava che vengono dimenticate, c’è la circostanza che anche il federalismo fiscale ha dato il suo bravo obolo per disgregare la Jugoslavia. Solo tre anni dopo avere fieramente combattuto, alla fine del 1971, e formalmente vinto, la prima violenta febbre nazionalista-separatista scoppiata in Croazia con lo sciopero degli studenti (2), lo stesso Tito non seppe, non poté, fare a meno di introdurre un pizzico di federalismo fiscale nell’ordinamento jugoslavo. Solo dieci anni più tardi l’economista Milica Uvalic ci descriveva il seguente caos: 17.000 diverse entità con diritto d’imposizione fiscale che "introducono indipendentemente (gli uni dagli altri) imposte e vari tipi di contributi"; "eterogenità nella quantità e qualità delle imposte nelle varie parti del paese". Davanti agli evidenti inconvenienti, si cercò di correre ai ripari; dopo molti sforzi fu siglato nel 1981 un accordo inter-repubblicano che tentava di dare una qualche omogeneità al sistema fiscale. Ma l’accordo restò inapplicato. La dinamica del mercato e le spinte sub-nazionaliste messesi in moto erano oramai più forti delle leggi. "Così -annota malinconico l’A.- la politica fiscale continua a effettuarsi secondo principi diversi, mutualmente non equilibrati, creando imposizioni differenziate per uno stesso prodotto; di conseguenza la politica fiscale ancora oggi è uno dei fattori attivi della frammentazione del mercato unitario jugoslavo" (Est-Ovest, 1983, n. 4, p. 26). Dopo la frammentazione del "mercato unitario", è arrivata quella dello stato. Non c’è materia su cui riflettere?

Federalismo solidale?

Conosciamo la prevedibile replica di parte pidiessina, che è -con poche varianti- anche quella dei "neo-comunisti": "Primo: la Jugoslavia non c’entra un fico secco. Secondo: il nostro modello di federalismo fiscale non è quello statunitense-reaganiano, ma quello cooperativo adottato in Germania, nel quale le norme sono dettate centralmente dallo stato, il sistema tributario è unico su tutto il territorio nazionale ed esiste un forte solidarismo tra i Laender".

Che la Jugoslavia c’entri, ahinoi, lo si vedrà sempre più chiaro. Non vi dice nulla che nei mesi scorsi si sia parlato, per la prima volta in contemporanea, del "rischio insurrezione" al Sud e del "rischio secessione armata" al Nord? e non è forse scontato che l’invelenimento del federalismo nordista causerà, prima o poi, delle risposte "autonomiste" da Sud?

E’ piuttosto il richiamo alla Germania ad essere fuori luogo. Il federalismo, ricordiamolo, fu imposto alla Germania dagli alleati, onde indebolirla strutturalmente (la Francia arrivò a progettare la divisione della Germania in 17 stati). Sennonché il capitalismo tedesco, che con i suoi Konzerne, il suo intreccio banca-industria, la sua capacità organizzativa globale, è il più accentrato del mondo, è riuscito a neutralizzare la potenziale valenza disarticolante del federalismo "alleato" ed a rovesciarne perfino il segno, proprio a misura che ha imposto dal centro, alla tedesca, le regole generali di funzionamento dello stato (anche quelle di spesa) e il principio "cooperativo" cui devono attenersi i Laender e gli enti locali. Nel caso tedesco, perciò, abbiamo un decentramento funzionale all’accentramento, non un decentralismo che moltiplica i "centri". Ora, pur lasciando da parte l’avversità delle condizioni internazionali attuali dell’economia capitalista (ben diverse da quelle del "trentennio d’oro") ad ogni forma di "solidarismo", di rilancio del welfare state; non ci sembra di vedere al momento in Italia né nella grande borghesia, né nel polo progressista, la determinazione ad usare il federalismo come strumento per unire più strettamente in chiave antileghista, omogeneizzandole, le varie parti dell’Italia, e per rendere capitalisticamente "più equa", in chiave anti-liberista, la ripartizione sociale della ricchezza. Sbagliamo? E se no, richiamare il modello tedesco non è solo un agitar specchietti per le allodole? (Altrettanto baro è Bossi quando indica l’"economia sociale di mercato" tedesca come la meta che la Padanìa potrà conseguire, a condizione che si liberi dal peso morto del Sud, proprio quando è lo stesso capitale tedesco a lanciarsi all’assalto contro di essa. Come ci si potrà permettere a Bergamo quel che è diventato un "lusso" a Monaco?)

Ma se per davvero i capi progressisti hanno in mente una forte correzione "solidaristica" all’odierna realtà del rapporto Nord-Sud e della spesa sociale, perché nessuno di loro, neppure per bassa demagogia elettorale, s’arrischia a dire che dal federalismo fiscale il Sud ci guadagnerà, e che le garanzie sociali dei lavoratori ne saranno rafforzate? e se davvero sono così tanto "centralisti", perché non alzano un dito contro l’autonomismo ed il localismo più sconsiderati? e come mai proprio le realtà di partito e di sindacato più forti della "sinistra", quasi tutte nel Centro-Nord, lanciano proposte federaliste tra le più estreme, sia riguardo allo stato che, peggio ancora, al partito e al sindacato?

Il mercato polarizza

Nel contesto italiano attuale, l’adozione del federalismo fiscale "solidale" è in realtà la solita (per svariate ragioni, impossibile più del solito) quadratura del cerchio di parte Pds. D’Alema e C. da un lato cedono alle spinte spontanee del mercato, dall’altro cercano di governarle e moderarle. Il fatto è che se da sempre il mercato capitalistico polarizza classi, nazioni e territori, e questa sua caratteristica si è accentuata, in generale, con la sua decadenza, l’avvento della crisi e di riprese sempre più concorrenziali la stanno esasperando in modo spasmodico.

In specie l’ultima ripresa, la più export-oriented del dopoguerra, ha dato una spinta formidabile all’ulteriore allungamento delle distanze tra Nord (e Nord del Centro) e Sud. I dati dell’Ufficio italiano cambi sull’export di merci del mese di marzo ’95 non abbisognano di commenti. Del valore totale di 28.266 miliardi, Lombardia, Piemonte e Veneto coprono più del 50%; con Emilia-Romagna e Toscana arrivano ai 2/3. L’altro 1/3 è ripartito, inegualmente, tra le restanti regioni. La Lombardia (che esporta all’incirca il 35% del suo prodotto industriale) ha un export di 8.292 miliardi, il Piemonte di 3.700, il Veneto di 3.251, la Calabria di 13, la Basilicata 25, la Campania (record nel Sud) 408. L’export di Italia meridionale e isole insieme supera d'un pelo quello della provincia di Vicenza (1.090 miliardi contro 1.037), ed è 1/4 di quello della provincia di Milano (3).

Lo stesso effetto di accrescimento delle distanze territoriali e di maggior disunione della classe lo hanno avuto e l’avranno le politiche di contenimento della spesa pubblica, che CGIL-CISL-UIL da anni sciaguratamente concertano con governo e padronato. Se infatti l’economia meridionale, oltre ad essere più dipendente dal mercato interno, è anche più dipendente dalla spesa pubblica, le politiche di taglio del welfare (e da quanti anni le finanziarie non fanno che tagliare?) la colpiscono a doppio. E si sa su quali spalle questi colpi vanno a cadere se è vero che in 4 regioni del Sud si concentra più del 50% della disoccupazione nazionale (ecco un... decentramento da lunga pezza già avvenuto!), al Sud il tasso di disoccupazione dei giovani è superiore per i maschi al 50%, per le donne al 60%. E i salari pur in assenza di gabbie salariali di legge, vi sono mediamente inferiori a quelli del Nord, nell’industria del 25%, in agricoltura del 35% (L’Unità, 19.7.’95).

Chi influenza chi

Questa doppia polarizzazione sociale-spaziale non è che il riflesso "italiano" del processo di globalizzazione e finanziarizzazione del capitalismo mondiale, che centralizza a livelli sempre più alti, con inaudita violenza, le forze produttive (vive e morte). E che con lo stesso impeto esaspera sia gli antagonismi che le contraddizioni sociali, disarticola e -spingendo all’acme la competizione tra proletari, regioni e nazioni- lacera i rapporti sociali e territoriali, e le forme istituzionali meno consolidate. E’ questo contesto teso, fortemente disequilibrato, che il rallentamento della ripresa tende ancor più, che spiega la mutazione del leghismo lombardo-veneto nel senso di un autonomismo centrifugo talvolta anche apertamente secessionista (in direzione Germania/mondo germanico), di cui abbiam detto. Per questo ogni passo in avanti sulla strada del federalismo, fiscale o istituzionale, può avere conseguenze più esplosive di quelle previste, innescando una reazione a catena difficile da controllare per gli attori apparenti del processo. In tali condizioni un federalismo fiscale "solidale", ammesso (e da noi non concesso) che la "sinistra" voglia davvero perseguirlo, fallirebbe sul nascere.

Gli ultimi anni provano, del resto, che tra le diverse ipotesi federaliste in competizione, è quella della Lega che sta agendo da traino rispetto sia al federalismo "moderato" (del grande capitale -vedi il progetto della Fondazione Agnelli o le posizioni espresse da Fumagalli a nome di Confindustria), sia al federalismo progressista, molto più di quanto il federalismo "moderato" e quello progressista stiano riuscendo a influenzare e frenare il leghismo della Lega. E’ questo a spostare di continuo in avanti i traguardi del federalismo. Così, ancor prima d’avere acquisito, ciò che oggi è, il primo passo verso il federalismo fiscale, con il "Parlamento di Mantova" ed il progettato referendum sul federalismo, nonché con la proposta del Nord-Nazione che si autodetermina, Bossi ha già gettato sul tavolo "in concreto" il tema della riforma federalista dello stato e delle tre Italie (legandola alla questione del debito statale). E sono sintomatici la fiacchezza e il becero legalismo con cui, specie da sinistra, si è risposto alle sortite di Bossi e di Speroni. Figura non migliore ha fatto AN affidando ai giudici la difesa dell’unità nazionale...

Nulla esclude, sia chiaro, la partita è tutta aperta, che il grande capitale sia capace d’un forte colpo di reni centralizzatore, magari sotto il pungolo di un’intensa ripresa anche politica della conflittualità del proletariato. Ma continua a restare notevole la distanza tra la forza dinamica (in termini merceologici) delle aziende italiane, e la debolezza ed esposizione dell’Azienda, del Sistema-Italia. La centralizzazione bancaria e finanziaria sta facendo progressi (anche questi, però, a partire da Mediobanca e dal San Paolo, connotati in senso nordista). Così pure ci sono prime decise reazioni alla svendita ai capitali esteri delle imprese da privatizzare. Tuttavia, le prese di posizione più nettamente anti-leghiste restano a tutt’oggi (a parte Limes) quelle del quotidiano vaticano, il che è quanto dire. E non è un mistero che nel Polo delle destre è anche la questione Nord/Sud ad agitare le acque tra FI e AN e dentro FI, la cui ala nordista (o se ne deve parlare già al plurale?) vede bene (ricambiata) un riavvicinamento di FI alla Lega e al leghismo. Nel frattempo, sul versante Sud, settori di PDS e AN (vedi il "civile" ping-pong Bassolino-Mussolini) non si lanciano solo segnali di fumo...

Non sta a noi indovinare se nel capitalismo italiano prevarranno le tendenze centralizzatrici o se la situazione, anche per l’intervento interessato delle maggiori potenze, sfuggirà di mano ai manovratori, precipitando verso derive centrifughe. Nostro compito è richiamare il proletariato, e anzitutto la sua avanguardia, a non sottovalutare ancora il pericolo leghista, a non continuare a subire passivamente la diffusione del virus federalista e, tanto più, a non favorirne in modo sconsiderato l’attecchimento, ma ad iniziare nelle proprie fila l’indispensabile opera di bonifica. A tornare in campo per sé, per i suoi interessi storici, contro tutte le tendenze borghesi, sia quelle liberiste "pure", sia quelle che coniugano in modo insidioso liberismo (o liberal-democrazia) e federalismo.

QUANTO DA’ LO STATO ALLE REGIONI
Valle d’Aosta

Prov. trento

Prov. Bolzano

Sardegna

Sicilia

Friuli

Basilicata

10.12

7.86

7.77

3.58

3.24

3.08

2.17

Umbria

Liguria

Molise

Calabria

Toscana

Emilia R.

Marche

2.15

2.11

2.11

2.09

2.01

1.95

1.94

Abbruzzo

Lazio

Piemonte

Puglia

Campania

Veneto

Lombardia

1.94

1.91

1.88

1.87

1.86

1.86

1.85

Fonte: Ragioneria dello Stato, 1995 (i dati sono in milioni).

Le cifre della tabella indicano i trasferimenti pro capite che lo Stato ha effettuato alle Regioni nel 1994.

Si vede ad occhio nudo che tra le province e le regioni a statuto speciale lo stato "centralista" (aborrito dai nordisti) privilegia largamente le non proprio meridionalissime Valle d’Aosta e Trentino Alto-Adige.

Quanto alle regioni ordinarie, se si fa l’accorpamento dei dati per aree territoriali, si ha: 2.01 milioni annui pro capite per le regioni del Centro, 1.99 per quelle del Sud, 1.91 per quelle del Nord.

Dunque un sostanziale equilibrio. Che c’è anche nei conferimenti fiscali delle regioni allo stato. Infatti il Nord versa allo stato, per le imposte, circa il 26,7% del proprio prodotto lordo, il Centro il 25,7%, il Sud il 24,1%.
Ma dato che il reddito medio delle province meridionali è nettamente inferiore a quello del Centro-Nord, non si tratta forse di "parti eguali tra diseguali"? Peggio, diremmo: è oltre un secolo di finanziamento statale a uno sviluppo nazionale altrettanto combinato quanto diseguale. Ad onta del riformismo cattolico, fascista e "social-comunista", riuscito al più a temperare gli eccessi del mercato


Note

(1) Quanto al tema trasparenza, chi se la sente di sostenere che la Guardia di Finanza è localmente meno corrotta e tangentista che a Roma, si faccia avanti.

(2) Per l’"ultima battaglia di Tito", si veda il nostro opuscolo del 1991 Jugoslavia. Tra scontro "inter-etnico" e scontro di classe, pp. 24-29.

(3) Nel 1858, alla vigilia dell’unità, il commercio estero degli Stati Sardi (Piemonte, Liguria e Sardegna) era 6 volte superiore a quello della parte continentale del Regno delle Due Sicilie (la stima, di A. Graziani, è richiamata da P. Saraceno, in La mancata unificazione economica ita-liana a cento anni dalla unificazione politica, 1961). 140 anni di unificazione economica effettiva, al modo capitalisticamente possibile, hanno approfondito lo squilibrio.