Mentre un istituto statistico internazionale assegnava allo stabilimento Fiat di Melfi la palma della fabbrica a più alta produttività dell'Europa, le elezioni della RSU davano "a sorpresa" il primo posto al Fismic (il sindacato giallo, ex Sida) e alla Cisl, entrambe al 31,5%, con la Cgil 10 punti sotto. Due fatti intimamente legati.
Sorto come modello della "nuova frontiera" produttiva del capitalismo, questo stabilimento ne raccoglie tutti i veri dettami: terzo turno obbligatorio per far funzionare gli impianti 24 ore su 24 per sei giorni la settimana -con lavoro notturno anche per le donne-, forza lavoro giovane e priva di tradizioni di lotta, lavoratori inquadrati ai livelli più bassi, assunti con contratti di formazione per ricattarli e costringerli ai ritmi infernali della "nuova" organizzazione del lavoro, un clima interno da moderna colonia penale.
La futuristica "fabbrica integrata" nasconde, insomma, un incredibile salto in avanti nei livelli di sfruttamento, l'unico strumento che il capitalismo conosce per abbassare il prezzo della merce "particolare" forza-lavoro e cercare di resistere nell'aspra concorrenza internazionale cui lo crisi lo obbliga.
L'affermazione di Fismic e Cisl e lo scacco della Cgil si collocano in tale quadro, e rivelano le difficoltà oggettive per gli operai, ma anche le pesanti responsabilità dei vertici sindacali confederali e categoriali.
E indicativo che la percentuale Fiom sia più bassa tra gli operai e nei reparti con più contratti di formazione in attesa di riconferma, dove la maggioranza è ancora inquadrata al primo (!) livello e i ritmi di lavoro sono del 20% superiori a quelli delle altre fabbriche Fiat.
Qualche dirigente Fiom (Camusso) ha dichiarato, senza vergogna, a mo' di autoassoluzione che il risultato è accettabile dal punto di vista del "clima culturale della fabbrica e del suo territorio".
In realtà, prima ancora del suo insediamento in Basilicata, alla Fiat è stato permesso di fare "il bello e il cattivo tempo". Oltre ai fondi pubblici (3000 miliardi, ottenuti anche grazie ad anni di lotte per lo sviluppo e gli investimenti al sud), la Fiat ha avuto mano libera nelle assunzioni e nella formazione, operando selezioni selvagge e discriminatorie (utilizzando al meglio il controllo territoriale di parrocchie e notabili democristiani). E come dimenticare che laccordo sul ciclo continuo di produzione fu sottoscritto prima che i lavoratori entrassero in fabbrica?
Il primo impatto dei neoassunti , con delle premesse del genere, non poteva che essere drammatico. L'assenza di alternativa occupazionale ha costretto la maggioranza degli operai a restare in quel moderno inferno dantesco, ma è significativo che vi siano state ugualmente tante rinunce per impossibilità fisica a sopportare quei ritmi di lavoro.
Nonostante la pesantezza della situazione, già durante i corsi di formazione e i primi periodi di lavoro, si registrarono casi di contestazione operaia allo "stile Fiat" e primi tentativi di organizzazione. Ma, nonostante limpegno di qualche delegato di base, non si riuscì a sedimentare nessuna esperienza di lotta capace di orientare e dirigere unitariamente la massa degli operai. Anzi, vertici sindacali e partiti riformisti consigliarono di "non disturbare il manovratore", per non far sfumare la possibilità di nuova occupazione. Persino quando fu lampante il tentativo della direzione di marginalizzare la Fiom, licenziando vari delegati, si abbozzò al massimo qualche mugugno per lirriconoscenza della Fiat, senza tentare alcuna risposta concreta.
E, visto che al peggio non cè limite, ci fu anche chi (rappresentanti istituzionali progressisti) blaterò che occorreva "fiattizzare la Lucania" estendendo a tutto il territorio i nuovi criteri di sfruttamento della Fiat.
I lavoratori si sono trovati completamente in balìa del potere aziendale, senza sentire al proprio fianco alcuna struttura organizzata (neppure di parte sindacale) che si proponesse di contrastarlo.
Non c'è da meravigliarsi, dunque, se, in assenza di qualunque prospettiva di resistenza al dominio aziendale, è prevalsa tra gli operai la ricerca di soluzioni individualistiche, col consenso ai sindacati (Fismic e Cisl appunto) più in sintonia con le strategie Fiat, nell'illusione di aver garantita la conferma dopo la "formazione", o linquadramento al livello superiore, o magari persino il distacco dalla catena di montaggio e dai suoi ritmi infernali (checché ne dicano i sociologi d'accatto, linnovazione UTE -Unità Tecnologiche Elementari- non consiste certo nella scomparsa della catena di montaggio, bensì nel fatto che i lavoratori sono responsabili non più della singola postazione ma "collettivamente" di un intero tratto di linea.
Sarebbe errore gravissimo, quindi, leggere i risultati elettorali di Melfi come una convinta e immodificabile adesione alla filosofia aziendale, dovuta all'efficacia del toyotismo nel superare lantagonismo operaio-capitale o, peggio, alle identità "culturali" degli operai lucani.
Il fatto è che il pernicioso ruolo dei sindacati non ha pesato solo sugli operai di Melfi, ma anche sugli altri operai Fiat, cui le concessioni fatte a Melfi sono state presentate come un'eccezione per creare occupazione al sud, ma che mai sarebbero state estese al resto della Fiat.
Ciò ha comportato che gli altri operai guardassero con distacco e disinteresse a quanto si realizzava a Melfi, contribuendo a far aumentare il senso di isolamento degli operai lucani.
Come era prevedibile, invece, la breccia aperta a Melfi è stata utilizzata dallazienda per farla diventare regola comune da imporre in tutto luniverso Fiat. E, ancora una volta, dinanzi al consolidarsi di una precisa strategia aziendale, il sindacato ha risposto stabilimento per stabilimento scontando una debolezza di partenza con cui cercare tuttalpiù di mitigare le pretese della Fiat, quando non ha favorito addirittura la contrapposizione tra i vari stabilimenti.
Solo dopo le elezioni della RSU di Melfi si è levata qualche voce (Sabattini e Cremaschi), che legava i negativi risultati della Fiom alla mano libera lasciata alla Fiat e sottolineava la necessità di contrastare la tendenza a diversificare i salari tra nord e sud, e di tornare ad un modello di sindacalismo più conflittuale, pena la completa marginalizzazione della Fiom.
Ma si tratta di voci auto-smentite, puntualmente, nelle vertenze seguenti, mentre nel sindacato (non solo Cisl) si fa largo sempre più laccettazione delle gabbie salariali, comunque camuffate.
Di federalismo si discute sempre più anche nel sindacato al sud, da chi ammette i "trattamenti differenziati" per territorio a chi rivendica "solo" l'autonomia per le strutture sindacali periferiche. Soluzioni entrambe pericolosissime per i lavoratori, che, peraltro, dalla normalità di questa discussione sono indotti a non percepire il federalismo come una tendenza letale per i propri interessi di classe.
Primi segnali del pericolo federalista nella classe operaia sono apparsi anche al sud persino in vertenze di lotta abbastanza radicali (Enichem, Alenia, Sulcis). Queste generose fiammate di lotta, lasciate dai sindacati nell'isolamento del caso per caso, hanno finito col ricercare alleati "nel territorio" (commercianti, chiesa, enti locali), cominciandosi a radicare la convinzione che, difronte a un indistinto nord egoista, per tutelare i propri interessi gli operai del sud debbono costruire un'alleanza interclassista in loco.
Non a caso sono spuntati gli "alfieri del riscatto meridionale", come Mastella, che agitando il pericolo di rivolte al sud invita il nord a prevenirle con un assistenzialismo di ritorno, nel mentre accetta per il sud i sacrifici che ricadranna naturalmente sulla classe operaia. Né marcia meno velocemente la conversione federalista in campo "progressista" (v. come il progetto di Napoli turistica di Bassolino si adegua a pennello all'idea di Italiland che hanno del sud fior di federalisti non solo nord-italiani).
I pericoli di disgregazione della unità operaia non maturano solo sul piano sindacale ma, come è del resto inevitabile in mancanza di spinte in controtendenza, anche sul piano politico con esiti che sarebbero disastrosi per tutta la classe operaia italiana.
Non a caso solo il grande movimento di lotta contro il governo Berlusconi è riuscito a fermare provvisoriamente questa tendenza tanto al nord che al sud. Persino il "prato verde" di Melfi si è increspato sotto lurto di quella ondata, a riprova che i tentativi padronali di divisione possono essere respinti dalla classe operaia solo con il ricorso alla lotta unitaria e alla sua organizzazione centralizzata per la difesa degli interessi generali della classe.
Ma, questo movimento ha fatto anche emergere i ritardi politici della classe operaia. Non si può affidare la riorganizzazione del fronte proletario unicamente alle periodiche lotte spontanee contro loffensiva dei padroni e dei governi che li rappresentano; è sempre più urgente che tra gli operai più coscienti emerga la convinzione della necessità di scendere direttamente in campo per dare continuità e stabilità a questa riorganizzazione, intorno a un programma che miri a rappresentare gli interessi generali del proletariato come classe con interessi diversi e contrapposti a quelli delle altre classi sociali.