Se il federalismo bene esprime gli interessi della sotto-borghesia padana, che suo tramite tenta di sottrarsi ai costi e alle incognite della crisi, scaricandoli sulle aree arretrate del paese e (al coperto della manovra "decentratrice") sul proletariato, per potersi proiettare con più forza (e mezzi propri) sui mercati esterni. Se un federalismo gestito centralmente con pugno fermo potrebbe consentire alla grande borghesia di sfruttare razionalmente, "melfizzando" il Sud per "melfizzare" la condizione del salariato al Centro-Nord, quel forte differenziale di sviluppo interno che essa (a suo danno) è stata ed è incapace di azzerare. Il federalismo non può essere, invece, in alcun modo, unopportunità per la classe operaia, neppure come ripiego difensivo per una parte di essa.
A riguardo, si può già fare un primo bilancio, perché gli ultimi 10-15 anni, con le loro ristrutturazioni centralizzatrici, con il mezzo smantellamento dellindustria di stato al Sud, con le loro riprese fondate sullexport (e dunque sul Nord), con i (pessimi) accordi di contenimento del costo del lavoro e della contrattazione nazionale, con lo smantellamento (totale o parziale) dei meccanismi di difesa unitari (scala mobile, sistema pensionistico, etc.), con la crescente leghizzazione di tutto l"ambiente politico", hanno già di fatto mutato la situazione italiana in senso federalistico. E stato appena un primo assaggio, soft e pacifico, di spontaneo "federalismo del mercato", ma non crediamo davvero che la classe operaia ed i lavoratori possano dirsene sodisfatti.
La classe operaia nel suo insieme ha perso terreno nella società e nelle aziende anche a misura che sè indebolita la sua unità. E se i danni sono stati finora relativamente limitati, comunque non catastrofici, ciò è da attribuire solo ai momenti di lotta generale, unitaria, nazionale di cui la classe è stata capace. Ma un catastrofico balzo indietro sarebbe certo, ove il proletariato non intensificasse la propria opposizione programmatica, organizzata al processo di strisciante balcanizzazione che viene avanti, ove piegasse la testa davanti alla spaccatura di fatto oggi, anche "di diritto" domani, della propria forza tra due "poli" materialmente, psicologicamente, politicamente sempre più distanti.
I problemi che il proletariato deve fronteggiare, dal salario alla guerra che bussa alle porte di casa, non sono problemi locali, e non sono neppure principalmente problemi nazionali. Sono, al fondo, i problemi posti "ovunque" al proletariato dallirregolare procedere della crisi del capitalismo. Davanti ad una mondializzazione sempre più spinta di tutti i rapporti, non cè per il proletariato alcuna ridotta sicura in cui potersi rifugiare. Nessuna realtà locale può autonomizzarsi da questi processi. Anzi, più piccola è lentità che sogna tale autonomia, più totalmente dipendente è (altro che "autonomie locali"!) dal mercato mondiale, e più il capitale locale, non per cecità ma per stato di necessità, vi torchierà spietatamente il lavoro salariato. Perché non si chiede ai proletari sloveni o croati come gli va la vita a quattro anni dalla secessione, se meglio o peggio che ai tempi della Jugoslavia unita?
La via federalista del minimo sforzo è anche, per il proletariato, quella (alla distanza) del massimo danno. Smettiamola perciò, se non vogliamo finire nella padella, di abboccare agli ami avvelenati del federalismo. Non permettiamo che si allunghino ulteriormente le distanze tra i proletari del Nord e quelli del Sud. Facciamo della resistenza e della lotta al leghismo, in ogni campo, un momento portante della nostra difesa organizzata dallattacco capitalistico. Rimettiamo al centro della nostra azione lobiettivo della più stretta unità della classe. Unità, nella convinzione della piena identità di interessi, non solo semplice "solidarietà" tra diversi che intendono (o si sono rassegnati a) restar tali.