Alla globalizzazione capitalista rispondiamo globalizzando la lotta per il comunismo

La globalizzazione capitalista svela ormai apertamente la sua vera essenza: sottomettere il mondo intero, forze-lavoro umane e ambiente naturale, allo sfruttamento dei grandi capitali internazionali che hanno sede in Usa, Europa e Giappone, per la cui protezione i loro Stati hanno approntato la più potente e criminale macchina militare che il mondo abbia mai conosciuto.

Il meccanismo dei prestiti internazionali e degli investimenti delle multinazionali, accompagnato dall’esercizio bellico contro i popoli ribelli (Iraq, Yugoslavia, Palestina), raschia ogni briciola di profitto in tutti gli angoli del mondo e la trasporta nelle piazze finanziarie dell’Occidente a beneficio di una grande borghesia sempre più ristretta e sempre più ricca e delle sue istituzioni finanziarie. Qui, nugoli di piccoli risparmiatori, allettati dalla possibilità di partecipare alla divisione dei profitti, vengono spogliati, sistematicamente, dei loro risparmi. A questo meccanismo di rapina sono soggetti anche i lavoratori, costretti, ormai, a legare gran parte del loro salario, diretto o indiretto (pensioni, assicurazioni sanitarie, ecc…) agli andamenti dei profitti e delle Borse.

Per i lavoratori la rapina finanziaria si somma beffardamente alla rapina nel lavoro e nella produzione. Anche quest’ultima cresce in modo esponenziale: i salari diminuiscono, la mobilità costringe a lavori pagati meno, il tempo di lavoro cresce in modo parossistico e la vita (fisica e psichica) si consuma disumanamente dentro i ritmi bestiali della produzione, nello stress, nell’aumento degli incidenti del lavoro e nel fatto che tutto ciò rende i rapporti sociali e familiari sempre più nevrotici e conflittuali.

Masse crescenti di piccoli imprenditori agricoli e industriali, che pensavano di essersi riscattati dallo sfruttamento costruendo le loro piccole attività, le vedono quotidianamente spogliate da una finanza (legale e illegale) usuraia e dal carico di tasse e imposte che gli Stati insaziabili prelevano (a loro e più ancora ai lavoratori dipendenti) per sostenere i grandi gruppi nazionali industriali e bancari, foraggiare eserciti moderni e super-armati, apparati militari per l’ordine interno, pletore di dipendenti dediti, spesso, alle occupazioni più inutili e parassitarie. Sperimentano, allo stesso tempo, come agisce la dittatura dei mercati: dopo averli spinti ad accrescere di continuo i livelli di produttività, oggi gli presenta il conto di una sovrapproduzione da eliminare o di una produzione ottenuta con modalità pericolose per gli stessi consumatori (come gli effetti della "mucca pazza").

Le donne scoprono come decenni di lotte per conquistare la loro emancipazione vengono vanificati da un’oppressione che si rivela sempre più duplice: nel lavoro a cui sono costrette per sostenere la famiglia, e nel quale sopportano condizioni sempre peggiori rispetto ai maschi, e nella famiglia stessa, in cui il loro lavoro di cura invece di ridursi diviene più necessario e oppressivo, dovendo sopperire alle poche cose che si era riusciti ad affidare allo Stato, e da cui esso si ritrae ovunque, e dovendo svolgere il loro ruolo di sostegno psico-affettivo a tutti i membri della famiglia nelle condizioni date di difficoltà crescenti della vita sociale, soprattutto per i giovani. Inoltre, alla devastazione di valori umani, operata dal dominio sempre più invadente della logica del profitto, si risponde acuendo il ruolo della donna come oggetto di piacere, su cui scaricare le pulsioni di una vita sessuale resa talmente disumana da provocare il diffondersi delle violenze sulle donne e quello non meno disumano della pedofilia.

I popoli dei paesi del terzo mondo vedono bruciate le loro speranze di progresso e quei capitali che avevano preso in prestito per finanziare il loro sviluppo si trasformano in catene al collo con le quali il Fmi, la Banca Mondiale, le banche e gli Stati occidentali li sottomettono a una schiavitù più pesante del vecchio colonialismo. I rapporti sociali, già sconvolti dalla diffusione forzosa del sistema capitalistico, sono messi ad altra dura prova: in numero crescente sono costretti a emigrare nei paesi imperialisti, ad affrontare l’inferno di una vita di stenti nelle mani dei nuovi negrieri che ne sfruttano la condizione di bisogno (dopo averla creata con la rapina delle risorse dei loro paesi, con i prestiti e con gli "aiuti") e li confinano in veri e propri ghetti sociali, negandogli, con il ricatto dell’espulsione, ogni diritto politico, per impedirgli ogni reazione di lotta collettiva e di organizzazione.

Il sistema di produzione capitalistico porta, insomma, a compimento la presa di possesso di tutto il mondo, e, in esso, gli Stati più potenti accrescono il loro differenziale di ricchezza e di potere.

Interi popoli dei paesi oppressi dall’imperialismo avvertono sulla loro pelle gli effetti di questo balzo in avanti dello sfruttamento e dell’oppressione, e negli stessi paesi imperialisti gli strati sociali che vivono solo del proprio lavoro, a volte unito a un piccolo capitale, percepiscono come la loro vita non possa continuare più come prima, se non al prezzo di un accrescimento senza fine degli sforzi di lavoro e di risparmio, e sono angosciati dall’insicurezza per la propria vita di lavoro e della vita in generale, per i rischi di disastri ambientali che si vanno cumulando e per la deriva innaturale dei rapporti sociali.

Gli effetti di questo balzo in avanti iniziano a provocare, qui e là, primi significativi momenti di rifiuto e di rivolta, anche nell’Occidente imperialista. Gli allevatori di mucche in Europa, bersagliati dalla sovrapproduzione di latte o dalla diffusione del morbo della "mucca pazza", i trasportatori in lotta contro gli aumenti dei prezzi del combustibile che mettono in discussione il prelievo fiscale dello stato, i giovani della new economy che danno vita, in Europa e Usa, a prime lotte contro la deregulation del lavoro di cui sono le vittime principali, le donne che organizzano una marcia mondiale contro la povertà e la violenza, gli immigrati che sperimentano forme di lotta e di organizzazione, il grande movimento in Belgio contro la pedofilia, l’avvio di riorganizzazione del movimento sindacale in Usa, la ripresa della lotta degli africani-americani, e altri mille e mille episodi, più o meno importanti, e più o meno oggetto di informazione da parte dei media. Non si tratta di movimenti già grandi e potenti, ma segnalano come si comincia a prendere atto che giunge il momento di "darsi da fare", che non si può assistere inermi dinanzi ai disastri in atto e a quelli, ancora peggiori, che si preparano. Bisogna mobilitarsi in proprio, organizzarsi, senza concedere fiducia e delega a quei poteri statuali che svelano la loro natura di semplici strumenti del capitalismo e dell’imperialismo, e contro i quali, anzi, si deve risolutamente lottare.

Ognuno di questi momenti di iniziativa e di lotta è condotto contro singoli e specifici effetti prodotti dal capitalismo globalizzato, ma in ognuno di essi emerge anche la comprensione di come nessuna singola questione possa essere risolta se non affrontando l’insieme unitario di tutte le questioni. Il momento finora più alto di questa consapevolezza si è avuto nella manifestazione di Seattle (v. articolo nell’interno), dove il marciare fianco a fianco di lavoratori ed ecologisti, contadini del primo e del terzo mondo, organizzazioni anti-globalizzazione dalla più varia argomentazione, ha mostrato come tutte le singole iniziative debbano e possano essere unificate in un'unica lotta, concentrata e centralizzata, contro il nemico comune, a sua volta, potentemente concentrato e centralizzato.

Dopo di allora, nessun vertice della finanza internazionale, degli stati e delle corporations che dominano il mondo passa più sotto silenzio. Un movimento composito cerca di contrastarne ovunque lo svolgimento e di denunciarne i programmi e le politiche.

Che ciò avvenga e continui ad avvenire è un fatto estremamente positivo e importante. La sua semplice continuazione, però, non può essere appagante per le forze che comprendono la necessità di dover dare battaglia reale e che non vogliono farsi avvolgere in una trasformazione in rito dei "contro-vertici", rischio in cui incorrono le varie tendenze della "sinistra" soprattutto in Europa. È, per questo, necessario trarre le dovute lezioni dalle battaglie fin qui date, e aggredire i problemi che da esse sono emerse. A che cosa finalizzare la battaglia e in che modo condurla? Sono domande a cui nessun militante anti-globalizzazione può sottrarsi.

In prevalenza chi si è mobilitato in questi anni lo ha fatto con l’obiettivo di bloccare l’attuale processo di globalizzazione, se non proprio con quello di cercare di smussarne gli angoli più ostici. La logica è quella di fermare il tempo, di conservare il capitalismo avuto finora impedendogli di trasformarsi lungo le linee che vanno emergendo nel suo sforzo globalizzante. Questa spinta si manifesta nella "sinistra" d’opposizione, che si accontenterebbe di conservare tal quale quel "vecchio" capitalismo che una volta voleva riformare, e si manifesta anche in quei settori della destra che si rapportano attivamente ai programmi di etno-capitalismo, con la divisione in piccole patrie, con i confini (illusoriamente) protetti dagli effetti della globalizzazione e con un assetto sociale meno esplosivo per i rapporti "interni" tra le classi. Anche una sinistra che si pretende "estrema", che in Italia, per esempio, si raccoglie attorno ai "centri sociali", si muove secondo la stessa logica, nella convinzione di poter rallentare la globalizzazione, "condizionare" le politiche degli stati e delle istituzioni finanziarie, magari "imponendogli" dei compromessi, e preservare le proprie "isole" a-globalizzate. Il "programma di riforma del capitalismo", sotterrato da quella sinistra che, sottomessasi definitivamente a esso, è passata a gestirne in prima persona gli interessi anche quando si debbano realizzare attraverso la guerra (come contro la ex-Yugoslavia, gestita dai governi europei di "sinistra"), riappare, con aspetti persino più moderati, in questa "nuova" sinistra e "nuova" destra", programmaticamente votate a difendere il capitalismo e, con esso, la schiavitù che esercita (e che esercitava anche quando non era "globalizzato") sul proletariato metropolitano e sui popoli del terzo mondo.

Il programma che deve, invece, essere iscritto a chiare lettere sulle bandiere è quello della distruzione del capitalismo, non della sua riforma, quello di una società che abolisca il profitto e tutti i mezzi che lo rendono possibile (il denaro, il mercato, lo Stato con tutti i suoi apparati di controllo e di comando -democratici o "dittatoriali"-, la divisione in classi), che possa, perciò, realizzare le condizioni per cui i rapporti tra gli individui e i popoli non siano più dominati dalla concorrenza e dalla guerra e possano svolgersi secondo i criteri di una comunità davvero umana. In una parola il comunismo.

La "sinistra" d’opposizione e la destra etno-nazionalista europee sono poi, in modo -apparentemente!- innaturale, unificate dall’idea che il vecchio e "tranquillo" capitalismo che aspirano a conservare sia rappresentato da quello realizzatosi in Europa, "diverso", più umano e meno conflittuale di quello affermatosi in Usa. Un’idea assolutamente falsa. Essa non vede, innanzi tutto, come il capitalismo europeo si vada "americanizzando" con le politiche (opportunamente condotte anche dai governi di "sinistra") di distruzione di tutte le conquiste dei lavoratori. Non vede come sia stato proprio il capitalismo europeo a dare inizio alla conquista del mondo con la politica coloniale, di cui l’attuale imperialismo costituisce la coerente continuazione, solo con i mezzi più potenti e criminali che la modernità richiede. Né vede, soprattutto, come questo capitalismo europeo partecipa a pari livello con quello nord-americano all’attuale rapina imperialista in tutto il mondo, assumendo su di sé anche le incombenze di carattere bellico. Propagandare questa inesistente differenza serve solo a preparare (consapevolmente o meno, poco importa!) il terreno per una contrapposizione, per una concorrenza più aperta di quella che oggi già esiste, tra imperialismo europeo e nord-americano, per ripetere il tentativo che già il nazismo e il fascismo fecero per coinvolgere il proletariato nella guerra inter-imperialista contro le plutocrazie anglo-americane in nome di una Germania e di un’Italia "proletarie".

Distruzione del capitalismo, dunque, e non promozione di un capitalismo riformato, tanto meno promozione di un "capitalismo europeo" contrapposto a un "capitalismo americano".

Ma è possibile distruggere il capitalismo senza la mobilitazione della classe che è la vittima principale del suo sistema produttivo e sociale e che condensa nel suo stato la condizione dell’intero genere umano? Senza che il proletariato si determini alla battaglia contro il capitalismo, dislocandosi sul terreno in quanto classe organizzata sindacalmente e politicamente per sé stessa, per i suoi interessi immediati e storici, e che si riappropri, per questo, del suo proprio programma e del suo proprio partito comunista?

Certo, oggi il proletariato, soprattutto quello europeo, è disorientato e disorganizzato. I decenni di lotta e di organizzazione sulla base di un programma di riforma del capitale lo hanno portato a consegnarsi nelle mani delle aziende, del mercato e dello Stato. La corruzione politica causata dal riformismo è stata tanto efficace perché accompagnata da una corruzione economica e sociale. Le "conquiste" realizzate, con lotte spesso dure, sono state possibili anche perché l’imperialismo poteva concedere al proletariato metropolitano delle briciole dei profitti che realizzava sfruttando i paesi oppressi, senza che ciò gli inducesse particolari motivi di crisi. Oggi queste "concessioni" si fanno per il capitalismo, europeo e americano, sempre più problematiche. Esso si mostra sempre meno suscettibile "di riforma" e si riprende una a una tutte le concessioni elargite. Anzi, alle nuove forze (giovani, donne e immigrati) che arruola nelle fila proletarie, non concede fin da subito alcuna, o quasi, delle "garanzie" precedenti, e a tutti i proletari, nuovi e vecchi, richiede di spendere le proprie vite nel sostegno di ritmi produttivi crescenti e nelle guerre di conquista già fatte e in preparazione.

Il terreno per una ripresa di conflittualità di classe da parte del "nuovo" e del "vecchio" proletariato viene, dunque, fecondato dallo stesso capitalismo, ma è indispensabile che all’esplodere delle contraddizioni oggettive si leghi anche una ripresa soggettiva dell’organizzazione di classe.

Tutti coloro che avvertono la necessità di condurre una vera lotta contro il capitalismo senza cadere nell’illusione di fermare la globalizzazione e conservare il capitalismo, e che non vogliono trasformarla in un vuoto rito, hanno, quindi, dinanzi a sé un terreno di impegno e di battaglia che miri alla ripresa della lotta e dell’autonoma organizzazione di classe da parte del proletariato, che punti a sostenere e unificare tutti i momenti di resistenza agli effetti della globalizzazione e a centralizzarli in un unico programma di distruzione del capitalismo e dell’imperialismo.

Il capitalismo unifica sempre più il mondo alle sue condizioni, con ciò dà una potenzialità eccezionale alla lotta di classe proletaria, al comunismo. Mai come oggi è possibile una saldatura della lotta dei popoli oppressi contro l’imperialismo con la lotta del proletariato metropolitano per liberare sé stesso e tutta l’umanità dal cancro sempre più malefico del sistema capitalista, che per mantenersi in vita non esita, come un vero e proprio vampiro, a precipitare l’intero mondo in disastri ambientali, a distruggere vite umane con la fame, la miseria e con guerre devastanti.

L’unico modo per contribuire a mandare in pensione questo sistema marcio e assassino, per rafforzare e unificare tutti i momenti di lotta contro di esso che già si esprimono e per contribuire a crearne di nuovi e più potenti, è, quindi, quello di lavorare a organizzare un’avanguardia che conduca una battaglia dentro tutti i movimenti e verso ogni contraddizione che si manifesta per indirizzarle verso un processo di lotta che lanci il suo grido di battaglia senza reticenze e senza compromessi, che dichiari a chiare lettere che il capitalismo deve essere distrutto fin nelle fondamenta, che la società umana, per essere davvero umana, e quindi davvero sociale, deve liberarsi di un sistema che, dichiarando di produrne la vita, non fa altro che produrne la sofferenza e la morte.

Un’avanguardia, un partito comunista mondiale, che sostenga ed estenda le lotte del proletariato metropolitano, che sostenga ed estenda tutte le lotte contro gli effetti del capitalismo, che lavori ad unificare il proletariato metropolitano con le masse sterminate dei continenti oppressi, a iniziare dalla lotta contro gli Stati imperialisti che le affamano col debito internazionale, le ricattano con le minacce di ritorsioni militari e le aggrediscono con le loro armate non appena mostrano segni di insofferenza all’ordine mondiale deciso a Washington e nelle capitali europee per il bene delle Borse e di tutte le classi parassitarie.

Lottiamo contro ogni vertice della cupola internazionale che domina e opprime l’intero mondo, ma lavoriamo a sviluppare la lotta contro ogni singolo momento di questo dominio e di questa oppressione.

Non solo quando discutono delle grandi linee per realizzare i loro profitti, ma anche quando queste linee le mettono in atto, quando strozzano i singoli paesi con gli "aggiustamenti strutturali", quando bombardano i paesi e i popoli ribelli come in Iraq e Yugoslavia, o quando sostengono il massacro dei palestinesi da parte dello Stato di Israele. Quando sfruttano gli immigrati e li confinano nei ghetti bollandoli come incivili e "arretrati", o quando fingono verso di essi la carità pelosa di chi dice di aiutarli affinchè si adeguino alla "nostra civiltà" e alle "nostre regole", quelle cioè di accettare passivamente di essere sfruttati. Quando rendono le donne sempre più schiave della loro duplice oppressione.

Lottiamo per promuovere un risveglio sindacale e politico e una ripresa della lotta da parte di tutta la classe operaia, di tutte le classi che vivono del proprio lavoro e subiscono la rapina del profitto industriale e finanziario.

Lottiamo affinchè il proletariato riassuma su di sé il compito di riorganizzarsi come classe, di dotarsi del proprio partito, di raccogliere e unificare ogni fermento di lotta contro il capitalismo, per abbatterlo e aprire la strada al comunismo.


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