Le lezioni di Seattle |
Non rifacciamo qui di seguito la cronaca di Seattle, già nota, per
sommi capi, ai nostri lettori e per una più ampia e precisa informazione sulla quale
rimandiamo volentieri a materiali non nostri. Vogliamo, piuttosto, ragionare sul significato profondo del movimento di Seattle. Un significato che va ben al di là della contingenza immediata. Intendiamo ragionare non solo e non tanto su quel che è stato, ma sulle proiezioni future di un movimento che non nasce oggi né oggi si esaurisce, ma è destinato a svilupparsi e precisarsi. Seattle è un anello importante di una catena che occorre afferrare e che va correttamente intesa nella sua unitarietà e nella sua dinamica. A questa stregua Seattle va capita per starci dentro ed andare oltre, lungo la strada che essa ha aperto. |
Persino eccessiva lunanimità a sinistra, salvo isolate e sciagurate eccezioni, nel salutare Seattle non solo come un fatto positivo, ma come cosa propria. Se tutti ne sono così concordemente contenti vuol dire che qualcosa non va per il verso giusto.
Noi stessi ci dichiariamo entusiasti di Seattle. Vorrà dire, allora, che abbiamo qualcosa da spartire in comune con Bertinotti e il manifesto da una parte e Cossutta e quei quattro debosciati "verdi" con le bandierine pro-Seattle a un passo da Montecitorio, e in attesa di rimetterci piede? Già, qualcosa non quadra decisamente.
E lo spieghiamo subito: dietro tanto fervore unitario per Seattle esistono vari e contrastanti modi di intenderne la lezione e di intraprenderne la traduzione in prima persona; e dietro questo contrasto cè il dato oggettivo di un movimento, qual è stato quello di Seattle, non definito a senso unico ed una volta per tutte e, come tale, da prendere o lasciare, bensì di un salutare inizio di lotta né poteva essere qualcosa di diverso o di migliore- i cui esiti dipendono da come (e se) vi si intende partecipare; un inizio come tutti gli inizi- che non schiude automaticamente la via alla soluzione comunista, ma segna il percorso su cui questultima può definirsi ed imporsi o meno.
Cosa si è visto, infatti, a Seattle? Un "movimento variegato", un "insieme di differenze" incrociatesi in una protesta "multicolore" contro determinati effetti del capitalismo imperialista globalizzato, per chi non ha vergogna di pensarlo e chiamarlo così. Operai e tutori della tartaruga o della balena, contadini dal primo al terzo mondo ed omosessuali, conservatori di razze umane in via destinzione tuttaltro che volontaria- e conservatori di sementi altrettanto in pericolo di scomparsa etc. etc. Di tutto e di più. Ma che vuol dire?
Già quando si parla di effetti del capitalismo, ci sono tanti di quelli che si sono apprestati a mettersi addosso labito di Seattle perché "va di moda", "fa tendenza", che arricciano il delicato nasino: sì, si tratterà anche di conseguenze derivanti dal capitalismo, ma non dal sistema in quanto tale, bensì di una sua "forma" specifica che la "politica" può cambiare, perché, se non proprio il proletariato, qualche tartaruga in più si potrà salvare ed anche il nostro verde qui può venir meglio tutelato La "forma" capitalistica che sarebbe stata messa sotto accusa a Seattle è quella Usa, ovvio!, perché, per chi non lo sapesse, qui da noi siamo europei e come tali vogliamo vivere. Noi cabbiamo Jospin, oltre che Bertinotti, e, se non basta, Martinazzoli ed Aznar; stiamo perciò attenti a non gettar via il bambino (il capitalismo) assieme allacqua sporca (il "sistema americano"). Questo il succo delle pappe ben condite di gran parte di coloro che qui da noi hanno inneggiato a Seattle, senza alcuna eccezione tra la sinistra istituzionale. E non ci dite che estremizziamo, altrimenti (se ce ne pagate le spese) vi mettiamo assieme una bella antologia del variegato pensiero unico che scorazza da quelle parti.
E chiaro che un simile imbroglio non sarebbe possibile se anche e proprio a Seattle non fosse stata presente una tendenza, che possiamo anche -e senza scandalo da parte nostra- immaginarci maggioritaria, a pensarla ancora in termini riformistici. Quel che a noi importa stabilire è che il movimento espressosi a Seattle non si è limitato a "ragionare", ma è sceso in campo e, sul campo, qualche ideuzza in più se lè fatta quanto alla portata ed alla natura di classe degli effetti sgraditi.
Pochissimi, dallinizio alla fine, hanno detto: "Distruggiamo il capitalismo". Moltissimi si sono "limitati" a ripetere, inconsciamente, una cosuccia già sentita: "Cosa rappresentiamo rispetto al genere umano? Tutto. Che cosa contiamo oggi? Niente. Cosa pretendiamo subito? Qualcosa". E voi sapete come andò a finire la volta scorsa
Cè una lezione teorica che va estratta e ribadita dallesperienza di Seattle: un nuovo sistema sociale, quando le condizioni oggettive di esso sono date, viene sempre alla luce manifestandosi inizialmente quale lotta a determinati effetti del sistema precedentemente imperante; la coscienza risale dai singoli effetti al loro inestricabile insieme e di lì alla causa prima, essenziale; lo fa, lo può fare, in quanto laccumularsi delle contraddizioni e degli antagonismi nella società è un fatto oggettivo che infiamma la prateria e spinge alla lotta e, con essa, dentro di essa, alla coscienza. Le cose non possono continuare come prima, gli uomini non intendono vivere come prima: tutto qui.
(Per gli sciocchini specifichiamo: parliamo non della scienza marxista, del partito, ma del movimento, delle masse, che, però, state bene attenti, non è un semplice accessorio, un accendino che serva solo per far brillare le vostre belle "idee" Polemichetta marginale con marginali, ma tanto ci voleva per non perdere lallenamento.)
A questo punto, il fatto che vi siano, nel movimento, "tante anime", tante "diversità", prende un significato diverso che in passato: a differenza delle cavolate spiaccicate dai Soloni "alternativi" nostrani, non vi è solo compresenza, ma unificazione potenziale: siamo in tanti, ognuno per le "sue" separate ragioni iniziali, a stare assieme contro un nemico che è unico e concentrato e noi ci dobbiamo mettere sulla sua stessa lunghezza donda, dobbiamo concentrarci e centralizzarci, dobbiamo affrontare linsieme unitario delle questioni sul tappeto. Prendiamo a paradigma di ciò il discorsetto, largamente convincente, di James O Connor (La rivista del manifesto, marzo 2000) nei suoi dialettici passaggi. Incipit: il movimento, delimitando il discorso agli Usa, va visto "come una coalizione più o meno temporanea o duratura" tra anime diverse, tra chi "pensa" a ridefinire la ricchezza (gli ambientalisti), chi a redistribuirla ("rossi" economicisti), chi a ridefinirla e redistribuirla "ponendo insieme il problema della eguaglianza e quello della sostenibilità, in un progetto che trascende sindacalismo e ambientalismo" (in poche parole: socialismo). "Il movimento anti-Wto è ancora ideologico e diviso" al suo esordio. Nel prosieguo: esso può anche pagare, al proprio interno, delle divisioni, ma la sua logica sta nellandare avanti, nel prendere decisamente posizioni univoche e centralizzate. Perché? "Una risposta è che non ci sono alternative: se vuoi che qualcuno ti ascolti, devi collocarti dalla parte di uno dei contendenti", capitalismo o socialismo. Apparente paradosso nelle sue parole: O Connor scrive che abbiamo assistito solo ad un inizio e che questo è da ritenersi buono "perché mette assieme riformatori e rivoluzionari, socialisti e anarchici, piccoli coltivatori e piccoli imprenditori locali populisti, studenti". Limportante è che tutti costoro a Seattle "hanno parlato poco e operato molto".
Noi siamo daccordo con lui: è essenziale che linsostenibilità del capitalismo metta assieme spezzoni vari di umanità sofferente; è essenziale, innanzitutto, il fatto che questi spezzoni lottino; non per evitare di "parlare", cioè di chiarire le coordinate della lotta a venire, ma per far poggiare la necessaria chiarificazione, politica ed organizzativa, sulle sue basi materiali. Il capitalismo produce una diversità infinita di fenomeni di sfruttamento ed alienazione che coinvolgono umanità e natura, ma produce, al contempo, anche la necessità di una ribellione a tutto ciò in grado di unificare i diversi terminali in un movimento ed in un progetto unitari.
I "sinistri" nostrani, compresi quelli "estremi" laureati in marxismo al CEPU, rovesciano questa fondamentale lezione, assumendo a criterio assoluto la "diversità" come un fatto di natura dallinizio alla fine della storia: al posto del "buon selvaggio" presociale rousseauviano conflittuale con il sociale contro-natura (ma lì si parlava con assai maggior coerenza di una data società concreta!), mille o milioni di buoni selvaggi "diversi" ed "autonomi" tra loro. Il criterio viene esteso persino al dato naturale, con lesaltazione astratta, ad esempio, delle mille varietà di sementi contro la manipolazione da parte dellUomo (oscurando il fatto che la manipolazione cattiva, innaturale, non è quella che dipende dallopera trasformatrice dellUomo in quanto tale, ma quella operata dal capitalismo per il profitto: luomo sociale è indissociabile da una "manipolazione" continua, della natura e di sé e persino la natura stessa, da sola, si automanipola e trasforma di continuo, se abbiamo ben capito la Dialettica della Natura di un certo Engels).
Non a caso Marcello Cini, nel suo Elogio della diversità (La Rivista del Manifesto, febbraio 2000), parte decisamente allattacco del marxismo, in quanto unidimensionale, positivista-darwiniano e via dicendo: lappello di Marx, Proletari di tutto il mondo, unitevi!, non si è realizzato né mai si realizzerà, vuoi perché la pretesa "classe universale" "si è frammentata e dispersa in mille soggetti diversi, in concorrenza e spesso in lotta fra loro, separati materialmente e culturalmente da interessi contrastanti, quando non addirittura da odii atavici (!)" nellincapacità (congeniale?) di liberarsi dalle sovradeterminazioni del capitale, vuoi soprattutto perché cè "qualcosa di irrimediabilmente datato e superato nella visione del futuro che animava il progetto marxiano", e cioè la stessa idea di comunità umana. Se il capitalismo è un male, afferma Cini, esso lo è in quanto "globalizzante", come lo è, su unaltra sponda, il marxismo, ed allora "occorre porre la questione della difesa delle diversità -diversità degli individui, diversità delle culture, diversità delle forme di vita-".
(Una curiosità: nel numero italiano di marzo di Le Monde Diplomatique cè un saggio sulle nuove destre nazional-populiste in Europa, in cui si riconosce che lasse di esse è letno-diversità. E che differenza, che diversità cè tra questa difesa delletno-diversità e quella che postulano i Cini e i Bertinotti per "superare" il datatissimo marxismo? Nessuna. Si dirà: sì, però noi parliamo di diversità "solidali". Ora, a parte che anche la destra sa parlare, e come, di solidarietà comunitarie, anche la promessa "solidarietà" di sinistra diventa una sollennissima chiacchiera se si parte, come assunto di partenza e finale, dalla "diversità", cioè dalla negazione della marxiana comunità sociale. Perché mai, se a me interessano le mie diverse forme di vita, la mia diversa cultura naturale?, fuori dalla storia?-, addirittura la mia irrinunciabile individualità, dovrei più di tanto solidarizzare con chi sta fuori dal terreno di mia proprietà? Certo, può anche darsi che io trovi, in determinate occasioni, un certo mio interesse a far fronte comune con gli "altri" per difendere contro un nemico comune questo mio interesse, ma nulla di più. Questa difesa della "diversità", fatta da sinistra o da destra, è al fondo la difesa dellindividuo così come la borghesia lo ha conformato, cioè dellindividualismo proprietario e conflittuale con tutti gli altri individui, la difesa, più o meno temperata, dellhomo homini lupus; è, per quante volte si combini formalmente il termine diversità con "solidarietà" o "comunità", la difesa reazionaria, la eternizzazione dellattuale stato di divisione antagonistica del genere umano in classi, razze e nazioni tra loro "irriducibilmente diverse" e diseguali, ed in modo specifico della posizione dominante dellOccidente assiso al vertice di tutta la spietata piramide delle "diversità" capitalistiche. E, perciò, la negazione della possibilità di arrivare allindividuo sociale, (tuttaltra cosa dallindividuo borghese), davvero ricco di vera individualità proprio in quanto proteso verso la comunità sociale e libero figlio di essa; è la negazione della dissoluzione delle classi sociali, della fusione di razze e nazioni che sola consentirà, nel comunismo, di mettere a frutto collettivamente per lumanità intera la ricchezza inesauribile dei molteplici apporti umani oggi mortificata, sfigurata dal capitalismo che, nella sua totale indifferenza verso i bisogni umani non solvibili, tutto riduce indifferentemente a merce; è, insomma, la difesa della società di mercato che sempre più omologa nel "pensiero unico" del capitale e nella relativa prassi altro che diversità!- destra e sinistra Come si vede, la lezione di Seattle, di un movimento sviluppatosi a partire da situazioni specifiche e diverse, poiché tale è oggi la condizione di partenza della lotta al capitalismo prodotta dalle stesse determinazioni del capitalismo, per confluire in ununità progettuale di lotte e dintenti, è da certi apologeti delle "diversità" completamente rovesciata.)
Fantasmi o soggetti in carne ed ossa?La cosa su cui vogliamo insistere qui è che lazione anti-Wto presente non solo ha posto oggettivamente la questione antagonista di fondo, socialismo versus capitalismo, ma lha mostrata, come non mai da decenni negli Usa, soggettivamente. Sarà anche spiacevole per certi nostri rifondaroli in procinto di dichiarare morto e sepolto lantagonismo proletario a pro dei consumatori-spacciatori dei centri sociali, dei "diversi" per gusti sessuali etc. etc., ma a Seattle è emersa prepotente la presenza proletaria, lunica diciamo noi- in grado di condensare nel suo stato la condizione dellinsieme del genere umano, di centralizzarla e di dare ad essa soluzione.
Si parla troppo poco di questa presenza, per annacquarla e cancellarla. Ma, per ripetere le parole della Luxemburg, essa cè e parla chiaro; per bocca di essa la rivoluzione sociale può proclamare: sono stata, sono e sarò.
Anche su questo punto non inganniamo noi stessi né chi ci legge. La straordinaria scesa in campo dei lavoratori (lavoratori Usa, non dimentichiamolo!, del cuore dellimperialismo; quelli che chi rifiuta il "modello americano" per accodarsi al "contro-modello" dei capoccioni europei ignora per isolarli e contrapporli a noi) non significa una soluzione nostra, di partito, già belle confezionata in partenza. Vuol dire, però, che la gran bestia proletaria comincia a risvegliarsi dal suo letargo, riprende a farsi sentire, a riconoscersi per sé, a fraternizzare al proprio interno e rispetto a tutti gli altri strati oppressi della società. In alcuni casi, come nel documento di convocazione per Seattle degli IWW, cè anche e già qualcosa di più: più che scintille di coscienza rivoluzionaria di classe ed una giusta comprensione della tattica fronte-unitaria per allargare, definire, centralizzare il movimento, quello odierno e quelli a venire.
Questo documento dice, senza equivoci, che il "sistema capitalistico, basato sullo sfruttamento della gente, della società e dellambiente per il profitto di pochi" costituisce "la causa prima degli attuali problemi sociali ed ecologici"; che va costruito "un forte, risoluto e creativo movimento di base contro le istituzioni economiche e politiche del capitalismo". Dice benissimo: "Come ci rendiamo conto che nessuna questione è isolata, sia essa lo sfruttamento dei lavoratori, la rovina economica degli agricoltori, i programmi di "sviluppo" che fanno sloggiare le popolazioni indigene o la distruzione del nostro ambiente, così ci rendiamo anche conto che dobbiamo agire insieme e unificare le nostre lotte" contro il capitalismo.
Ecco qui una bella risposta ai mentori della "diversità" di cui ci siamo occupati sopra!
Ma anche prescindendo da queste posizioni avanzate, non si può fare a meno di ricordare la scesa in campo dei lavoratori iscritti alla ALF-CIO in corrispondenza ad un flusso di recupero generale della presenza sindacale (a tuttoggi ancor limitata ad un 18%, e forsanche meno, della forza-lavoro salariata complessiva). La rimonta del sindacato, compreso questo sindacato, è essa stessa testimonianza di una ripresa di conflittualità negli USA e comporta, per sua natura, una forte attivizzazione dal basso in grado non solo di produrre numeri, ma di ipotecare le tendenze della dirigenza fissatasi in una fase di stabilizzazione prima e di pluridecennale arretramento del movimento poi. Qualche fesso potrà anche irridere alle parole di quel dirigente ALF-CIO che ha parlato addirittura della necessità di "un rinnovato internazionalismo" così come alle misure economiche di sostegno allorganizzazione sindacale nei paesi "concorrenti", tipo Messico. Si dirà: conosciamo bene gli interessi rappresentati da simili dirigenti; si tratta di un semplice "protezionismo" per i lavoratori organizzati Usa. E non è che noi abbiamo idee migliori sui dirigenti in questione. Lobiezione, però, è tipica di quei settari, come diceva Trotzkij, che non sanno vedere la massa al di sotto del sottile strato della burocrazia sindacale e confondono la prima con la seconda. Se dallalto dellALF-CIO si parla di internazionalismo, noi leggiamo la cosa come il frutto della pressione che viene dal basso, soggettivamente ed oggettivamente. Se si finanzia la formazione di sindacati in Messico, poniamo il caso, per evitare che una massa sottopagata e semi-schiavizzata faccia "concorrenza sleale" ai lavoratori USA, noi andiamo al di là delle intenzioni e salutiamo il fatto che, per questa via, si va ad intaccare la concorrenza allinterno della nostra classe, con tutte le conseguenze che ne dovranno risaltare. Proletari che solidarizzano tra loro, lottano assieme, si ritrovano per le strade assieme non possono essere ridotti a dei semplici agenti del "protezionismo" capitalista. Sia ben chiaro. E magari si vedesse qui da noi un sindacato che incoraggiasse, fornendo strutture e finanziamenti, lorganizzazione diretta del proletariato immigrato! Sarebbe un bel passo davvero verso una forma nobile di "protezionismo": la protezione della classe, dei suoi interessi immediati e storici in prospettiva. Ancora vergogna per coloro che hanno osato svilire non solo e non tanto certa dirigenza sindacale USA, ma la massa lavoratrice di questo paese che ritorna in campo!
Violenza o non violenza?A "turbare" la gioiosa manifestazione di Seattle, se stiamo alle accorate parole di rimpianto della Castellina, sarebbero intervenuti solo degli anarchici, "una cinquantina", dice la nostra, tanto per gettar acqua sul fuoco, "chissà perché, dallOregon".
Di fatto, un numero sicuramente più consistente di arrabbiati-organizzati, il cosiddetto Black Bloc, che noi esiteremmo a qualificare semplicemente come anarchico, si è dato da fare in azioni dirette contro i simboli visivi del potere capitalista in loco, devastando ed "espropriando" tutto quel che era possibile. Una violenza riprovevole? Vediamo un po.
Prima considerazione. Contro chi essa si rivolgeva? Lo dicono i protagonisti stessi: " le sedi delle multinazionali nel centro di Seattle", la Fidelity Investment, coinvolta nella distruzione della tribù degli Uwa in Colombia per rapinarne liberamente il territorio, varie banche "istituzioni finanziarie chiave nellespansione della repressione globale", società iper-sfruttatrici quali Old Navy, Banana Republic e GAP, la Nike e la Levis "i cui prodotti sono a prezzi altissimi e sono fabbricati in condizioni di semi-schiavitù nel sud del mondo con paghe miserabili", la Mac Donalds, produttrice di "cibo spazzatura" e distruttrice delle foreste tropicali, la Starbucks, la Warner e Planet Hollywood.
Si potrebbe non desiderare che queste istituzioni vengano fatte a pezzi? Magari lo fosse!
Seconda considerazione. La pretesa violenza del Black Bloc cosa rappresenta di fronte a quella di queste istituzioni se non una risposta difensiva, sulla cui validità effettuale si potrà anche poi discettare? Dove sta la vera violenza? E davvero la Castellina non ha visto l"altra" violenza, quella perpetrata dalla polizia, dallo Stato, dal sistema, a tutela dei veri delinquenti in campo? O si pensa che, senza la "provocazione" del Black Bloc, le forze dellordine si sarebbero tranquillamente tirate da parte per lasciar luogo ad un pacifico confronto di "idee", magari mettendo in agenda il dimissionamento della logica capitalista da parte della "pubblica opinione"?
A questo proposito ci piace riportare il commento di Mumia Abu Jamal nella sua limpida ed esemplare chiarezza, che, naturalmente, suonerà offensivamente schematica per le delicate orecchie dei contestatori "pacifici" del calibro della nostra:
"Molto può essere detto sui bistrattati anarchici che hanno squassato il centro della città, attaccando gli splendidi edifici del Capitale. La stampa ha colto al volo lopportunità di chiamarli "delinquenti" o "hooligan" coinvolti in "violenze". Ciò che manca nei servizi, ovviamente, è che quei giovani attaccavano la proprietà, non altri esseri. Nel frattempo, lo stato, attraverso la sua polizia, attaccava le persone Quale, ci si chiede, è la più grave forma di violenza?".
Ed hanno perfettamente ragione quelli del Black Bloc quando, a proposito degli "attivisti non-violenti", intervenuti contro di loro per tutelare il "vero spirito pacifico" della manifestazione, chiamando a proprio soccorso i poliziotti, dicono che si tratta del "razzismo degli attivisti privilegiati che possono permettersi di ignorare la violenza perpetrata contro la maggior parte della società e della natura in nome del diritto di proprietà privata".
Una Castellina potrebbe obiettare, confermando questo assunto: "Ma quando voi attaccate la proprietà attaccate proprio, e contemporaneamente, la mia "persona", in quanto parte costituente di questa società che mi calza a pennello" (o quasi: i ritocchi son sempre dobbligo).
Certo, molto si potrebbe dire a proposito di questi anarchici, ma ci rifiutiamo innanzitutto di dire qualcosa contro di essi che suoni come cauzione dellordine capitalistico presente. I principi cui questi compagni si ispirano sono i nostri principi. Dopo, e se abbiamo fermamente stabilito questo punto, potremo discutere della tattica e della strategia di lotta. Noi, memori di lotte ultrasecolari nei confronti dellanarchismo, siamo contrari alla prospettiva di una lotta esemplare condotta a sé, da parte di gruppi "coscienti e determinati" staccati pregiudizialmente dalla massa "bovina" ed a simile prospettiva replichiamo con lesempio che hanno dato gli IWW: riteniamo di costituire la parte più avanzata del movimento, lunica che abbia saputo individuare i termini del problema e della conseguente battaglia, ma proprio per questo non ci stacchiamo dalla massa arretrata, intendiamo interloquire con essa per trascinarla sulle nostre posizioni sul solo terreno chiarificatore possibile, quello di una lotta comune in cui si diano materialmente i dati dello scontro in atto. Giusta posizione, che contiene in sé il superamento dei presupposti piccolo-borghesi dell"azione individuale" (anche la più determinata possibile, perché non è questo quel che conta). Un superamento, però, che parte non dalla condanna dei principi anticapitalistici, ma dalla loro più piena e conseguente assunzione, mentre suona condanna a tutto campo per il "pacifismo" dei servi per definizione del sistema.
Il futuro del movimento non sarà un futuro di minor violenza, ma di scontro maggiormente organizzato contro la violenza capitalista, quella che si esprime, per via "naturale", nel suo stesso essere e quella effettuale delle sue forze dordine istituzionalizzate.
Lorizzonte non è quello di una pacifica competizione di idee, ma sta in questo scontro di forze. E un dato oggettivo, rispetto al quale sta ad ognuno di prendere il suo posto, da una parte o dallaltra della barricata, non potendosi nessuno però permettere di ignorare che di una barricata si tratta e che, dalluna e dallaltra parte, si spara (anche e soprattutto da parte di chi agita bandierine di pace per indurre in inganno il nemico e consegnarlo inerme al proprio cecchino).
Questo dato vien fuori molto bene dalle dichiarazioni di uno studente presente a Seattle e che qui ha potuto vedere i campi in lotta e la presenza, soprattutto, di un proletariato da cui forse in precedenza si pensava separato e che, oggi, invece, gli indica la via risolutrice. "Penso che dieci anni fa negli Stati Uniti questi studenti (in via di radicalizzazione, n.) sarebbero potuti essere socialdemocratici, ma questa opzione non è più attuale. Ora puoi essere solo contro o per il sistema, cè una vera polarizzazione".
Non poteva esprimersi meglio. E, credeteci, non è uno dellOCI, né ce lo siamo inventato qui noi
UNA RIVENDICAZIONE DEL MARXISMO CHE SERVE A DIFFAMARLODue parole su una posizione controcorrente, abbastanza inconsueta, su Seattle e le sue implicazioni, quella di Lutte Ouvrière. Questo gruppo francese dice in sostanza: a Seattle non cerano comunisti, ma esclusivamente dei mistificatori in agitazione per sordidi interessi specifici di bottega contro determinati effetti del capitalismo; nessuno di essi ha mostrato di "capire" che il nemico non è il Wto, il cui insuccesso qui è in ogni caso dovuto a contraddizioni interne al sistema, bensì il capitalismo; e se non cè coscienza e non cè partito comunista nessun gioco vale la candela. Posizione terribilmente "ortodossa" da un punto di vista formale! Il "piccolo" difetto di essa è di non vedere come materialmente si determina e si svolge la lotta reale al capitalismo a partire, sempre, da una lotta a determinati e "diversi" effetti di esso. Sta, per dirla con Marx, nel porre la storia sulla testa e non sui piedi, partendo sempre, idealisticamente, dalla Coscienza, dallIdea; nel non capire che il vero risultato delle lotte degli sfruttati è la loro unità; quellunità di cui Seattle ci ha dato un saggio, incompiuto ma brillante. Questi volterriani andati a male vorrebbero, in sostanza, combattere lIdea del capitalismo, assumendo di essere essi i portatori dellIdea del socialismo. Posizione tanto più scandalosa in quanto, nella loro concreta attività elettoral-parlamentare si dimenticano spesso e volentieri di questi Sacri Principi, spingendosi, alloccorrenza, sino alla difesa degli interessi nazionali nazional-proletari?- della Francia. E ancora più spregevole quando ricordiamo le loro manifestazioni sullaggressione alla Jugoslavia incentrate, in prima istanza, contro Milosevic e sulla necessità di una "diversa politica europea". Non si potevano almeno in quelloccasione ricordare che il nemico non è Milosevic, ma il capitalismo? |
La
battaglia di Seattle
Voci,immagini e documenti dell'evento destinato a cambiare l'agire politico del nuovo secolo |
Questo instant book che costa lit. 12.000, e può essere richiesto a Comunicazione antagonista, via R. Giuliani 364, 50141 Firenze (Email: com_antagonista@hotmail.com.), contiene un utile materiale di documentazione sui fatti di Seattle, sulla preparazione delle dimostrazioni e sulle diverse tendenze e forze in campo. La chiave di lettura che esso propone ha qualche ingenuità, e perfino qualche spunto un po leggero, di matrice spontaneistica, ma nondimeno la sua lettura è istruttiva proprio in quanto ci dà una serie di notizie e di efficaci istantanee sulla importante "battaglia di Seattle". |