L’aggressione imperialista all’Islam: risposta ai nostri critici

Critica n. 2

Gli sfruttati islamici in lotta: un soggetto inventato di sana pianta dall’OCI?

Indice


Non pochi lavoratori e compagni ci hanno domandato:

"Ma dove accidenti stanno le masse lavoratrici del mondo islamico? Voi le descrivete come ingaggiate in un moto rivoluzionario perpetuo, ma noi non le vediamo affatto in campo. Dove stanno i loro sindacati, i loro scioperi, le loro organizzazioni politiche? Tutto quello che vediamo è una loro frequentazione delle scuole coraniche e delle moschee o una loro adesione massiccia ad organizzazioni islamiche, animate sì dall’odio contro l’Occidente, ma ci vuol proprio una bella fantasia a considerare parte integrante della lotta all’imperialismo organismi che sono stati usati (e si sono lasciati usare) nei decenni passati, dagli Stati Uniti e dall’Occidente, per reprimere la sinistra radicale del movimento antimperialista in paesi come l’Egitto e il Pakistan, e non solo, o per schiacciare i più timidi tentativi di organizzazione sindacale. Una sinistra alla quale invece voi dell’OCI siete insensibili, se non ostili, tanto quanto siete ben disposti verso l’islamismo."


La nostra risposta è in sintesi la seguente. Primo: le masse lavoratrici del mondo islamico stanno là dove possono stare, stanno dando battaglia nelle forme che sono loro possibili data una certa struttura economico-sociale dei loro paesi e dato lo stato attuale non proprio esaltante del movimento operaio internazionale. Secondo: noi rifiutiamo la fasulla opposizione tra le sinistre sindacal-politiche "laiche" tuttora presenti nel mondo arabo-islamico e le tendenze ed organizzazioni islamiste, considerandole, sul piano ideologico e politico, due facce complementari di una stessa medaglia non certo proletaria; non abbiamo alcun genere di "preferenza" né per le une né per le altre, ma lavoriamo a svuotare entrambi questi contenitori del loro "contenuto" proletario e semi-proletario a pro dell’unica "tendenza" cui va la nostra esclusiva ed esclusivista preferenza: quella comunista rivoluzionaria.

Ma andiamo per ordine.

La situazione reale

È il caso di tener presente, anzitutto, che la composizione sociale e la vita sindacale e politica del proletariato (in senso lato) nel mondo dell’Islam è molto diversa da quelle che esistono in Occidente. La situazione non può essere uguale a quella europea della fine del secolo scorso, come ci pare si presupponga in certe obiezioni che peccano alquanto di astrattismo. Nel mondo islamico, nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale, è andato avanti un poderoso processo di estensione del proletariato, e di proletarizzazione e salarizzazione dei rapporti di lavoro. Esso, però, per il blocco operato dall’imperialismo sullo sviluppo capitalistico locale, si è realizzato con modalità tali da far ingigantire il settore dei lavoratori fluttuanti rispetto a quello occupato più stabilmente.

Gli impianti di base nati in alcuni paesi dopo la rivoluzione anti-coloniale sono rimasti isolati, non hanno potuto rappresentare il volano per lo sviluppo di un’industria in grado di assorbire e concentrare in modo stabile i lavoratori provenienti dalle campagne, come è accaduto in Europa alla fine del secolo scorso. Il resto delle imprese è rappresentato da piccole aziende di trasformazione o di assemblaggio che impiegano in modo occasionale una piccola parte della popolazione attiva. Di conseguenza, il proletariato del mondo islamico è composto da un ristrettissimo nucleo di operai occupati stabilmente (spesso alle dipendenze di imprese statali o protette dallo stato) e per contro da una massa enorme di semi-proletari che giorno per giorno e in modo fluttuante si divide in un settore che rimane disoccupato e in un altro settore che lavora in una galassia di piccole imprese.

A questa condizione di precarietà estrema non sfuggono neppure i lavoratori del settore petrolifero dei paesi del Golfo Persico (alcuni milioni di occupati): composti in gran parte da immigrati provenienti dall’Egitto e dal sub-continente indiano, essi vengono continuamente "rinnovati" dalle direzioni aziendali. E tanto meno vi sfuggono i lavoratori impiegati, come limoni usa-e-getta, nelle zone speciali d’esportazione. Come racconta Naomi Klein in No logo, "le multinazionali occidentali e asiatiche che investono in queste zone hanno creato un tipo di occupazione temporanea e a breve termine. In effetti, se paragonata alla situazione dell’America del Nord e dell’Europa, l’attività che si svolge in molte zone industriali dell’Asia, dei Caraibi e dell’America Centrale è molto più simile al lavoro occasionale che all’occupazione a tempo pieno negli stabilimenti" (p. 200).

La condizione di strutturale precarietà e dispersione in cui vive l’enorme maggioranza della popolazione lavoratrice del mondo islamico ha conseguenze ben precise sui suoi comportamenti politici. In periodi "normali" la sospinge verso un atteggiamento di passività o di umiliazione verso i poteri costituiti, locali ed internazionali. Laddove, invece, queste masse di sfruttati "in periodi di scosse, di sommovimenti sociali, quando si rivoltano, sono all’avanguardia dei movimenti di massa, delle forze di contestazione e di distruzione (…). L’abisso vertiginoso che le divide dalle potenze occidentali e dai loro protetti, dal loro sistema di vita e dai loro privilegi, rende impossibile qualsiasi dialogo, qualsiasi compromesso; quando le masse proletarizzate si muovono, il loro odio è senza sfumature, e il sentimento di orgoglio nazionale è tanto più forte quanto maggiore è stata l’umiliazione che hanno a lungo subito e che finalmente rifiutano. Le masse proletarizzate sono quindi assolutamente ostili a tutte le classi sfruttatrici -straniere e locali- e nello stesso tempo impermeabili alle varie forme di organizzazione politica legale e parlamentare attraverso cui le classi dominanti cercano di canalizzare il movimento rivoluzionario di massa, facendolo deviare dalla strada della violenza radicale. (...) Ma la situazione di questa massa proletarizzata instabile cela anche grandi debolezze. Essa è incapace, da sola, di organizzarsi politicamente su scala nazionale, perché il suo modo di esistenza, incerto e variabile (perché non collegato a una forma stabile di produzione sociale) non ne favorisce l’unificazione ma piuttosto la disgregazione in individui, in gruppi familiari e di clan: ne favorisce, in una parola, la disorganizzazione. Le iniziative spontanee di rivolta, in seno a questa massa, riguardano generalmente gruppi limitati e si trasformano rapidamente, se lasciate a se stesse, in atti disperati o in azioni illegali volte all’interesse personale. (...) E movimenti di rivolta relativamente limitati, in seno a questa sola classe, non possono scuotere profondamente il sistema di sfruttamento, perché la massa non è organicamente legata (come ad esempio il movimento operaio) al processo di produzione o di distribuzione. La loro potenza diventa veramente pericolosa per le classi sfruttatrici solo nella misura in cui essi riescono a legarsi al movimento operaio industriale e a prendere una certa estensione" (Mahmoud Hussein, La lotta di classe in Egitto, 1945-1970, Einaudi, Torino, 1973, pp. 34-36).

Queste osservazioni "datate" non hanno affatto perso valore. Nel frattempo, anzi, tale comportamento delle masse sfruttate di necessità assai discontinuo sul piano politico e sindacale si è accentuato per il fatto che i regimi politici esistenti nel mondo islamico, islamisti o laici che siano, hanno colpito sistematicamente anche le forme più embrionali di organizzazione proletaria. In molti paesi sono vietati (per legge o de facto) i sindacati e gli scioperi, i lavoratori che tentano di organizzarli vengono immediatamente licenziati (pratica corrente nei paesi del Golfo) o assassinati (solo nel Pakistan sono stati uccisi 37 sindacalisti nel 2000). Emblematici sono, in proposito, la storia del giovane proletario pakistano Iqbal Masiq, assassinato per l’attività di organizzazione sindacale degli schiavi-bambini che aveva cominciato a svolgere nel settore della fabbricazione dei tappeti, oppure il numero di prigionieri politici (ben 20.000!) reclusi, nel più assoluto silenzio internazionale, nelle carceri egiziane. Come si farebbe altrimenti a rendere possibile lo sfruttamento supplementare di cui l’imperialismo ha bisogno per ingrassare di sovra-profitti i capitali esportati al di fuori dell’Occidente?

Un’accumulazione di forze non graduale

In conseguenza di tutto ciò, lo sviluppo della lotta di classe nei paesi arabi e islamici non può ripercorrere le fasi di quella graduale accumulazione delle forze che si è avuta in Occidente a cavallo tra l’ottocento e il novecento. Il movimento degli sfruttati islamici non può esprimersi che seguendo per lo più il battito irregolare del polso delle masse lavoratrici povere, urbane e rurali. La possibilità, per queste, di sviluppare una vita sindacale e politica di massa è legata ai momenti di sommovimento generale anti-imperialista ed all’azione politica catalizzatrice dell’esile proletariato industriale "locale". La cui forza dipende, a sua volta, in misura determinante dalla maturità politica del proletariato internazionale.

Di tutto ciò si è avuta una prima prova nello scontro rivoluzionario seguìto alla prima guerra mondiale. Esso ci dà la misura dell’enorme energia di lotta "nascosta" già allora nelle classi lavoratrici supersfruttate del Medio Oriente e dell’Oriente (islamico e non), a smentita per dir così preventiva di quanti, tra i nostri critici, non le ritengono, in realtà, capaci di nulla di buono, ai fini della lotta per il comunismo (un errore, questo, di gravità capitale!).

Già negli anni precedenti alla guerra la rivolta dei popoli e dei lavoratori del mondo islamico contro il colonialismo capitalistico e le classi dominanti locali ad esso infeudate aveva compiuto alcune prove (in Turchia, in Persia, in Egitto). Ma è al termine della carneficina che i timidi tentativi rivoluzionari precedenti e l’endemica effervescenza delle popolazioni lavoratrici (che erano ancora quasi del tutto contadine) si trasformarono in sollevazione. Allora, ad agire da catalizzatore e da spina dorsale al risveglio dell’Oriente fu l’entrata in scena del proletariato rivoluzionario in Occidente e in Russia; fu il lancio da parte del suo partito (l’Internazionale Comunista di Lenin) della prospettiva della lotta rivoluzionaria congiunta dei proletari d’Occidente e dei popoli d’Oriente contro il comune nemico capitalistico, sanzionata in modo solenne nel Congresso dei popoli d’Oriente a Baku (settembre 1920).

Un ruolo di primo piano venne svolto dagli esigui nuclei del proletariato industriale presenti in alcuni paesi dell’area (Indonesia, Egitto, la regione caspica) e dai lavoratori impiegati sulle navi in transito tra i porti europei e quelli delle "Indie Orientali" attraverso l’arteria di Suez. Si trattò di settori numericamente ristretti, ma dall’enorme peso specifico politico proprio in quanto sezioni della classe proletaria internazionale. L’azione del proletariato rivoluzionario e del suo partito non si limitò a comunicare uno slancio maggiore alla lotta dei popoli e dei lavoratori del mondo islamico. Riuscì anche a strapparne le avanguardie di lotta dalle bandiere nazionali o religiose in cui erano raccolte (in Indonesia, ad esempio, il movimento comunista raccolse la maggior parte dei propri aderenti dalla scissione del Sarekat Islam, un’organizzazione islamica di massa) per polarizzarle intorno all’unica bandiera in grado di rendere effettiva la vittoria sull’imperialismo: quella della rivoluzione socialista internazionale.

Se l’assalto rivoluzionario mondiale degli anni venti è stato sconfitto, resta però la sua lezione imperitura. Che continua a farsi valere, in negativo, anche oggi. Quando l’assenza di un’organizzazione antagonista del proletariato delle metropoli pesa come un macigno sulle difficoltà di riorganizzazione politica delle masse lavoratrici del mondo islamico; quando queste ultime sono lasciate sole o addirittura aggredite da quella che dovrebbe essere la loro avanguardia.

Dalla bandiera rossa alla bandiera verde (per stato di necessità)

Era inevitabile, dato il pauroso arretramento del movimento proletario internazionale, che anche le masse sfruttate dell’islam arretrassero di nuovo, per dir così, dalla bandiera rossa a quella verde. Eppure, benché così isolate, esse non hanno sospeso affatto la propria lotta anti-imperialista (su cui presentiamo qui sotto un rapido pro-memoria ad uso degli smemorati, limitato all’ultimo ventennio), raccogliendosi per stato di necessità intorno all’unico "partito" che sembrasse disposto a riprenderla: il partito, o meglio: la galassia di partiti e partitini dell’islamismo più o meno radicale. L’unico "partito" che prometta loro, nei modi in cui è oggi possibile, di unire le forze al di sopra dei "ghetti nazionali", almeno alla scala panislamica. Allo stato attuale del movimento proletario mondiale, cos’altro potrebbero fare: iscriversi all’Internazionale socialista dei Blair, Jospin, Fassino, Peres, capofila della guerra di aggressione ai popoli islamici? oppure -che so- prendere a proprio punto di riferimento gli "stati maggiori" (o minori) della Porto Alegre ufficiale, che sono distanti anni luce da qualsiasi prospettiva di vera fraternizzazione con questi stessi popoli, e da qualsiasi prospettiva di vero disfattismo verso gli stati imperialisti dell’Occidente?

Ci auguriamo di non dover ripetere per la millesima volta che per noi dell’OCI la direzione anti-imperialista islamica, o, meglio, le molteplici e variegate tendenze "anti-imperialiste" islamiche son in effetti incapaci (tutte!) di organizzare quella jihad all’Occidente che evocano, in quanto, al fondo, anch’esse credono alla possibilità di riformare a proprio vantaggio il capitalismo globalizzato e hanno paura delle conseguenze rivoluzionarie che una simile jihad condotta sul serio avrebbe sulle stesse borghesie arabe per prime (a cui tutte le tendenze islamiste sono legate in modo diretto o indiretto). E ci auguriamo di non dover ripetere per la millesima volta che per noi l’unico anti-imperialismo in grado di realizzare ciò è quello anti-capitalistico, comunista, il solo che mira ad aggredire realmente alla radice il blocco dello sviluppo economico del mondo islamico, poiché è il solo che miri realmente ad abbattere il sistema capitalistico e a trasformare il suo sviluppo diseguale-combinato in un meccanismo cooperativo "a rovescio" capace di riparare alla rapina e allo sfruttamento coloniale-capitalistico degli ultimi cinquecento anni. Ribadito questo, resta però da affrontare il busillis con cui da anni ci confrontiamo: come aiutare o, se volete, "guidare" gli sfruttati arabo-islamici ad uscire dall’influenza insieme mobilitante (a livello immediato) e smobilitante (ad un più profondo livello strategico) dell’islamismo. A cui tenacemente continuiamo a rispondere: sostenendone la lotta senza alcuna pregiudiziale di partenza anti-islamica, spingendola in avanti fino alle sue più coerenti conseguenze contenute nelle stesse incoerenti enunciazioni (formali) jihadiste, capitalizzandone qui la ricaduta sul centro del sistema con la ripresa della battaglia di classe del proletariato metropolitano e la ricostituzione del movimento comunista.

A questa prospettiva, che è la sola capace di liberare gli sfruttati arabo-islamici dai contenitori reazionari in cui sono al momento incapsulati, non sta dando e non darà alcun genere di positivo contributo quella "sinistra radicale" arabo-islamica che alcuni dei nostri critici ci oppongono e propongono come riferimento alternativo alle organizzazioni islamiche. In un modo o nell’altro essa si colloca, infatti, su di una linea di continuità con lo stalinismo (lo è sempre più anche un certo "trotskismo" da lunga pezza degenerato), e lo stalinismo nel mondo arabo-islamico è stato in ultima analisi, tra i suoi abituali tanti zigzag, il vettore di un’occidentalizzazione subordinata dei gruppi o settori di massa proletari che è riuscito ad influenzare.

Ovunque lo stalinismo, in quanto "teoria" generale della "costruzione del socialismo" paese per paese, cioè ogni paese (ogni capitalismo nazionale) per sé stesso e in concorrenza con gli altri paesi, quelli "fratelli" inclusi, ha propagato l’illusione che ai singoli paesi ex-coloniali bastasse integrarsi nel mercato mondiale come singole nazioni, anche se in modo "rivoluzionario", per uscire dal sottosviluppo ed accedere al "socialismo"; e che in tale contesto la classe lavoratrice del mondo islamico potesse ripercorrere, come parte subordinata delle proprie singole rispettive nazioni, le orme della classe lavoratrice europea, anche attraverso una delega passivizzante verso l’Urss (in quanto stato-fratello maggiore). Non è andata così, non poteva andare così. Sicché, alla débacle, anche organizzativa, di questa prospettiva, con lo scioglimento di diversi partiti "comunisti" arabi a partire dai primi anni ‘60, tutto ciò che è rimasto come suo sedimento è stato un cieco e angusto nazionalismo "progressista" sempre più integrato con le rispettive strutture statuali borghesi, tanto ostile a ogni forma di "internazionalismo islamico" quanto aperto invece al dialogo col "progressismo" delle socialdemocrazie europee o dei democratici statunitensi, da sempre protagonisti dello schiacciamento coloniale e neo-coloniale dei popoli islamici. Assolutamente inevitabile, perciò, che questo genere di sinistra finisse per essere identificata (come è) quale un cavallo di troia dell’Occidente, dell’imperialismo (del resto, è stato qualcosa di diverso, tanto per dire, lo stalinismo italiano?).

Questa ottica è stata e continua ad essere, in parte, fatta propria, e non solo via stalinismo ma per un processo in qualche modo spontaneo, dai nuclei di classe operaia più stabili presenti nel mondo arabo e islamico. Questi hanno vissuto per lunghi anni (pensiamo all’Algeria o anche all’Egitto) in una sorta di protettiva simbiosi con i rispettivi stati, restando al riparo -fino a un dato momento- dalle più disastrose conseguenze del fallimento delle rivoluzioni anti-coloniali, quasi costituendo una sorta di "sotto-aristocrazia operaia" terzomondiale. Oggi, pur sottoposti anch’essi ai colpi sempre più duri della globalizzazione capitalistica, questi nuclei continuano talora a difendersi, o cercare di difendersi, in modo separato dall’immensa massa di semi-proletari e diseredati dell’area, di cui sarebbero al contrario la più naturale avanguardia, e di cui dovrebbero saper catalizzare la cronica effervescenza espressa, al momento, attraverso le organizzazioni islamiche e gli scioperi "violenti e disorganizzati" a cui qua e là essa dà vita. Ciò che avviene, torniamo a dire, anzitutto perché è il nucleo centrale del proletariato metropolitano ad essere tremendamente lontano dalla assunzione dei suoi compiti storici rivoluzionari.

Prendiamo il caso delle organizzazioni sindacali "di sinistra" presenti nel Pakistan. Esse, non v’è dubbio, conducono una battaglia difficile, rischiosa e meritevole per l’organizzazione dei lavoratori nei luoghi di lavoro; ma hanno il gravissimo torto di non fare nulla (o di agire francamente in controsenso) per unire a sé le masse supersfruttate organizzate al momento intorno all’islamismo; anzi, nella misura in cui mettono sullo stesso piano, del tutto impropriamente, "fondamentalismo e imperialismo" (vedi, ad esempio, la presa di posizione dei sindacati pakistani raccolti nella sigla PTDUC, pubblicato da Falcemartello), approfondiscono il fossato con esse, rendendo impotente il loro stesso appello alla mobilitazione contro l’aggressione "libertà duratura" e compromettono l’efficacia della loro stessa azione di difesa immediata.

E ora, dalla bandiera verde a quella rossa, attraverso grandi lotte

Noi lavoriamo, invece, per avvicinare i due settori delle classi lavoratrici che fanno riferimento rispettivamente all’islamismo e a questo sindacalismo, per intrecciare le loro distinte iniziative di lotta, e per avvicinare l’uno e l’altro al proletariato occidentale. Non vi è alcun dubbio che l’islamismo non sia in grado e non abbia la minima intenzione di fare né l’una né l’altra cosa. La politica abilmente attuata da Khomeini per dividere e contrapporre i mostazafin stretti intorno alle varie tendenze islamiste e gli operai dei campi petroliferi tradizionalmente esterni a esse, è un "ottimo" esempio della condotta abituale dei gruppi islamici. Ma non è che le organizzazioni sindacal-politiche di "sinistra" facciano qualcosa di meglio: esse, infatti, non si fanno alcun carico delle aspettative delle masse raccolte attorno al radicalismo islamismo e della loro carica potenziale eversiva contro l’imperialismo.

Nondimeno, ogni volta che in questi anni ci sono state lotte operaie o iniziative politiche classiste nel mondo arabo e islamico, nei limiti pesanti della nostra conoscenza e delle nostre relazioni con quanto accade in quell’area, le abbiamo sempre raccolte e valorizzate (un esempio per tutti può essere il lavoro di confronto sviluppato negli anni ’80 con il Komala e il Partito comunista d’Iran, o l’attenzione data alle poche prese di posizione di valenza esplicitamente classista in Palestina o in Iraq). Se da anni, sin da quando rilevammo il potenziale rivoluzionario incapsulato nei movimenti sciiti libanesi, sottolineiamo -con un’insistenza che può sembrare unilaterale- il senso dell’adesione degli oppressi all’Islam radicale, e le ragioni storiche che l’hanno resa contingentemente inevitabile, è perché registriamo qui in Occidente, tra i lavoratori e nella sinistra (parlamentare o estrema che sia), una totale sordità all’indomito appello alla lotta di questa componente fondamentale del fronte mondiale degli sfruttati con l’alibi che essa fa riferimento a un’ideologia reazionaria. Mentre l’OCI si ritiene impegnata con tutte le sue forze a ridurre ed abbattere la distanza politica che oggi corre tra il proletariato bianco (prigioniero di un ultra-reazionario sciovinismo) e quello del mondo islamico.

La prospettiva per cui lavoriamo, il comunismo, se è alternativa a quella di ogni "sinistra" borghese o piccolo-borghese, anche la più "radicale", lo è altrettanto rispetto a quella di qualsiasi islamismo, anche il più "jihadista". Essa ci impone di insistere "monotonamente" sull’assunzione delle proprie responsabilità da parte dell’unica classe in grado di farla incarnare sulla terra, il proletariato internazionale e il cuore di esso collocato nelle metropoli. È questa necessità che cerchiamo di rappresentare. Quando ci rivolgiamo alle masse oppresse islamiche e ne evidenziamo la loro magnifica capacità di lotta all’interno del secondo tempo della rivoluzione anti-imperialista, lo facciamo per l’appunto cercando di insinuare un cuneo tra esse e le loro direzioni, che questa capacità eccitano e insieme disperdono.

Sicché alla domanda "ma cosa accidenti stanno facendo le masse lavoratrici islamiche?", noi rispondiamo con un’altra domanda: "Ma cosa accidenti sta facendo il proletariato occidentale per far andare avanti la loro, che poi è anche la propria, battaglia? È qui, è soprattutto qui che c’è bisogno di darsi una mossa, perché è da qui che deve tornare in campo l’unico soggetto che può far esplodere contro il capitalismo la miccia che cova entro il contenitore islamico o entro il contenitore del radicalismo cristiano in altri zone del Sud del mondo o entro altri contenitori ‘razziali’ e religiosi che la lotta dell’Internazionale di Lenin sembrava aver relegato nel passato."

Ve gusta mucho che le masse islamiche ritornino dietro la bandiera rossa? Bueno. Allora date una mano al nostro lavoro.