L’aggressione imperialista all’Islam: risposta ai nostri critici

Critica n. 3

L’11 settembre, una sciagura per le masse lavoratrici del mondo islamico?


Non pochi lavoratori e compagni ci hanno domandato:

"Riconosciamo anche noi, come voi dell’Oci, che dietro l’azione dell’11 settembre ci sono l’oppressione e la violenza scaricate dall’Occidente contro i popoli e i lavoratori del mondo islamico e di tutte le periferie. E dunque la comprendiamo. Ma nello stesso tempo, a differenza di voi, la critichiamo perché, staccata com’è dal moto delle masse lavoratrici islamiche, ha avuto e non potrà che avere effetti negativi su di esso, dal momento che lo espone gratuitamente alla rappresaglia occidentale e lo espropria del suo protagonismo politico."


Le parole sono nostre, ma riassumono il senso di tante discussioni avute dai nostri compagni nei mesi scorsi, nelle iniziative a cui abbiamo partecipato e in quelle che abbiamo indetto noi stessi.

Nel sostenere le nostre posizioni abbiamo cercato di partire sempre da un dato di fatto: l’11 settembre non va considerato astrattamente a sé, bensì va visto come un momento della secolare guerra difensiva condotta dalle masse lavoratrici del Sud del mondo contro la violenza dell’Occidente. Certo, l’organizzazione che (probabilmente) se n’è fatta esecutrice non ha un radicamento organizzato di massa tra i lavoratori e i diseredati del mondo islamico, né è in grado di realizzarlo. Lo abbiamo già detto nello scorso numero del che fare. Tuttavia questa organizzazione non avrebbe potuto compiere un simile atto difensivo senza la resistenza di massa che c’è stata nei decenni passati e che continua ad esprimersi in forme più o meno latenti. Senza la pressione che essa sta esercitando sulle stesse classi dirigenti islamiche. Senza le lezioni che l’imperialismo ha impartito a tale resistenza.

Quali lezioni? Le intende (ma solo in parte) e le presenta anche un Chomsky quando nei suoi interventi denuncia una serie di episodi in cui lo stato imperialista yankee non è arretrato davanti all’azione più feroce pur di spezzare le gambe alle lotte sostenute dai coloured per sottrarsi dalle grinfie del sottosviluppo. Egli racconta in particolare il caso del Nicaragua sandinista e dei suoi tentativi di difendersi dal boicottaggio condotto ai suoi danni dalla Casa Bianca: "All’epoca il Nicaragua reagì. Non facendo esplodere bombe a Washington, ma appellandosi alla Corte internazionale di giustizia", poi "al Consiglio di sicurezza dell’Onu", quindi "all’Assemblea generale dell’Onu". Invano. "Arrivato a questo punto, il Nicaragua aveva esaurito tutti i mezzi giuridici a sua disposizione, e tutti erano falliti in un mondo dominato dalla forza [dell’imperialismo, n.]". "Questo precedente, conclude egli stesso, non lascia adito a dubbi" (da Le monde diplomatique-il manifesto, dicembre 2001, p. 8).

Già, non ci sono dubbi: chi nega il "diritto" dei popoli e delle masse lavoratrici del Sud del mondo di difendersi con la forza, con la violenza, con il terrore rivoluzionario, li vuole schiavi per l’eternità. E li vuole tali anche chi ammette un simile "diritto" solo se esso viene esercitato entro i confini dei continenti di colore, solo se le azioni di difesa non vengono portate anche "qui", nella tana del lupo, un lupo che -da parte sua- è libero di colpire ovunque. Sta proprio in questa asimmetria uno dei motivi delle provvisorie vittorie militari (non politiche) riportate dall’imperialismo negli ultimi decenni contro la resistenza delle masse lavoratrici del Sud del mondo. Come possono le masse lavoratrici impedire di essere soffocate dai tentacoli della piovra imperialista, se si limitano a bloccare e colpire solo quello che provvisoriamente le afferra?

A prescindere da chi materialmente l’ha raccolta per il momento nelle proprie mani, l’esigenza di colpire gli stati imperialisti, e gli USA per primi, sul loro stesso territorio, l’esigenza di mostrare che essi non sono invulnerabili, e che i popoli "colorati" non sono affatto destinati a rimanere inferiori ad essi per l’eternità in quanto a forza, una simile esigenza veniva sentita prima di quel giorno da tutti i militanti d’avanguardia della lotta antimperialista, dovunque al momento collocati. L’azione dell’11 settembre ha avuto la funzione di rivelare alle masse sfruttate del Sud del mondo che tale esigenza era maturata, senza che se ne fossero accorte, anche nel loro animo. Ha mostrato loro che non è impossibile realizzarla. Il che ha suscitato in loro nuovi spunti di determinazione alla lotta, ben oltre il mondo islamico, come ci sembra di vedere dalla reazione che i fatti dell’11 settembre hanno ricevuto dagli sfruttati terzo-mondiali, per esempio nella stessa America Latina che non potrebbe essere più lontana di quant’è dalla tradizione e dalla "cultura" islamica.

Noi comunisti internazionalisti stabiliremmo -questo è evidente- un rapporto diverso tra terrore rosso e lotta di massa rispetto a quello portato avanti da gruppi islamici cospirativi (di natura sociale evidentemente non proletaria) alla al Qeida a misura che per noi l’epicentro della battaglia anti-capitalista e anti-imperialista sta nell’azione organizzata delle grandi masse degli sfruttati (la condotta dei bolscevichi nella rivoluzione russa è il nostro punto di riferimento). Ma non ci sogniamo neanche per un attimo di contrapporre i due termini. Non si può contrapporre le manifestazioni dei palestinesi a Gaza e in Cisgiordania, le dimostrazioni popolari contro gli Stati Uniti in varie capitali dell’area, gli scioperi che di tanto in tanto scoppiano in Egitto o in Turchia, alle azioni di terrore contro l’imperialismo, portate anche nella sua tana. Richiamarsi a Marx, come ha fatto "Falce e Martello", per fargli dire che azioni del genere esproprierebbero le masse, distoglierebbero energie preziose dal "pubblico lavoro" di organizzazione in vista di una vera insurrezione, è distorcere il pensiero di Marx circa l’inevitabile ricorso, tanto per dire, di cinesi ed indiani, nelle loro guerre anti-coloniali pro aris et focis, al terrore "xenofobo" perfino indiscriminato.

No, l’appello che noi mandiamo ai militanti antimperialisti islamici non contiene affatto la ripulsa dei mezzi di azione violenti. Contiene, bensì, l’invito a riflettere, anche sulla base dell’esperienza di questi ultimi mesi, su qual è la strategia necessaria, qual è il programma necessario, qual è l’organizzazione necessaria, non solo per sfidare ma per battere l’imperialismo.

Ora, lo scontro seguito all’11 settembre ha mostrato che le masse lavoratrici dell’Islam, nella loro stragrande maggioranza, non si sono sollevate contro il nuovo intervento occidentale, e che gli Stati Uniti e l’Occidente tutto sono riusciti di nuovo a colpire e a riportare militarmente la vittoria. Non si sono sollevate contro l’imperialismo sebbene appunto, nella loro stragrande maggioranza, fossero "schierate" (quanto a sentimenti) contro di esso. Rilevandolo, non vogliamo affatto chiudere gli occhi dinanzi al fatto che non si è ripetuta, questa volta, la scena indegna di stati arabi che partecipano attivamente, come nel 1991 con l’Iraq, alla carneficina di altri popoli arabi, e sappiamo bene che questo è successo perché i vari Mubarak, Assad II, etc. hanno dovuto tener conto delle acuite tensioni sociali e politiche interne. E neppure vogliamo sottovalutare le impetuose dimostrazioni di massa svoltesi un po’ dappertutto nel mondo arabo e islamico. Ma questo non può bastare, non è bastato a far corrispondere al lancio di un potente guanto di sfida la messa in campo di una forza anti-imperialista adeguata alla sfida stessa. Perché questo scarto?

Osserviamo quello che è successo in Pakistan. Qui non è certo mancata l’opposizione delle masse oppresse all’intervento occidentale e la repulsione della scelta filo-occidentale del governo Musharaf. Essa però non è maturata fino a diventare opposizione organizzata, di massa, di strada, insurrezionale. Come spiegarlo? Ha pesato sicuramente la repressione fatta scattare dal regime contro le prime manifestazioni di settembre e di ottobre. Ma ha pesato anche un altro limite, ancora più profondo e determinante, che spetta ai militanti antimperialisti di tutto il mondo islamico superare: quello delle caratteristiche delle direzioni islamiche che hanno chiamato alla jihad.

Per le masse lavoratrici pakistane, e soprattutto per il proletariato industriale, è stato difficile credere all’appello antimperialista di questi partiti vista la loro storia, la loro organica partecipazione alla repressione statale nei decenni scorsi contro il movimento sindacale, visti i loro inesausti traffici con lo stato e i più diversi governi, vista la loro stessa interpretazione del Corano, che è quella di un al-Mawdudi, a detta del quale "l’idea della giustizia sociale è un’invenzione del demonio". Giustamente settori molto ampi delle masse lavoratrici diffidano di queste direzioni, poiché sentono che la lotta antimperialista non può limitarsi a cambiare la distribuzione della ricchezza tra la propria classe dirigente e l’Occidente, ma deve andare ad intaccare il modo in cui l’oppressione del capitale occidentale si traduce sui lavoratori e i diseredati pakistani: il super-sfruttamento, l’esistenza stentata, la negazione degli spazi di organizzazione sindacale e politica. Ma è proprio su questo terreno che le diverse organizzazioni islamiste in campo si rifiutano di scendere o si affacciano solo con formule vaghe e demagogiche.

In sostanza: per organizzare davvero la jihad contro l’imperialismo e i suoi servi indigeni, occorre mettere in campo una politica antimperialista che faccia appello agli interessi e all’organizzazione degli sfruttati, di tutte le fedi religiose (o atei che siano) e di entrambi i sessi, una politica che faccia perno sulla loro massima attivizzazione e partecipazione alla lotta, poiché la forza del proletariato e del semi-proletariato è la sola in grado di spezzare le pesanti catene del capitalismo imperialista. Senonché una politica del genere, una politica di classe, non è nelle possibilità, nelle intenzioni, nei programmi, di non solo di una al Queida, ma di nessun’altra organizzazione islamista. Per perseguirla, quindi, i militanti ed i proletari islamici intenzionati a non lasciare a metà la propria lotta dovranno necessariamente farsene carico "in prima persona".

Noi riconosciamo che è maturato in loro il sacrosanto sentimento di dover unire le forze della nazione islamica al di sopra dei confini dei ghetti delle "ex-colonie". Questo sentimento non può però rimanere allo stato di sentimento. Va organizzato. E va organizzato con la consapevolezza che non ci potrà essere un mondo islamico libero senza che anche il resto del mondo sia liberato dall’imperialismo. Senza spezzare i tentativi di quest’ultimo di mettere in contrapposizione la lotta antimperialista dell’Islam con quella degli "indù" in India o degli "slavi" in Asia centrale e nei Balcani o dei cinesi ancora in Asia centrale. Lavorando, all’opposto, ad avvicinarle e fonderle, contro le stesse posizioni delle direzioni del radicalismo militante, che, non paghe delle divisioni a cui hanno contribuito nella "ex"-Jugoslavia e in Cecenia, ora si stanno ripetendo sulla questione del Kashmir e dello Xinjiang.

Rilanciamo la lotta contro "libertà duratura"!

Nessun attendismo verso una guerra che è l’altra faccia, quella più cruda, della globalizzazione capitalistica. Una guerra rivolta a schiacciare la resistenza delle masse lavoratrici e a imporre nuove catene ai polsi dei proletari delle metropoli.

Contro di essa, in tutte le sue articolazioni, va rilanciata la mobilitazione nei posti di lavoro, nelle scuole, nei quartieri. Per imporre il ritiro delle "nostre" truppe dall’Afghanistan, come dal Medioriente e dai Balcani e per fermare la ripresa del riarmo in atto Italia e in Occidente.

Opponiamoci al giro di vite contro i lavoratori immigrati (avamposto "qui" nelle metropoli delle masse sfruttate e disederate del mondo islamico). Difendiamo gli spazi di auto-organizzazione che si stanno conquistando. Respingiamo la campagna razzista che cerca di avvelenare il sangue dei proletari italiani: il nemico principale dei lavoratori è "qui", è costituito dal governo italiano (di centro-destro o di centro-"sinistra"), dai "nostri" padroni, dalle "nostre" istituzioni statali, dalla schifosa "civiltà" del profitto.

Portiamo negli scioperi e nelle manifestazioni contro la politica del governo Berlusconi sul mercato del lavoro e sul welfare anche il tema della guerra. Denunciamolo per quello che è, cioè un altro anello della stessa politica borghese. La difesa delle condizioni e della lotta dei lavoratori del mondo islamico dalla mano terroristica dell’Occidente capitalistico è la difesa delle nostre condizioni e della nostra lotta. L’una e l’altra chiedono di procedere assieme, perché sono le due facce della stessa necessità dell’esercito del lavoro mondiale di difendersi dall’aggressione combinata e diseguale che scarica contro i suoi reparti il mostro imperialista.

In questa battaglia e per farla avanzare impegniamoci a ricostruire l’organizzazione politica di cui come sfruttati abbiamo bisogno, il partito internazionale dei lavoratori per il socialismo.

Così come non potranno non farsi carico di proiettare la loro battaglia anche verso i lavoratori occidentali. L’imperialismo ha riportato una nuova vittoria militare (per provvisoria che essa sia, e lo è) perché è riuscito, come in passato, a condurre le sue manovre terroristiche senza che si aprisse un fronte al proprio interno. Per scompaginarne il retroterra non basta certo un’azione come quella dell’11 settembre. Occorre che scendano in lotta contro l’aggressione imperialista all’Islam gli stessi proletari occidentali, come accadde, in una certa misura, nel corso della guerra contro il Vietnam. È vero che oggi i lavoratori bianchi d’Occidente sono indifferenti, o peggio, davanti a quello che accade al di fuori delle metropoli, che godono in parte i frutti della schiavitù dei popoli di colore. Ma il loro interesse non è di rimanere impantanati in questa posizione d’inerzia o di aggregarsi a carri ancora più pestiferi. Anche loro hanno interesse a regolare i conti coi nemici dei popoli islamici, che sono i loro stessi nemici.

Ecco perché diciamo ai militanti anti-imperialisti del mondo islamico:

"Rivolgetevi a loro per questa comune battaglia, e fatelo non in quanto persone di fede islamica, ma in quanto persone che campano solo con il lavoro delle proprie braccia, perché questo è l’elemento su cui far leva per ricostruire una fratellanza comune, la cui mancanza, dagli anni venti in poi, ha giovato solo all’imperialismo. Fatelo usando il ponte costituito dai vostri fratelli emigrati in Occidente. I capitalisti e i governi dell’Europa e degli Stati Uniti cercano di usarli, contro la loro volontà, come arma di ricatto contro i proletari bianchi, cercano di usarli per rinfocolare le divisioni fra sfruttati e il sentimento razzista purtroppo esistente tra i lavoratori bianchi. A voi, a noi, il compito di trasformare quest’esodo e questa presenza in un anello per l’obiettivo opposto.

"È vero che il fronte interno dell’Occidente non è totalmente compatto. Ma per trasformare una simile piccola crepa in un movimento ascensionale di centralizzazione della forza degli sfruttati a scala internazionale, c’è bisogno di una forza politica che diriga questo processo, che lo inquadri per quello che è: non una guerra di religione, ma una guerra tra sfruttatori e sfruttati a scala mondiale, tra capitalismo e una nuova organizzazione sociale che per noi non è l’islam, neanche quello "socialista" di un Sayyid Qutb, ma il comunismo internazionale. E questa forza politica, questo autentico partito degli sfruttati, non può avere caratteristiche ‘confessionali’, non può essere interclassista, non può limitarsi ad una sola area del mondo, non può incardinarsi su di una logica cospirativa, non può escludere le donne, altrimenti -per quanti singoli colpi si possano portare alle strutture dell’imperialismo, e per quanti appelli via etere si facciano alla jihad contro di esso- la nostra sconfitta è già certa in partenza.

"Dicendo questo non intendiamo scaricare né solo né primariamente su di voi la responsabilità di un simile progresso politico; visto che esso in tanto potrà realizzarsi nei vostri paesi in quanto il proletariato delle metropoli sarà in grado di separarsi dai suoi padroni e dai suoi governi, saprà tornare in lotta al grido: ‘Il nemico principale è nel mio paese!’, e appoggiare incondizionatamente la battaglia, comunque connotata, dei suoi fratelli di classe di colore. Ma nel confermarvi la nostra più piena ed incondizionata solidarietà, chiamiamo anche voi ad un ulteriore passo in avanti."