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Situazione politica italiana

MANI SPORCHE SUL PROLETARIATO

Indice

  • Il senso di marcia (borghese) di "mani pulite"
  • "Mani pulite" e proletariato
  • Anima fascista di Di Pietro e dell’intero capitalismo
  • Dalla melma... alla melma
  • Approdi naturali del togliattismo: versione Pds
  • Approdi naturali del togliattismo: versione Prc
  • Comunismo, puro orpello nominalistico
  • Favori alla Lega
  • L’alternativa alla deriva del riformismo: la politica comunista
  • D’Alema ha presentato la candidatura di Di Pietro al Mugello come un’operazione di intelligente tattica politica. L’aspirante statista col baffetto pensa di prendere due piccioni con una fava. Da un lato procacciare all’Ulivo un patrimonio elettorale capace di garantirgli una maggioranza solida (in grado, in prospettiva, di scaricare anche Rifondazione), dall’altro por fine alla "variabile indipendente" dipietresca, espungendo le inclinazioni dell’ex-magistrato a creare un proprio movimento coerentemente di destra, basato sul motto "legge e ordine", per irretirlo in uno schieramento dai connotati democratici e progressisti.

    E’ veramente questo il senso dell’operazione, e sono quelli desiderati da D’Alema gli effetti che ne sortiranno davvero? Per rispondere all’una e all’altra domanda, occorre, di necessità, ritornare all’indietro, riesaminare il senso e i risultati della vicenda che catapultò sulla ribalta il "Tonino nazionale", l’inchiesta di "mani pulite".

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    Il senso di marcia (borghese) di "mani pulite"

    L’iniziativa della Procura di Milano e di buona parte della magistratura si inserì, con gran battage pubblicitario, in una tendenza a distruggere il "vecchio quadro politico". Nella tendenza confluiva l’insieme della borghesia, che doveva -sotto la pressione della sempre più acuta concorrenza sul mercato mondiale- dismettere un quadro politico troppo incline al compromesso e alla mediazione, e, per ciò, troppo costoso e inefficiente. Ma vi confluivano -per motivi diversi e opposti alla prima- anche il proletariato e le altre classi "popolari" che avvertivano come il "costo della politica" fosse ormai divenuto un peso insostenibile per le proprie spalle e tasche.

    La magistratura non esitò certo a scegliere, tra i due, il campo borghese e a indirizzare il suo lavoro verso una ristrutturazione in senso efficientista e autoritario dal punto di vista di classe: un quadro politico più efficiente, più centralizzato, meno "democratico", non condizionato, cioè, dai pesi delle costose mediazioni non con il "sistema dei partiti", ma, in ultima istanza, con il proletariato, per imporgli uno sfruttamento più efficiente ("onesto") e centralizzato managerialmente. Alla ripulitura del quadro politico si aggiungeva la possibilità di associarvi anche l’ex-PCI, uscito sostanzialmente "incorrotto" dalle inchieste, per convincere i proletari a stringersi al collo con entusiasmo la nuova e più solida corda.

    Questo era l’essenziale della manovra dei giudici. Essi non lottavano per incrementare il proprio potere come "corpo separato", ma, pur rivendicando un maggior ruolo istituzionalizzato quale corporazione di potere, lo mettevano al servizio del rinnovamento dell’intero quadro politico e istituzionale, dando (come sempre) il loro contributo per la difesa dell’intero sistema capitalistico.

    Di Pietro si distinse, fin dall’inizio, dal resto dei magistrati per la sua personale campagna di autopromozione, dietro la quale si può tranquillamente intravedere quel che anche Craxi ha, più di una volta, abbozzato a mezza voce (chiedendo al Tonino ragione di misteriose permanenze in USA e di altri strani rapporti), e cioè l’azione di "zampini esterni".

    L’intervento "esterno" non spiega, naturalmente, l’intera vicenda. Esso si è "solo" inserito nella situazione di difficoltà in cui la borghesia italica è stata precipitata dall’andamento generale del capitalismo e dalla sua particolare storia.

    Di sicuro verso l’Italia non sono mancate attenzioni particolari tanto di USA-Israele (contro una certa qual dose di autonomizzazione della politica italiana in Medio Oriente), quanto della Germania per i tentativi di gioco "autonomo" italiano agli albori della crisi jugoslava.

    Niente di più probabile, quindi, che Di Pietro non sia altro che un burattino i cui fili sono tenuti da centri imperialistici che svolgono una ben più possente campagna in proprio per destabilizzare il quadro politico (ed economico) italiano, quello vecchio e, più ancora, quello in formazione, sia sponsorizzando marionette al proprio servizio, che giocando sulla frammentazione.

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    "Mani pulite" e proletariato

    In linea teorica era possibile che il proletariato potesse approfittare dello scoperchiamento del primo strato di "monnezza", quello dei "politici", per andare a scavare più a fondo, facendo emergere la sostanza profonda di tutta la monnezza: il capitalismo.

    L’appoggio di piazza a "mani pulite" è stato più "popolare" che unicamente proletario, ma unicamente proletaria era e rimane la sola possibilità di ingaggiare una battaglia conseguente sul tema della "corruzione" attorno a un programma di attacco di classe contro le forze sociali e politiche legate alla sua pratica (che è poi norma nel sistema di sfruttamento capitalistico). Ma per far ciò ci sarebbe stato bisogno di un intervento diretto della classe sulla base di una propria autonoma politica. Possiamo dire di averlo, come OCI, sostenuto in assoluto isolamento, ma quel che conta è che la lunga egemonia del riformismo e il ruolo attivo delle sue direzioni hanno portato il proletariato a non muoversi su alcuna politica in proprio, ma ad accodarsi alla demagogia criminale (per la classe operaia) dell’onestà amministrativa, della solidarietà interclassista degli "onesti", nella convinzione -tutta riformista- che da un’amministrazione più onesta ed efficiente del sistema capitalista avesse, alla fin fine, qualcosa da guadagnare egli stesso. Non solo non ci ha guadagnato sul piano economico, ma ci ha rimesso su quello politico. In conseguenza di "mani pulite" s’è scatenata anche a sinistra una battaglia per il "superamento" della politica "in generale", per l’abbandono della "partitocrazia" ecc. Il risultato è stato di aver corrotto ulteriormente, dentro il proletariato, l’idea stessa di avere una propria particolare politica, un proprio particolare partito.

    La borghesia, la magistratura e lo stesso Di Pietro avevano la certezza che le forze politiche "operaie" avrebbero svolto il proprio dovere per impedire ogni velleità di autonomo intervento proletario. Anzi puntavano a usare "mani pulite" per accelerare il decorso del riformismo verso la più completa sottomissione a ogni legge del sistema capitalista, ottenendo, al tempo stesso, di associare la classe operaia in una campagna per la ripulitura dello Stato, di cui essa era destinata a essere la principale vittima.

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    Anima fascista di Di Pietro e dell’intero capitalismo

    Di Pietro ha sistematizzato, dagli esordi, questa linea politica, dichiarandosi coerentemente uomo d’ordine, uomo di destra. Il suo saltabeccare da uno schieramento all’altro non inganni: egli non ha "tradito" mai il proprio programma. Lo stesso "definitivo" approdo all’Ulivo è il frutto del suo coerente disegno politico.

    Il polo berlusconiano, nonostante le avances di AN, non si presta, infatti, ad accogliere come leader l’ex-magistrato, in virtù delle sue stesse contraddizioni e della sua fragilità, le une e l’altra ben riassunte nella figura del capo -necessariamente a termine-: troppo vulnerabile egli stesso sia sul piano giudiziario che su quello politico, ma, allo stesso tempo, troppo ingombrante per lasciare a Di Pietro, o chi per lui, lo spazio cui ambisce. Anche la costituzione di un polo in proprio si è dimostrata tutt’altro che facile. Non resta che l’Ulivo, che da parte sua dimostra una chiara disponibiltà a tirarsi dentro il cancro dipietresco, aprendogli, così, la strada a una completa metastasi nel corpo delle masse uliviste.

    Non è, dunque, che Di Pietro passi a sinistra. Più semplicemente egli vi transita con uno scopo preciso: crearsi le basi per un consenso passivo di massa che giunga a distruggere la stessa sinistra per realizzare un ulteriore passaggio: dar vita a un blocco d’ordine trasformato e allargato al centro e alla destra, dopo aver svuotato il polo berlusconiano (dall’esterno) e quello ulivista (dall’interno).

    L’Ulivo non è altro che un wagon-lit per una nuova marcia su Roma senza bisogno di camicie nere, e, anzi, con il largo corredo di stinte camicie ex-rosse.

    Tenuto in debito conto le differenze di condizioni storiche, personaggi e "calore" dello scontro tra le classi, la manovra rimanda a quella di Mussolini con le trattative ministerialiste coi socialisti e la CGL, prima di saldare il conto anche con loro in maniere spicce.

    L’anima fascista del capitalismo si ripresenta e si ricicla (e come lei quella del riformismo) al di là delle forme, diventando sempre più fascista nella sostanza, che non risiede nei manganelli e nell’olio di ricino (oggi è la sinistra stessa ad auto-ricinarsi!), ma nel perfezionare la dittatura del capitale sul proletariato, dopo averne smantellato ogni autonoma istanza politica e organizzativa di classe.

    Anima fascista di tutto il capitalismo, non del solo Di Pietro. Il tentativo di costui può anche fallire, ma, con ciò, non sarebbe affatto eliminata l’urgenza del capitale di restringere le catene del suo dominio sul proletariato, chiudendo definitivamente l’epoca del compromesso, delle concessioni e persino quella della concertazione dei sacrifici. Se non dovesse riuscirvi mantenendo l’assetto unitario del paese, lo farà dopo aver spezzato il proletariato e rinchiusone i pezzi in due o più micro-nazioni.

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    Dalla melma... alla melma

    Che il disegno di Di Pietro fallisca è più che probabile. Esso nasce mentre l’intero quadro politico e sociale sprofonda in una palude di immobilismo. Confindustria invoca sfracelli contro i lavoratori, ma, impantanata nelle abitudini consociativiste, continua a ricercare il preventivo assenso della controparte. Il Polo delle Libertà rifiuta di passare a una opposizione vera che ribalti i rapporti di forza nella piazza prima che nelle urne. Il centro-sinistra prosegue con gli strappi continui ma morbidi, con le correzioni finanziarie, sociali e politiche somministrate in piccole dosi, in modo da non suscitare reazioni proletarie di lotta. Ciascuno è impegnato ad annacquare gli scontri, tra i due schieramenti e, ciò che più conta, tra le classi.

    In questo quadro melmoso nasce il disegno dipietresco, con l’obiettivo, in prospettiva, di elevarsene. Ma i conti sono fatti "a freddo", nella considerazione di avere tutto il tempo per realizzare il progetto, di spostare le forze dopo averle logorate ai fianchi. Nasce dalla melma, ma si adegua a essa. Non vede, al pari di tutte le altre forze in campo, come sotto la superficie melmosa e immobile si preparino violenti terremoti, come i problemi finora rimandati, invece di risolversi, si vadano accumulando in una miscela dal terribile potenziale esplosivo. La miscela può deflagrare all’improvviso sotto la spinta di pesanti crisi valutarie per il "giudizio negativo" dei mercati sulla riforma dello stato sociale, o simili a quella d’agosto, quando la rivalutazione del dollaro ha portato la Bundesbank a un passo dall’innalzare il tasso di sconto, che avrebbe denudato tutta l’architettura di trucchi contabili del duo Prodi-Ciampi. O per un qualsiasi altro elemento di crisi internazionale o nazionale, economica, politica o militare. Senza dimenticare che la Lega continua ad accumulare forze reali di combattimento attorno al progetto di divisione del paese.

    Anche il vantaggio di cui l’operazione-Di Pietro gode, al momento, dal lato proletario è relativo e a termine. Le condizioni attuali di nullità politica del proletariato rendono plausibile che si lasci pervadere dal cancro-Di Pietro. Ma le condizioni economico-sociali vanno tutte in controsenso rispetto alla "pacificazione" politica che domina la scena. E la decisione su di esse non è nelle mani di Prodi, D’Alema, Di Pietro o delle "parti sociali", non si prende a Roma: la prendono "i mercati". Passare "all’improvviso" dalla "pacificazione" o dal "logoramento ai fianchi" allo scontro aperto sarà difficile per Di Pietro, come per tutta la borghesia.

    Per affrontare i terremoti che già si agitano nel sottosuolo, a tutte le parti in causa (borghesia e proletariato) servirà un dispiegamento di forze, politiche e militari, di massa che non si può improvvisare sul momento, ma che abbisogna di una lunga leva e di un organamento, ideologico e organizzativo, di vera lotta, che mai potrà svilupparsi nei miasmi della palude attuale.

    E’ certo che Di Pietro miri a un proprio movimento, anche fisicamente strutturato (fin qui può muoversi nella destrutturazione altrui, e generale), ma quel che ha dietro finora è con identica certezza, assolutamente poco: transfughi di vari partiti, delusi alla ricerca di autoaffermazione e... la Federcasalinghe.

    Inoltre, il personaggio riuscirà difficilmente a fare qualcosa di meglio; più che il ruolo di un protagonista della rinascita nazionale, il suo sembra essere piuttosto quello di un fantoccio nelle mani di astuti manovratori Usa (e stupidissimi manovratori locali), cui si chiede di destabilizzare ulteriormente la situazione italiana per porgerla come mela matura a chi di dovere, col rituale calcio in culo al Masaniello di turno.

    Dalla melma non si erge neanche qualcuno in grado di riprendere e svolgere il teorema craxiano, denunziando il senso imperialista anti-italiano della manovra che sta dietro a Di Pietro e i suoi tutori. Potrebbero farlo i capi del Polo, ma... hanno cervello e muscoli per farlo? Quand’anche li avessero, sarebbe ben duro fare gli "anti-americani" in un momento in cui anche i tradizionali oppositori dell’imperialismo yankee ne sono divenuti difensori tenaci delle "virtù democratiche" (né sa qualcosa non solo il Pds, ma lo stesso il manifesto).

    D’altronde, il Polo sta reagendo alla candidatura di Di Pietro con sommo imbarazzo. Abituatosi a una "leale opposizione" -che non è altro che un sostegno di fatto a Prodi- è in attesa di recuperare il "voto moderato" dopo averlo allontanato dall’azione di piazza. Mentre decide "cosa fare da grande", non è nemmeno escluso che si metta a cavallo, magari indirettamente, del cavallo curziano.

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    Approdi naturali del togliattismo: versione Pds

    L’operazione-Di Pietro ben difficilmente, insomma, risolverà il problema della borghesia italiana di centralizzare e disciplinare le proprie forze e quelle proletarie al fine di ripresentarsi da protagonista sull’arena del sempre più aspro conflitto inter-imperialista. Ma, al di là (e oltre) le sue possibilità di successo, essa produce un danno certo sul proletariato, via Pds, e, in definitiva, anche via Prc (e lo vedremo più innanzi).

    Perché il Pds si presta a un’operazione il cui scopo ultimo è quello di liquidarlo anche come partito? Qualche malpensante potrebbe suggerire che D’Alema subisce qualche ricatto (è notorio che "mani pulite" non ha mai esaminato a fondo il grado di pulizia delle mani dell’ex-Pci). Ma potrebbe trattarsi, più semplicemente, di una vocazione spontanea al suicidio.

    Di sicuro la candidatura di Di Pietro non è in contraddizione con l’evoluzione del Pds dalla Bolognina ai successivi "strappi", tutti a loro volta già perfettamente inquadrabili nella storia dell’ex-Pci.

    Nel passaggio da questo al Pds si portava a logica conclusione la premessa togliattian-berlingueriana che gli interessi della classe operaia si possono difendere solo all’interno del sistema capitalista. Di conseguenza, non ci si può sottrarre dai compiti "oggettivi" che esso pone di maggiore concentrazione e centralizzazione, di efficienza competitiva e capacità aggressiva sul mercato internazionale. Da ciò l’obiettivo di uno "schieramento progressista" in grado di assolvere gli interessi complessivi del capitale nazionale meglio di quello di destra, nella speranza di potere, poi, accedere a una politica di "redistribuzione" degli utili conseguiti.

    Una classica politica social-imperialista che il secondo congresso della Quercia ha ulteriormente sanzionato. Se la sinistra vuole governare -vi disse D’Alema- deve avere il coraggio di proporre un nuovo patto sociale ai ceti medi e alla borghesia, i cui contenuti siano: uno Stato meno invadente, più efficiente, veramente federalista, e la creazione di un vero mercato, che smantelli soprattutto le "rigidità" operaie.

    Da tale politica "la centralità della classe operaia" deve scomparire come elemento strategico del partito e come asse portante della sua struttura organizzata. Se il proletariato non deve rivendicare propri autonomi interessi e una specifica identità di classe, ma accettare di sciogliersi nella società quale individui dediti al "bene comune" dettato dall’andamento capitalistico, esso deve, pure, dismettere ogni propria distinta organizzazione. Per lo meno, il Pds non lo è più.

    La trasformazione del partito si è incamminata, a un tempo con gli "strappi" politici, a passi da gigante verso l’abbandono definitivo del ruolo di tutore di "una sola parte della società". L’edulcorazione (e la prossima scomparsa) della falce e martello, il rifiuto di appartenze ideologiche, il dibattito interno "laico", fatto da persone "mosse da individuali e difformi motivi", sono altrettanti passaggi verso il completo abbandono di ogni legame "di classe".

    La scelta di candidare Di Pietro al Mugello si inquadra perfettamente in questo corso: si vuole ottenere non un seggio qualsiasi, ma un seggio nel cuore del triangolo rosso, per piegare come pastafrolla l’ossatura d’acciaio del vecchio partito "classista" di sinistra, per trasformare il "cuore" del partito "operaio"-borghese in piattaforma di lancio, in perfetta "linea di continuità", di un progetto forcaiolo borghese. E’ l’ennesima (in un certo senso, decisiva) azione a scapito del proletariato.

    Il vero risultato delle suppletive del Mugello sarà questo: grazie a D’Alema (prima che a Di Pietro) lo "zoccolo duro" ex-Pci si trasformerà in una dura zoccola, smarrendo sin l’ultimo ricordo del proprio essere, e tanto più quanto più si darà dimostrazione del principio (di per sé vitale per un’organizzazione di classe) dell’ubbiedienza pronta cieca e assoluta al Partito.

    La deriva del "riformismo operaio" consegna a opzioni reazionarie settori significativi di massa proletaria. Ciò che su altro versante (non meno reazionario) sta già avvenendo con la Lega, anche se con motivazioni e modalità diverse. A Di Pietro si consegna una massa di manovra come diretto sviluppo della stessa politica riformista. Alla Lega si consegnano proletari combattivi che non trovano più nei partiti riformisti uno sbocco politico credibile alle proprie necessità di difesa economica, sociale e politica.

    Non è solo fenomeno italiano, di simili se ne intravedono già in Francia con Le Pen (che nel ‘95 ha raccolto il 30% del voto operaio), negli Usa con Buchanan, in Belgio con il Vlaams Blok.

    Il vecchio riformismo consegna al nemico buona parte del suo patrimonio di consenso e di militanza operaia, e lo fa proprio in conseguenza dello sviluppo logico dei suoi presupposti teorici e programmatici.

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    Approdi naturali del togliattismo: versione Prc

    Se il Pds fa da testa di ponte al diffondersi del dipietrismo nella classe operaia, Rifondazione dichiara di volerlo arginare, e contrappone all’ex-magistrato l’ex-comunista Curzi.

    La preoccupazione del Prc è che il "popolo di sinistra" dia i suoi voti per eleggere un "uomo di destra". Come se non avesse già esso stesso fiduciato Di Pietro quale ministro (poi dimissionario) del governo Prodi. E come se non si fosse già, alle ultime elezioni, eletto, col voto di sinistra, Dini e compari, popolari ed ex-socialisti, nessuno dei quali "più a sinistra" di Di Pietro. Allora si disse di non votare il solo Dini (ma l’elettore rifondazionista, coerentemente con la logica della "desistenza" contro le destre poliste, si turò il naso e lo votò), oggi si dice di presentare un candidato alternativo per contrastare la deriva della sinistra. E’ un farmaco efficace?

    Innanzitutto la candidatura di Di Pietro è solo un mezzo per consolidare nel proletariato la sottomissione alle leggi del capitalismo, tramite quel che il Prc chiama il "liberismo moderato" del Pds. Una risposta allo stesso livello -elettorale- è sconfitta in partenza. Detto altrimenti: l’argine alla deriva "liberistica" nel proletariato non passa per la via di una riscossa elettorale, ma per una critica di massa (quindi di iniziativa, di organizzazione, di lotta) alle politiche dell’Ulivo e del suo governo. Può il Prc sostenere questo governo come necessario a respingere le destre e, allo stesso tempo, lavorare a far crescere un’iniziativa di lotta di massa che metta seriamente in questione tutti i presupposti politici dell’azione governativa?

    Secondariamente, candidando Curzi si vuole salvare il "sangue buono" della sinistra dalla contaminazione dipietresca e lo si fa con una bandiera personale ben distante da un qualsiasi riferimento al comunismo. Per "salvare" la sinistra che va a destra, la si insegue: oggi Curzi, domani chissà chi pur di conquistare... il centro della sinistra!

    Con tali premesse non solo non si blocca la deriva pidiessina, ma non si va da nessuna parte, anche se i numeri elettorali fossero cospicui. Anzi, più saranno cospicui, più aumenteranno i problemi... per il Prc, perché, sulle basi anzidette, non si saranno ri-conquistati elettori pidiessini a un programma comunista (sia pure tra virgolette), ma si sarà dimostrato che per conseguire un maggior successo elettorale della "sinistra" bisogna toglierle qualche altro pezzo della sua identità di classe...

    Rifondazione, peraltro, sarà il più probabile agnello sacrificale sulla tavola dei nuovi commensali del blocco Ulivo-Di Pietro. Non a caso Prodi e Dini hanno accresciuto la ricerca a destra dei consensi necessari a riformare lo stato sociale senza concessioni al Prc: il "patrimonio elettorale" di Di Pietro gli dà sicurezza anche nel caso estremo di crisi del governo ed elezioni anticipate.

    Come reagirà alla cacciata il Prc? Con una lotta d’opposizione dura contro il governo? E per ottenere cosa?

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    Comunismo, puro orpello nominalistico

    Una seria opposizione al governo dell’Ulivo (anche con l’aggiunta di Di Pietro) non può sottrarsi dall’aggredirne il fondamento politico, ovvero l’imposizione alla classe operaia di una politica di sacrifici -pur se più diluiti nel tempo rispetto ai programmi di destra- per rilanciare il capitalismo nazionale. Rifondazione ha dato, finora, appoggio "critico" a Prodi per evitare che il governo passasse alle destre, e perchè tra le forze dell’Ulivo vi sono quelle con cui il Prc insegue un accordo per una "politica diversa", che introduca delle riforme (mentre si continua a sostenere che "gli spazi del riformismo" sono definitivamente scomparsi!) il cui senso è cercare di diminuire il carico di disagio sociale ed economico delle masse lavoratrici.

    Una politica che non si ripromette di combattere il sistema capitalista, ma che si adegua a esso, cercando di ridurne il grado di oppressione ai danni dei lavoratori. Il riferimento al "comunismo" finisce, così, per essere puramente nominalistico.

    Per i "comunisti" di Rifondazione il comunismo è, nei fatti, morto e sepolto, e lo stesso soggetto che dovrebbe realizzarlo -il proletariato- è qualcosa di sempre più residuale rispetto ai "nuovi soggetti sociali", i cui bisogni il comunismo non sarebbe in grado di soddisfare. Di un movimento sociale di rottura del sistema attuale neanche a parlarne, dunque. Sotto questo aspetto il Prc è perfino al di sotto del togliattismo, il quale aveva come orizzonte di riferimento (seppure per sola demagogia) un programma di alternativa comunista. In mancanza di ciò non rimane che un inseguire di continuo degli obiettivi di "resistenza", sempre più al ribasso, nel tentativo di opporsi a un nemico sempre più aggressivo, adattandosi alla ricerca di un "meno peggio" da preservare.

    Inevitabile, allora, ricercare un "fronte della sinistra" piuttosto che un fronte di classe, e una "cultura di governo", con la "capacità della classe operaia di farsi stato" (negandosi, naturalmente, come classe). E’ il risultato dell’intero corso del riformismo: sostituire la prospettiva del socialismo con l’utopia di un capitalismo rigenerato.

    Con queste premesse l’unica cosa che si può fare è cercare di contrastare le politiche "neo-liberiste", contendendogli il governo con un’alleanza con le altre "forze di progresso". L’appoggio a Prodi risponde esattamente a questo programma. Una volta fuori dal governo, è ben facile prevedere che il Prc non cambierà neanche una virgola del suo programma, non riscoprirà alcuna alternativa radicale al capitalismo, semmai si adeguerà a rivedere ulteriormente al ribasso i suoi stessi "obiettivi immediati". E, per sostenere lo stesso programma, non rimarrà che lottare duramente... per rientrare nel governo, o per riproporre una nuova alleanza, cercando di rispostare a sinistra la sinistra che corre verso il centro e la destra (spostandosi, con ciò, a propria volta, sempre più verso il centro).

    Non saremo tra quanti, al momento dell’estromissione del Prc dal governo, si faranno abbagliare da un suo "ritorno all’opposizione". Anzi, indichiamo fin d’ora ai proletari di Rifondazione come l’intera vicenda -dalla desistenza all’appoggio al governo, dalla probabilissima cacciata al ritorno all’opposizione- sia una chiara dimostrazione del fallimento indecoroso dell’intero impianto politico di Rifondazione, e di tutto il riformismo togliattiano di cui il Prc e il suo impianto sono filiazione diretta.

    Di tutta questa impalcatura il proletariato deve definitivamente liberarsi, traendo dalla sua stessa esperienza la determinazione a non farsi più intrappolare nelle sue, o in simili, spire, reagendo come Franco Franchi alla fine di un suo mitico film: "Ciiiccio, una volta mi futtisti, ora non mi futti cchiù!".

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    Favori alla Lega

    Dell’intera vicenda ne beneficia, per intanto, la Lega. L’entrata in campo di Di Pietro affianco all’Ulivo dà a Bossi nuovi argomenti nella denuncia della continuità e del rafforzamento romano-meridionalista dell’oppressione centralista. Mentre Berlusconi si affanna a diffondere la bugia del "tradimento" di Di Pietro (a suo tempo corteggiatissimo) e Fini non sa che pesci prendere, Bossi ne approfitta per dimostrare la sostanziale omogeneità destra-sinistra, attestata dalla facilità con cui si trasmigra indifferentemente da una parte all’altra, riconnetendo il tutto a un sistema da abbandonare definitivamente, dando vita alla Padania.

    Anche nei confronti della Lega, peraltro, i problemi di Di Pietro sono notevoli. Sarà capace, dalla sua nuova posizione politica, di sferrare contro la Lega quell’offensiva di cui gli altri non sono capaci?

    E quale offensiva potrebbe scatenare? A disposizione non ha che i metodi questurineschi. Ma non porterebbero lontano. Tuttalpiù alzerebbero il livello dello scontro. Ma ciò rimanderebbe al problema quo ante: con quali coefficienti di massa, politici e militari, si potrebbe affrontare lo scontro? L’Ulivo ha sul problema di come affrontare Bossi più d’una titubanza: sa che gli mancano proprio gli attributi di mobilitazione di massa, mentre non è in grado di svolgere alcuna politica concessiva verso le masse proletarie, per poterle legare a sé in una lotta contro la secessione. Per predisporsi delle basi di questa natura, Di Pietro dovrebbe, in prima istanza, coltivare il suo populismo autoritario battendosi per una ripresa degli interventi al sud. Ma questo non farebbe altro che avvicinare ulteriormente il punto di rottura in una spirale che non è, al momento, prevedibile.

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    L’alternativa alla deriva del riformismo: la politica comunista

    L’attuale stato di cose è del tutto transitorio, l’apparente "pacificazione" democorporativa tra le classi si volgerà "improvvisamente" in un rinnovato uragano, che rischia di lasciare sul campo un economia non più nazionale, una borghesia frantumata (con ogni frammento tributario in misura sin qui impensabile), e un proletariato, a sua volta, diviso, con l’un frammento in contrapposizione all’altro, e sempre e comunque alla coda dei propri padroni (aumentati di numero e voracità, secondo tutti i crismi della "globalizzazione"), e, magari, trasformato in rinnovata carne da macello neo-resistenzialista delle frazioni borghesi più "nazionalmente" aggressive, come già vorrebbero certi campioni dell’anti-germanesimo.

    La fuori-uscita da questa situazione, per il proletariato, risiede unicamente nel ricorso alla sua forza di classe, alle sue armi di battaglia, alla sua unità di lotta. Tutto ciò si può dare alla sola condizione di disfarsi dell’intero impianto politico e programmatico del riformismo. La parte più cosciente del proletariato può svolgere per questo un ruolo fondamentale, purché a sua volta abbandoni ogni illusione di "correzione" del capitalismo, e si riappropri dell’integrale programma comunista, unica vera soluzione contro al capitalismo, e unico strumento di guida anche nel corso delle fasi più difficili per il proletariato.

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