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HONG KONG TORNA ALLA CINA,
E A SINISTRA SALE LA "FEBBRE GIALLA".

  • Il "progressismo", difensore delle cause reazionarie
  • La nostra causa
  • Il 1° luglio scorso, dopo 150 anni di dominazione britannica, Hong Kong è ritornata alla Cina. E’ un effetto postumo della rivoluzione nazional-popolare del 1949. Molto meglio sarebbe stato, dal nostro punto di vista, se tale ritorno fosse avvenuto d’impeto "sulla canna dei fucili" ancora fumanti della guerra civile, mezzo secolo fa. Così non fu. Coerentemente con il suo indirizzo stalinista, il PCC di Mao preferì evitare lo scontro aperto con l’imperialismo anglo-americano e giungere con esso ad un compromesso di fatto. Hong Kong (e Macao) rimasero nelle mani delle vecchie potenze coloniali come due "porte aperte" sulla nuova Cina che, a sua volta, si riprometteva di usarle, come poi è stato, come utili canali di comunicazione, a scopo non esattamente comunista, col mercato mondiale (di analoga natura fu la nascita del regime di Taiwan).

    Nondimeno, dopo il 1949 la pressione di lotta e la voglia di riscatto dall’oppressione interna ed "esterna" delle classi sfruttate rurali ed urbane ha continuato ad essere talmente forte in Cina, in Corea, in tutta l’Indocina, in Indonesia, etc., che anche questo grande ritardo nella naturale "ricongiunzione di Hong Kong alla madrepatria", e le modalità pacifiche con cui si è attuato, non hanno privato l’evento (almeno: non del tutto) del suo duplice significato anti-coloniale ed anti-imperialista. Lo sfratto delle truppe di Sua Maestà e del governatore britannico, infatti, da un lato rafforza lo stato cinese (borghesissimo, ad onta dei suoi frusti paludamenti "socialisti") nei confronti di tutti gli stati imperialisti, e ne consolida le aspettative di tornare in possesso anche delle restanti parti del proprio territorio di cui è tuttora amputato. E dall’altro, -è anzitutto questo che a noi internazionalisti interessa e piace-, rafforza nel proletariato e nell’esercito degli sfruttati cinesi e asiatici la convinzione che l’epoca in cui l’imperialismo occidentale poteva fare con le popolazioni dell’Asia il bello e il cattivo tempo è finita, per sempre.

    Su entrambi i versanti socio-politici, tra loro sempre più distinti ed antagonisti, quello del rapporto con la borghesia cinese e quello del rapporto con il proletariato cinese, la Gran Bretagna e l’intero Occidente sanno d’aver subìto un colpo. Non per caso, dopo il successo nella guerra per le Malvinas, la Thatcher aveva tentato di far ingoiare a Pechino il rospo di un prolungamento del mandato britannico. Vi rimediò una musata storica, il famoso "buttatela fuori!" con cui (lo ha riferito l’Express) Deng ordinò ai suoi aiutanti di togliergli di torno quel pidocchio che la flaccidità delle social-democrazie faceva passare in Europa per la "dama di ferro". L’irremovibilità della Cina ha costretto Londra (e non soltanto Londra) a fare buon viso a cattivo gioco, ed a contentarsi di mettere in piedi un negoziato di mera facciata con cui dar l’impressione di co-decidere il futuro di Hong Kong. Si deve a questa stessa determinazione se nei giorni dell’ammainabandiera inglese le capitali occidentali e i massmedia al loro comando hanno seguito una linea di basso profilo.

    Si è cercato così di presentare il trapasso di poteri ad Hong Kong come una cosa, dopotutto, di ordinaria amministrazione. Si è messo l’accento sul dato (peraltro vero) che la Cina del dopo-Deng non ha alcun interesse a mutare la fisionomia e la funzione dell’Hong Kong britannica, essendo essa stessa legata a doppio filo al mercato e al capitalismo mondiale. Si sono magnificate le prospettive dei grandi affari che un clima di rapporti più distesi con una Cina non più esacerbata da vecchi contenziosi coloniali incrementa. E tuttavia, sotto la crosta di un linguaggio agrodolce teso a non irritare l’interlocutore cinese, è trasparente l’inquietudine delle potenze occidentali per il dinamismo dello sviluppo cinese e soprattutto -è questo il punctum dolens- per la sua crescente tendenza ad autonomizzarsi, a sottrarsi a quella condizione di perpetua dipendenza economica e minorità politica cui l’establishment imperialista, gli USA per primi, pretenderebbe di tenerlo inchiodato. Da qui una serie di avvertimenti, taluni in codice, altri fuori dai denti, perché la Cina ricordi di essere comunque una sorvegliata speciale, e perché, a loro volta, le società metropolitane non cessino di prepararsi (alla lontana) ai nuovi inevitabili conflitti con la Cina.

    Ma poiché, al di là dello stato cinese e del capitalismo cinese, pur sempre "nostri" partner nello sfruttamento delle masse lavoratrici cinesi, sono queste il vero bersaglio ultimo della inesausta campagna di propaganda anti-cinese, ecco che nulla è stato omesso, anche in quest’occasione, perché i proletari occidentali venissero educati a vedere la Cina ed i cinesi come un pericolo, e in specie a sentire i fratelli proletari cinesi come estranei se non nemici, o in quanto sudditi di poteri dispotici da disprezzare per la loro passività da antichi schiavi con le catene ai piedi, o in quanto avversari e concorrenti temibili per la loro assatanata capacità di lavoro e brama di guadagno.

    Il "progressismo", difensore delle cause reazionarie

    In questa semina di sciovinismo anti-proletario si è particolarmente distinta la sinistra italiana, inclusa quella (i maîtres à penser... anti-communiste del Manifesto) che fino a non molto tempo fa si piccava d’esser "filocinese" a prova di bomba.

    In tutte e tre i quotidiani, meritatamente in crisi, della sinistra è impossibile trovare non diciamo una denuncia a tutto tondo del colonialismo imperialista di ieri e di oggi (il riformismo non ne fu capace neppure negli anni "eroici" dello stalinismo, poiché essa avrebbe implicato la ripulsa del capitalismo in quanto tale in nome del comunismo), ma uno scatto, un minimo empito di simpatia per il ritorno di Hong Kong alla Cina e la fine del dominio britannico. Il messaggio che essi trasmettono ai propri lettori è: si sta passando da una dominazione coloniale a un’altra. Del resto, ci istruisce il Manifesto del 10.7 (1), "Hong Kong non è mai stata cinese" (!), ed è dunque ovvio parlare dei cinesi come dei "nuovi dominatori" (testuale). Dei quali bisogna deprecare il "razzismo", l’"approccio cino-centrico" al problema in quanto pretendono di considerare cinese il territorio che da tempi immemorabili cinese è stato. E via a sbuffare contro il "martellamento di Pechino" sull’"onta secolare" finalmente lavata (perché, non è così?). E via a scandalizzarsi perché -cosa davvero incredibile- nell’Hong Kong di oggi "imperversano corsi di lingua cinese" e sarebbe in atto una "invasione" di testi scolastici scritti, pensate, in cinese, invece che nella madrelingua... inglese?, o (irriducibili anti-leghisti!) nel "dialetto" cantonese?. E via a dipingere l’ingresso delle truppe cinesi in una città cinese come (di nuovo) una "marcia di invasione", con largo spazio e grossi titoli accordati alle "preoccupazioni" di USA e Gran Bretagna (mai qualificate imperialiste, anzi largamente condivise).

    Il senso globale dei servizi su Hong Kong è perfino che la nuova dominazione coloniale s’annuncia più minacciosa della vecchia, sia per le popolazioni del luogo che per il mondo tutto, perché il nuovo potere coloniale che vi s’installa non conosce le dolci regole della democrazia (quelle ben vergate con inchiostro al napalm sulle carni di milioni di vietnamiti dall’imperialismo yankee, campione mondiale di democrazia) e s’appresta, probabilmente, ad estirparvi quel tanto di "libertà" che il prode thatcheriano Patten vi aveva introdotto. "Ombre cinesi" (su Hong Kong), titola significativamente Liberazione alcune delle corrispondenze dall’Asia. Ancor più significativamente il loro estensore racconta che assistere alla spaventosa flessione di muscoli di Pechino (4.000 soldati là dove Londra ne tenne fino a 40.000) gli ha fatto scendere "i brividi giù lungo la schiena" (ti è scappata la pipì, Puccioni?), a lui così come all’"opinione pubblica mondiale" (quella che ha l’Albright per profeta).

    Ed ecco, come in un brutto sogno, un affollarsi di domande da incubo che fanno tracimare d’angoscia i cuori ulivisti: che ne sarà, ora, santateresadicalcutta, dei 300.000 cattolici di Hong Kong? che ne sarà degli studenti che inalberarono la statua della libertà del dollaro? che ne sarà dei partiti e dei gruppi demo-liberali al carro di Londra (a tal punto amati dalle grandi masse di Hong Kong da aver raccolto cento, dicasi 100, manifestanti al loro "grande raduno" anti-Pechino)? che ne sarà dell’"esperienza irripetibile di un cinema originale" (quello del kung-fu)? e che fine farà, diomio, il Tibet coi suoi monaci e la sua senza eguali "filosofia trascendentale", strepita l’ex-maoista Pisu dalle colonne della laicista Repubblica?

    Ma basta, basta con questo... rosario di porcherie che non abbiamo trovato, in questa forma enfatica, neppure sul South China Morning Post (il giornale di stretta osservanza britannica). Ci è sufficiente aver fornito qualche scampolo di una politica pronta a far proprie tutte le cause più reazionarie, pronta a sponsorizzare senza vergogna tutte le forze che vorrebbero bloccare il cammino in avanti del capitalismo cinese o ri-soggiogarlo come ai "bei tempi" alle potenze imperialiste, pur di difendere disperatamente intatto uno status quo strangolatorio per le masse del Terzo Mondo con cui il "progressismo" s’identifica ormai senza quasi più alcuna riserva. Salvo poi far la mossa puttanesca di motteggiare "da sinistra" contro Pechino (troppo poco comunista?) perché s’affida al "miliardario conservatore" Tung Chee-Hwa...

    La nostra causa

    Una sola causa non trova spazio alcuno nella politica e nella stampa progressista-ulivista: la causa del proletariato e della rivoluzione proletaria. Un solo genere di dimostrazioni non trova più, a sinistra, appassionati cronisti: le dimostrazioni operaie in Cina (ce n’è stata di recente una a Mianyang, nel Sichuan, con oltre 100.000 partecipanti), in Cambogia, in Indonesia...

    Nulla di ciò ci sorprende. Il furioso montare dell’accanimento anti-cinese ed anti-terzomondiale, contro tutto quello che nei continenti ex-colonizzati mette in discussione l’ordine dell’Occidente, discende direttamente dall’incombente debâcle del "riformismo" metropolitano. I suoi conti "in casa" non tornano, e quanto più in profondità s’infrange, per il corso complessivo del capitalismo mondiale, il "compromesso welfarista", quanto più s’acuisce oggettivamente l’antagonismo tra capitale e lavoro, tanto più le forze "progressiste", che in tale prospettiva vedono (giustamente) la propria fine, si calano l’elmetto sul cranio e sullo stomaco per andare alla guerra neo-colonialista contro le masse super-sfruttate della periferia, in Asia, nel Medio Oriente, nei Balcani e ovunque. L’obiettivo (benché non apertamente dichiarato) è di rimetterle sotto il "nostro" tallone.

    Opposta è da sempre la prospettiva del comunismo rivoluzionario internazionalista, e lo è perciò anche la nostra attitudine verso la vicenda del ritorno di Hong Kong alla Cina.

    Il marxismo ha prima preconizzato e poi salutato con entusiasmo il risveglio dell’Asia (e quello successivo dei popoli colorati degli altri continenti) perché ha visto nella nascita di nuove moderne nazioni là dove prima vegetavano regimi sociali feudali (e talora pre-feudali) asserviti al capitalismo imperialista, la premessa per l’ulteriore sviluppo quantitativo e qualitativo del movimento proletario, e per la definitiva esplosione rivoluzionaria a scala compiutamente planetaria delle contraddizioni del capitalismo. Scriveva nel 1954 "Programma comunista"(n. 17): certo, le rivoluzioni democratiche-nazionali dell’Asia allungano "contingentemente" la vita del capitalismo, ma possono farlo solo diffondendo in quel continente i "contingenti del proletariato" che fino a ieri erano confinati al solo Giappone. Plaudiamo, perciò, alla fine del colonialismo (storico) in Asia, e parteggiamo in modo militante per essa (nella più totale indipendenza anti-"frontista" della posizione proletaria) perché apre una "tremenda crisi" negli equilibri mondiali del capitalismo; una crisi i cui effetti non saranno immediati, ma porteranno a "conflitti di grandissima portata". Non ci spaventa affatto che i cinesi possano diventare una sorta di "tedeschi dell’Oriente", poiché non abbiamo da difendere da questi "nuovi venuti" alcun equilibrio imperialistico o capitalistico, né fascista né democratico, né euro-americano né falsamente "sovietico"; abbiamo solo da demolire, profittando delle "vecchie" e "nuove" contraddizioni del capitalismo, tutto intero il sistema di rapporti tra le classi, gli stati e le razze che ci opprime. E per farlo dobbiamo posizionarci per tempo e saldamente sulla nostra trincea di classe, programmatica politica e organizzativa. Da cui è bandita, dal 1848, ogni forma di nazionalismo, come ogni forma di confusione con e di sottomissione alla borghesia, anche quando questa assolve a compiti rivoluzionari (donde, già negli anni ‘20, il rifiuto di mettere le forze proletarie in Cina alla coda della borghesia "nazionale"). E da cui è con altrettanta, se non maggiore ancora, intransigenza bandita ogni forma non solo di sciovinismo, ma d’indifferentismo verso le lotte dei colonizzati.

    Ora, il primo ciclo del risveglio dell’Asia si è, indubbiamente, compiuto. La prima ondata della de-colonizzazione è passata, ed il ritorno di Hong Kong e, domani, di Macao e Taiwan alla Cina ne sono l’ultima riprova. Ma guai a credere per ciò solo che la partita tra l’imperialismo e l’Asia, tra l’imperialismo e le masse sfruttate e oppresse dell’Asia (e del Terzo Mondo), si sia chiusa per sempre. Al contrario essa è, ad un livello diverso e più alto, più prossimo alla soluzione finale (rivoluzione socialista mondiale o nuova, generale controrivoluzione borghese), completamente aperta. Quello che si sta lentamente fucinando da tempo è un secondo, tremendo assalto imperialistico all’Asia (e al Terzo Mondo), come parte integrante dell’offensiva capitalistica in atto a scala mondiale contro il proletariato. Ed, opportunamente, le forze progressiste europee già son salite a cavalcioni sui mezzi corazzati della reazione imperialista, e da lì chiamano la classe operaia della metropoli all’arruolamento. In nome della democrazia, cioè in nome del capitalismo imperialista e dei suoi interessi di sfruttamento e di dominio malamente travestiti da universale affermazione dei "diritti umani".

    Sappi, militante proletario non ancora dinizzato o dipietrizzato, che se risponderai "presente!" a questa chiamata alle armi contro i nostri compagni di classe dell’Asia, se ti lascerai infettare da questa febbre gialla che sale nella sinistra occidentale, marcerai contro te stesso, combatterai contro te stesso, ribatterai le catene della tua schiavitù. Oggi più che mai la classe operaia non ha nulla di suo da difendere con il capitalismo. Ha solo da aprirsi la strada con la forza, sulle ceneri del capitalismo e in unità con tutti gli sfruttati e i senza riserve della terra, verso quel nuovo sistema comunista di organizzazione della vita sociale che sradicherà le cause dell’inimicizia tra le nazioni e tra le razze.

    (1) Per non appesantire il testo, ci limitiamo a questa sola citazione completa di data, precisando però che tutto ciò che riportiamo è tratto da L’Unità, Liberazione e Il Manifesto dell’ultima settimana di giugno e della prima settimana di luglio, e che tutte le frasi tra virgolette sono autentiche.

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