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USA: LA "SVOLTA" DEL SINDACATO
E LA NASCITA DEL LABOR PARTY

Indice

  • Sindacato e proletari immigrati
  • Anche in fabbrica...
  • Rivitalizzazione del proletariato
  • Fondato il Labor Party
  • I nodi affrontati (ma non sciolti)
  • Un primissimo passo
  • La "svolta" in atto nell’AFL-CIO, concretizzatasi con l'elezione di una nuova direzione, rispecchia il tentativo delle Unions di rispondere a quella strategia di distruzione del sindacato che, avviata a più livelli dalla borghesia con la presidenza Reagan, è proseguita sostanzialmente immutata anche con Clinton. Questa risposta travalica oramai ampiamente il piano "sindacale": la recente costituzione del Labor Party ne è al momento l’esempio più rilevante. Si tratta di mere manovre diversive di una certa burocrazia sindacale?

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    Sindacato e proletari immigrati

    Sotto il fuoco incrociato dell’offensiva capitalistica anche un sindacato ultracorporativo come l’AFL-CIO è stato costretto a reagire pena la sua stessa sopravvivenza (come segnala il crollo del tasso di sindacalizzazione negli ultimi due decenni). La reazione si va concretizzando, non a caso, nel tentativo di sindacalizzare i lavoratori non organizzati (finora volutamente lasciati a sé stessi, quelli con minore contrattualità, con bassi salari, gli immigrati, le donne, le minoranze etniche) vista come unica possibilità di tenuta anche per quelli sindacalizzati. Indicativo di questo orientamento è il coordinamento che la nuova direzione dell’AFL-CIO poco dopo la sua elezione ha organizzato a New York con l’esplicito obiettivo di porre come priorità la conquista di nuovi aderenti tra gli strati più marginali e peggio pagati della forza-lavoro, dunque soprattutto tra gli immigrati, molti dei quali clandestini. Il proposito non è nuovo, ma l’esperienza degli ultimi vent’anni e il bilancio che si inizia a trarne danno all'iniziativa in atto caratteristiche per certi aspetti anche molto differenti dall’impostazione corporativa e sciovinista con cui il sindacato americano ha tradizionalmente affrontato il problema. Un’impostazione che ha dato luogo fino a tempi recenti a una vera e propria strategia di esclusione nei confronti degli immigrati, concretizzatasi nella richiesta allo stato di rigido controllo dell’immigrazione, di restrizioni legislative (per tutti gli anni '70 il sindacato s'è opposto all’amnistia per gli irregolari), di repressione dei clandestini (divieto di accesso ai posti di lavoro, richiesta di sanzioni per i datori di lavoro). Di fronte ai disastri per la tenuta dello stesso sindacato di questa politica di contrapposizione tra lavoratori autoctoni e immigrati che ha favorito esclusivamente il padronato (un dato su tutti: nell’edilizia la sindacalizzazione degli operai professionali è crollato dall’80% del ’40 a meno del 20% negli anni '90), si inizia faticosamente a cambiare direzione di marcia.

    Alla fine degli anni '80, Sweeney, allora leader del sindacato dei lavoratori dei servizi (SEIU) e oggi neoeletto presidente dell’AFL-CIO, proprio sull’onda dei risultati ottenuti nella sindacalizzazione di quel settore, deve affermare: "La SEIU si appresta a organizzare una nuova ondata di immigrati. Per loro e per noi è una questione di sopravvivenza. Per difendersi questi lavoratori devono costruire dei sindacati. Ciò è egualmente vero per noi tutti. Altrimenti, noi non potremo difenderci contro i padroni che vogliono abbassare i salari". Alle parole sono seguiti, seppur solo parzialmente (com'è nella natura di un sindacato che è lontanissimo dall'essere di classe), i fatti, principalmente negli Stati dove il problema è più scottante. Nel 1987 l’AFL-CIO costituisce l’Associazione dei lavoratori immigrati della California (CIWA) finalizzata a tessere i primi contatti organizzativi con questo settore. Nel 1988 la SEIU lancia a Los Angeles una campagna di sindacalizzazione, ben riuscita, tra i portieri e i custodi, in gran parte immigrati messicani "illegali" e donne. Particolare significativo in questo caso, la campagna di sindacalizzazione avviene non attraverso le procedure stabilite dalla legislazione del New Deal e rigidamente controllate dal Ministero del lavoro, che prevedono azioni sindacali rigorosamente limitate al singolo stabilimento o posto di lavoro, bensì con scioperi duri e manifestazioni e scontri con la polizia; e con l’obiettivo, raggiunto, di arrivare a un contratto collettivo unico per tutti i lavoratori.

    Un altro segnale dell'attivizzazione del proletariato sul complesso delle questioni che lo riguardano è rappresentato dalla manifestazione dello scorso primo giugno che ha visto sfilare a Washington duecentomila tra genitori e bambini contro i tagli federali all’assistenza.

    Qual'è infatti la condizione dei bambini nel cuore dell'impero americano? La riassumono le cifre lette dal palco da uno dei primi interventi:
    "novantacinque, numero dei bambini che ogni giorno muoiono negli Stati Uniti; duemila e duecento sessanta, numero dei bambini che ogni giorno nascono in uno stato di povertà assoluta; duemila e ottocentotrentatrè, numero dei bambini che lascia ogni giorno la scuola elementare, e che quindi non saprà mai né leggere né scrivere; seimila, numero dei bambini che ogni giorno finiscono in prigione; ottomila e cinquecento, numero dei bambini che ogni giorno subiscono violenze fisiche o abusi sessuali."

    La necessità del sindacato di rinforzarsi ampliando le proprie fila, incontra in generale una grossa disponibilità da parte della forza-lavoro immigrata, che del resto sovente non attende l’intervento di strutture organizzate esterne per rivendicare con la lotta il diritto a organizzarsi in sindacato. E’ il caso, tra i tanti, di uno sciopero del ’92 -durato cinque mesi- degli edili di origine messicana in sei contee della California, contro il ribasso dei salari e conclusosi, nonostante gli arresti in massa operati dalla polizia del servizio nazionale dell’immigrazione, con una vittoria e la costituzione di un sindacato. Questa lotta ha dato un forte impulso alle spinte già agenti in questa direzione. Non da molto, ad esempio, il sindacato ha varato un piano di sindacalizzazione degli operai di fabbrica di una zona ad alta concentrazione industriale nella periferia di Los Angeles (progetto d’azione Lamap). Anche in questo caso si abbandonano le procedure "fabbrica per fabbrica" e si punta a un’organizzazione per settori industriali -altro dato importantissimo alla luce del disastroso decentramento aziendalistico che caratterizza da sempre il sindacato Usa. La tendenza a superare questa frammentazione è del resto un dato più generale, sia all’interno dei singoli sindacati "industriali" dell’AFL-CIO, sia nel rapporto tra singoli sindacati, sempre più spinti dai rapporti di forza col padronato ad accorparsi e unificarsi (v. l’unificazione delle due Unions dei lavoratori tessili, il progetto di fusione dei sindacati dell’auto, dell’acciaio, del settore metalmeccanico in un’unica grande Union prevista per il 2000). Del pari prosegue l’azione di raccordo organizzativo e di lotta con la classe operaia messicana alle cui sorti il proletariato nordamericano è sempre più legato causa l’espansione del capitale Usa.

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    Anche in fabbrica...

    Segnali interessanti vengono anche dal fronte delle "relazioni industriali" in senso stretto, da sempre appannaggio di pratiche aziendalistiche e concertative della peggior specie. Qui ci limitiamo a segnalare l’importanza, al di là della posta in palio immediata, dello sciopero proclamato lo scorso marzo dal sindacato dei lavoratori dell’auto (United Auto Workers) in due stabilimenti della General Motors (a Dayton, con circa tremila lavoratori) che, arrestando completamente la produzione di parti di ricambio, è arrivato a bloccare gran parte degli stabilimenti nordamericani dell’azienda. Lo sciopero, scaturito dalla minaccia di licenziamenti in seguito al decentramento della produzione, è indicativo della tendenza a rimettere in campo l’arma della lotta, nonchè della disponibilità a ciò da parte di settori di lavoratori delle grandi aziende che sentono oramai sul collo il rischio forte di drastici peggioramenti che mettono radicalmente in discussione il loro status di "privilegiati". Ma è anche indicativo dell’oggettivo riannodarsi di questioni e dunque, potenzialmente, di fronti di lotta precedentemente spaiati. La sfrenata concorrenza all’interno della forza-lavoro, impulsata dalle strategie di delocalizzazione e di deregulation, la pone sempre più all’ordine del giorno. Se non è da aspettarsi all’immediato una ripresa generale delle lotte (comunque in aumento, con una radicalità rinnovata e, soprattutto, con la tendenza a ricercare il sostegno di altri settori di lavoratori, come lo sciopero dei tipografici di Detroit, in atto da un anno, dimostra), iniziano però a emergere con maggiore nettezza nella lotta immediata i nodi di fondo che il proletariato deve affrontare nella sua risposta.

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    Rivitalizzazione del proletariato

    Queste "novità" nel movimento sindacale e nelle lotte sindacali statunitensi sono espressione di una dinamica sociale di estrema importanza, che testimonia come stiano incrinandosi in profondità i rapporti tra capitale e proletariato nel maggior paese imperialista. Allo svolgersi e alla maturazione -oggettivamente determinati- di questa dinamica è legata la ripresa del movimento di classe. Essa non può che iniziare, specie in quegli USA che da un secolo monopolizzano il mercato mondiale, da un tasso di conflittualità molto basso e dall'altrettanto (se non più) basso livello di "coscienza", d'unità e d'organizzazione.

    Solo tenendo presente da dove la classe operaia USA -e più in generale il proletariato internazionale- riparte, si può comprendere e apprezzare il passo in avanti di questi anni. L’esigenza di dare una risposta di lotta più coerente e generale al formidabile attacco del nemico si sta affermando e consolidando non solo tra i lavoratori più schiacciati, ma anche nei settori "privilegiati". Il tempo della concession bargaining unilaterale, da ingoiare rassegnati e consenzienti come una amara e inevitabile purga, è finito.

    Questo inizio di rimessa in moto del proletariato nordamericano si incrocia all’oggi con la "virata" delle Unions, e se da un lato dà ad essa impulso, dall'altro lato, in una certa misura, ne riceve. Ma Sweeny e le nuove leve proletarie "sweeniane" non sono la stessa cosa e non cammineranno fianco a fianco for ever. Al contrario, gli Sweeny (o i Mazzocchi, per quel che riguarda il Labor Party) non potranno dar corso fino in fondo alle loro proclamate (pur moderate) intenzioni perché non intendono abbandonare la politica di sottomissione alle esigenze del capitalismo nazionale. Per limitarci alla questione immigrati: non sono forse responsabili, come minimo, di far ben poco per combattere i sentimenti sciovinisti così largamente diffusi tra i lavoratori statunitensi "doc"? e non hanno forse brillato per la loro assenza o tiepidezza nella battaglia contro la "proposition 187" che in California ha spogliato gli immigrati "illegali" d'ogni tutela assistenziale?

    Le nuove leve proletarie "sweeniane", invece, saranno costrette a darsi, su questo come su ogni altro terreno, linee e piattaforme programmatiche, metodi di lotta e direzioni sempre più conseguenti in senso classista, se vorranno rispondere efficacemente agli attacchi forsennati di un capitalismo che non può consentirsi neanche il grado di sub-welfare finora preservato. Per esse, spesso del tutto vergini all’esperienza sindacale, le lotte attuali sono una prima scuola di guerra in cui imparare da zero quei rudimenti dell’azione di classe che torneranno preziosi nelle più grandi e radicali battaglie a venire.

    La rivitalizzazione del movimento proletario passa di necessità per entro questo provvisorio intreccio tra un unionismo di vertice un pò più conflittuale e lo scoppio ancora non generalizzato di una nuova conflittualità e di una nuova militanza sindacale dei lavoratori. L’avanguardia di classe non può aggirare questo passaggio. Deve sapervi lavorare all’interno per prepararsi, e preparare la massa, alle future scansioni dell’acuirsi dello scontro di classe. Quelle che vedranno diventare burrascoso fino al divorzio finale il legame tra i burocrati "svoltisti" e "base" proletaria.

    E’ indice certo della profondità delle contraddizioni oggettive del capitalismo statunitense il fatto che l’azione sindacale è ormai portata a proiettarsi esplicitamente verso il piano politico, il piano del rapporto tra le classi e tra i partiti di queste classi. Non solo perché la spinta tradeunionista ripropone la necessità di iniziative e rivendicazioni generali e unitarie, dentro e oltre l’ambito dello scontro diretto con il management, in un contesto di polarizzazione sociale sempre più spinto che richiama alla mobilitazione sull’ampio terreno delle questioni che toccano tutto il proletariato. Ma anche perché, dalle lotte e nelle lotte, si fa strada l’esigenza di una "nuova politica" che, nel farsi carico degli interessi dei lavoratori, è chiamata a rompere con la precedente, completa subordinazione alle istituzioni statali e con la "delega" della rappresentanza politica al Partito Democratico. Anche su tale piano si registrano novità.

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    Fondato il Labor Party

    All’inizio di giugno a Cleveland (Ohio), 1500 delegati provenienti da 44 Stati, per lo più membri dei diversi sindacati, sono convenuti per il congresso di fondazione del Labor Party. Si è così giunti alla definitiva formalizzazione di un’iniziativa scaturita dall’interno di alcuni sindacati, in particolare i chimici, già nel ’90-’91. A dare la spinta decisiva, sicuramente, è stato l’approfondimento dell’offensiva capitalistica, di cui la prepotente avanzata repubblicana è espressione, in una con la sempre più netta presa di distanza da parte dei democratici da qualsivoglia minima politica pro-sindacato e pro-lavoratori (la campagna elettorale di Clinton non è forse iniziata, sotto l’ipocrita dicitura della "riforma" del Welfare, con fortissimi tagli alla spesa sociale?).

    Significativamente, la costituzione del Labor Party si colloca per certi aspetti oltre la cornice prevista dai suoi promotori, per lo meno dal gruppo maggioritario che tendeva a configurare il nuovo partito nei termini di uno "strumento di pressione" nei confronti del Partito Democratico e a limitarne l’adesione ai soli iscritti ai sindacati. Questi ultimi restano assolutamente prevalenti. Hanno contribuito, infatti, ufficialmente alla fondazione del partito cinque sindacati "industriali" -tra cui i chimici e gli elettrici-, più di cento locals -le strutture locali di base-, soprattutto del pubblico impiego e dei trasporti, oltre a diversi gruppi di opposizione sindacale interni ad alcune delle più grosse Unions, come i Teamsters for a Democratic Union nel sindacato dei camionisti. Il congresso ha visto, però, anche la partecipazione attiva di rappresentanti delle minoranze etniche, tra cui l’organizzazione dei lavoratori neri Black Workers for Justice, radicata negli Stati del Sud. Ma è soprattutto sul piano dei contenuti politici che emergono le note più interessanti.

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    I nodi affrontati (ma non sciolti)

    Tre i nodi di fondo che il congresso ha affrontato: natura, programma e prospettive del partito "operaio"; rapporti con il Partito Democratico e tattica elettorale; compiti politici e organizzativi. Va da sè che il programma del LP non sottopone affatto il sistema capitalistico a una critica complessiva, ma si limita a denunciare solo alcuni effetti anti-lavoratori e anti-sociali della sete di profitto delle corporations e delle politiche federali di tagli alla spesa. Una denuncia che mette capo, di nuovo, all’illusione dell’American Dream di eguaglianza e opportunità per tutti da far marciare sulle gambe di chi produce la vera ricchezza della nazione. Ma è assai istruttivo il fatto che per dar forza alla richiesta di un nuovo New Deal che garantisca ai lavoratori benessere e diritti sindacali ci si debba spingere fino a rivendicare una prospettiva di potere sulla società da parte dei lavoratori, cui il partito deve fornire lo strumento adeguato di organizzazione e centralizzazione delle forze. Nelle parole del presidente del sindacato dei chimici che ha aperto il congresso: "Il diritto di sciopero è violato, i diritti sindacali sono rimessi in causa, il diritto alla protezione sociale viene distrutto. Ora basta! Dobbiamo organizzare tutti coloro che non sono organizzati... Noi vogliamo una società che dia il potere a coloro che non ce l’hanno... Quello che è buono per i lavoratori è buono per la società nel suo insieme...Se noi ci organizziamo possiamo esigere il potere che ci è stato tolto... (Per questo) deve essere possibile unirci in un solo partito perchè questa è la condizione per porre il problema del potere politico per i lavoratori". E nelle parole di un delegato: "In nome della classe operaia deve parlare la classe operaia stessa. Tutto è una questione di classi sociali. Ci presentano il problema delle risorse come un problema della società intera. No, è una questione di classe".

    La prospettiva resta riformista, oltre tutto declinata in termini unionisti, sindacalisti? Certo. Ma per intanto non fa male all'udito degli operai iniziare a orecchiare simili note, dopo decenni e decenni di negazione dell'esistenza di interessi del proletariato distinti da quelli delle altre classi, e dopo essere stati educati a ritenere lunare, addirittura inammissibile, ogni rivendicazione di potere della classe operaia. E' esattamente questo piccolo dato storico e piccolo che non comprendono quanti raffigurano quest'assemblea come una specie di ultima diga per impedire alla classe operaia statunitense di abbracciare qui e ora la causa della rivoluzione comunista.

    Anche sulla questione dell’attitudine nei confronti del Partito Democratico e sulla tattica elettorale sono emerse cose interessanti. Il congresso ha deciso di non presentare per ora propri candidati, nè a livello nazionale né a livello locale, seguendo in ciò le indicazioni della direzione del partito tese -è vero- a evitare un conflitto frontale con i vertici dell’AFL-CIO che sostengono "criticamente" Clinton e probabilmente con gli stessi democratici. Nondimeno, nel rinviare ogni decisione definitiva al prossimo congresso, il partito si è impegnato a scendere sul terreno elettorale in piena indipendenza dai democratici -qui viene il bello- "non prima di aver messo alla prova la capacità di reclutare e organizzare migliaia di lavoratori" andando "di sindacato in sindacato, di sezione in sezione, di porta in porta, in modo da raccogliere il sostegno al partito e al suo programma". La minaccia rappresentata dal nuovo populismo repubblicano dei Gingrich e dei Buchanan, basato sull’azione politica militante e di massa, è tenuta ben presente: "Se non vogliamo che predicatori di destra come Buchanan o il miliardario Perot reclamino per sè la voce del lavoro, dobbiamo imparare a parlare per noi stessi". Il messaggio così è stato colto da un delegato: "Ci sono molte altre azioni per promuovere la nostra causa, per esempio partecipare a picchetti e dimostrazioni. Ricordatevi che lo scorso anno la gente in Francia ha fermato l’intero paese". E un altro: "Il partito si costruisce nelle piazze e nei picchetti, non attraverso le elezioni". Del resto numerosi interventi hanno ribadito la necessità di una piena e netta rottura con i democratici in linea con lo slogan del gruppo promotore (Labor Party Advocates): "I padroni hanno due partiti. I lavoratori ne hanno bisogno di uno proprio". Una mozione che metteva sullo stesso piano i due partiti maggiori, considerati espressione degli interessi capitalistici, ha poi raccolto i voti di un terzo dei delegati.

    Infine, tra i problemi riconosciuti come prioritari quello di quali forze organizzare e come farlo. Su questo il congresso è stato chiarissimo: "Il Labor Party deve essere l’espressione politica dell’immensa armata di coloro che combattono nelle imprese, dei sindacalisti, delle minoranze oppresse. Il Labor Party deve permettere di organizzare tutti i lavoratori, iscritti e non al sindacato, con o senza lavoro". E il rappresentante del Black Workers for Justice: "Chiedo il sostegno del congresso contro il terrorismo che porta a bruciare le chiese dei neri. Il problema dei diritti non concerne solo gli afro-americani, ma tutti i lavoratori... Si tratta per noi di costruire il Labor Party, in particolare nel sud e nei villaggi, in direzione della popolazione nera". Può poi essere indicativo dell’attitudine militante dell'assemblea costitutiva del Labor Party l’impegno assunto dal congresso per una manifestazione nazionale a sostegno dello sciopero dei tipografici di Detroit (che sono intervenuti al congresso con queste parole: "Questa è una guerra. Noi siamo ai nostri posti e non ci arrenderemo") e l’appoggio dichiarato a ogni azione che gli scioperanti dovessero intraprendere contro i crumiri "marce, picchetti di massa, scioperi di solidarietà locali e nazionali inclusi".

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    Un primissimo passo

    Non siamo, è scontato, di fronte al partito di classe, nostro, rivoluzionario. Non solo perché le coordinate teorico-politiche del Labor Party non sono né possono diventare in futuro quelle marxiste. Ma perché molto distante è ancora la situazione attuale, oggettiva e soggettiva, da quella incandescente che costituirà il terreno di rinascita del partito rivoluzionario. Ed in più esercitano un peso negativo tuttora i trascorsi del movimento operaio americano (e di quello internazionale), sicché non siamo neppure a un inizio di rottura, incerto quanto si voglia e di avanguardia, con il capitalismo in quanto tale. Il Labor Party non rappresenta neanche questa seconda eventualità. Nondimeno esso è il riflesso, su di un piano che resta interamente riformista quanto a impianto complessivo di linea, di una dinamica effettiva di riattivizzazione del proletariato nordamericano, e della tendenziale politicizzazione che, nelle attuali condizioni di crisi generale del capitalismo, tale riattivizzazione assume. La costituzione di un partito "operaio" negli Usa, sullo sfondo di una situazione complessiva che va verso punti catastrofici di rottura nel rapporto tra proletariato e borghesia indica infatti -senza potervi essere all’altezza- la direzione di marcia per una classe operaia che non vuole (e non può) abbandonare il campo: riorganizzazione delle proprie fila, centralizzazione delle proprie forze, riacquisizione dell’arma insostituibile del partito. Il proletariato nordamericano segna un primissimo passo in questa direzione con ciò indicando quanto innanzi stia procedendo, nella realtà dello scontro di classe se non ancora nella coscienza delle masse, l’esigenza del partito di classe. E’ questa la spia del fatto che con l’approfondirsi delle contraddizioni capitalistiche si preparano a emergere dalle lotte energie suscettibili -mai "spontaneamente", certo- di fare il salto verso la teoria e l’azione rivoluzionarie. Ai comunisti e al proletariato di qui il compito di cogliere e valorizzare questi primi passi per quello che effettivamente significano in prospettiva e così lavorare per la ricomposizione del proletariato internazionale.

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