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RUSSIA: LA RISCOSSA PROLETARIA
NON PASSA DI CERTO PER ZUGANOV O ANPILOV

Dobbiamo confessarlo. Le elezioni russe ci hanno provocato, al massimo grado, divertimento e stizza.

Divertimento perché a ridosso del voto gli inviati dei massmedia e i cremlinologi davano El’tzin in fondo alla classifica dei concorrenti (con l’eccezione del povero stipendiato dalla Stampa di Agnelli, il post-tovarisc Gorbacev) e, quindi, destinato a non arrivare neppure al secondo turno, mentre noi avevamo per certa la sua affermazione. Stizza perché mentre quei signori sono profumatamente pagati per sparare "analisi" e previsioni destinate al naufragio, a noi, che regolarmente "indoviniamo il futuro", non ci paga nessuno, neppure come astrologi. Perlomeno si fosse potuto scommettere! Con un El’tzin cento a uno il nostro giornale avrebbe trovato i fondi che non ha...

Perché El’tzin era destinato alla vittoria? In primo luogo perché la sua corsa alla perestrojka capitalista ha già dato i primi risultati economici e sociali. Economici, con il rilancio aggressivo dei -per ora limitati- settori produttivi di punta, diventati competitivi sul mercato (con una non lontana prospettiva di potersi collocare anche fuori casa), mentre si è in qualche modo coperto il problema sociale derivante da quella maggioranza di settori che, di fronte alla sfida ristrutturatrice, sarebbe di per sé destinata al fallimento e abbisogna, quindi, di un transitorio supplemento di stato sociale, per quanto "tiratissimo". Sociali, giacché si assiste all’affermazione di strati sociali borghesi "dinamici" e, attorno a essi, di strati di lavoro dipendente, specie nelle nuove generazioni non più legate alle vecchie e oramai insostenibili guarentigie, che sentono che a essi spetta "il futuro", cioè una possibilità (quando c’é) di vendersi a un prezzo "conveniente", senza bisogno di precisare cosa noi pensiamo di quel futuro! La favola di uno "stato di transizione" -che non transita mai- che mancherebbe di strati borghesi agenti può raccontarla ormai solo Lutte Ouvrière.

Dal punto di vista politico, nonostante persistenti marette, si può dare per conclusa la fase iniziale di convulsioni ai vertici del potere. Una squadra politica dirigente, pur rissosa al proprio interno per difetto di maturità, si va delineando con sufficienti caratteri di stabilità, man mano che il paese assume, economicamente e socialmente, una propria fisionomia definita.

Di più, la manomissione da parte del capitale estero sul capitale produttivo nazionale in cambio di un pugno di spiccioli -la vera mafia, altro che quella autoctona!- ha ricevuto un primo stop, il che ben spiega le rancorose invettive di buona parte dell’Occidente contro l’ex-idolo d’improvviso scoperto per inaffidabile ubriacone. In politica estera, poi, Mosca torna a giocare un suo indiscutibile ruolo e anche questo è messo sul conto della... vodka di Boris (compresi quei buontemponi di Liberazione che riscoprono l’"imperialismo russo e le sue mire" per esimersi dal vedere dov'è di casa l’imperialismo numero uno).

In secondo luogo la vittoria di El’tzin si spiega con l’inconsistenza dell’opposizione alla sua "sinistra", Zuganov e soci. Abbiamo già caratterizzato, in un precedente Che fare, i connotati di questa opposizione senza doverci troppo ritornare su. C’è un apparente paradosso: nell’attuale CSI sono in maggioranza, forse, coloro che devono pagar cara la perestrojka e avrebbero, astrattamente, tutte le motivazioni per rimpiangere il passato, eppure essa non si traduce in una maggioranza di voti per l’opposizione. Perché? Perché indietro non si può andare, perché il relativo welfare ereditato dal "compromesso" staliniano -e "la gente" lo sa- non è né procrastinabile né rieditabile. Il "diritto" alla scodella piena (si fa per dire...) vale se c’è di che riempirla e, su questo punto, il sistema "sovietico" era giunto al capolinea. I proletari possono anche essere esigenti, ma sono realisti (il che non è forzatamente sinonimo, ahinoi!, di rivoluzionari) e sanno valutare i dati di mercato, da venditori di forza-lavoro, per l’appunto. Persino le tendenze autogestionarie, la rivendicazione alla proprietà operaia delle imprese esistenti sul mercato, si sono ridotte a poca cosa: i proletari russi si rendevano che si trattava di ingestibili groviere; certo, in una visione di lotta politica rivoluzionaria avrebbero anche potuto cominciare da lì, per aggredire l’insieme del potere capitalista (non solo né principalmente moscovita), ma, come abbiamo più volte spiegato, era proprio questo soggetto politico a mancare, grazie ad un’opera pluridecennale di terrore da un lato e di cloroformizzazione dall’altro dell’autonomia di classe.

C’era da aspettarsi da Zuganov e dalla sua scombinata squadra (comprendente, tra l’altro, fior di reazionari nazionalisti slavofili, destre "sociali", pope "populisti" etc.) la sua risurrezione? Via, non facciamo ridere! Gli stessi nostri fan del neo-"comunismo" russo, d’altra parte, non chiedevano questo, ma tiepide ricette di liberismo controllato, misurine sociali e via dicendo, perché quello che tutti spaventa è proprio che quel soggetto torni a darsi...

Questi cosiddetti "comunisti" altro non sono, nel migliore dei casi, che i capoccioni diseredati del vecchio regime, i profittatori estromessi dal "nuovo ordine", coloro che mai hanno dato voce all’autonomia di classe, ma dei proletari-clientes si sono potuti, tutt’al più, servire come da sgabello su cui erigersi da "buoni padroni" munifici, non diversamente, in sostanza, dalle nostre dirigenze irizzate o dell’impiego pubblico sovvenzionato a spese del plusvalore complessivo estorto al proletariato.

Ci si chiederà: ma voi, allora, preferite El’tzin a Zuganov? Mettiamola così: certamente i nostri precordi battono dalla parte degli "esclusi" (una cui buona fetta ha votato Zuganov, senza trascurare chi ha illusoriamente votato El’tzin), ma proprio per questo ci provoca la nausea un’opposizione costituzionalmente incapace di proporre un’alternativa reale al potere e che, anzi, lo alimenta al massimo grado. A questa stregua preferiamo senz’altro la vittoria di El’tzin, ma perché essa impone la scuola di guerra cui i proletari russi, tuttora in assenza di un indirizzo comunista organizzato, devono utilmente rispondere per arrivare all’altezza dei propri compiti storici. Alla vecchia situazione -morta e sepolta perché così doveva essere- di servitù "tutelata" del proletariato preferiamo lo knut senza veli di un capitale che osa chiamarsi col suo nome. Più "inumano", ma altamente educativo: quando verrà l’ora della riorganizzazione politica e materiale del proletariato russo, questo, per forza di cose, non potrà limitarsi a rivendicare dei benefici per sé in quanto classe del capitale, dovrà bensì mirare al proprio potere integrale di classe.

La preferiamo anche in un altro senso, e qui ci soccorre il... marxista Cossiga. In un’intervista pre-elettorale ad Epoca il non fesso picconatore, richiestogli se non temesse la vittoria dei "comunisti" ha risposto: no, un Zuganov vincitore, che comunista non è, si troverebbe nella, per noi comodissima, situazione di dover dare all’Occidente le massime garanzie di non disturbare il manovratore, di piatire degli aiuti per rinchiudersi in una politica autarchica sempre più asfittica e, in fin dei conti, dipendente; al contrario, con El’tzin abbiamo già i primi segni di una riattivizzazione indipendente del colosso sovietico. Nessuno dei due vuole rilanciare una guerra santa del proletariato (russo o internazionale?) contro il capitale, ma il secondo è, concorrenzialmente, più pericoloso quanto agli scenari futuri dello scontro inter-imperialistico. Bene. Noi diciamo: quest’entrata sul mercato economico e politico mondiale non è, di per sé, un avvicinamento a noi; ma essa, strappando decisamente il proletariato russo al proprio atavico isolamento (prima quello degli slavofili, poi quello del "socialismo in un solo paese" di Stalin che vaneggiava di un "mercato (socialista!) indipendente"), è la necessaria premessa per il rovesciamento dialettico dell’"universalizzazione" capitalista nel suo contrario.

Chiudiamo con una nota amena.

All’indomani della sconfitta di Zuganov, cocente non tanto in termini numerici quanto per la rappresentanza periferica di consensi, strappati al di fuori delle grandi concentrazioni urbane ed industriali, Liberazione annunciava, sottoscrivendo toto corde, che il partito "comunista" di Zuganov si appresta ad una "rifondazione". Il bilancio che entrambi questi due soggetti traggono dalla vicenda elettorale passata è che vanno eliminati gli estremisti, che non si possono conquistare i consensi dei "nuovi soggetti sociali" (e qui il tributo ad El’tzin non potrebbe essere più clamoroso!) senza dar prova di realismo, di moderazione, di un’attenzione vigile -e... urbana, direbbe Totò- alle esigenze del mercato, fuori da ogni tentazione "statalistica" di vecchio conio. Cioè: per vincere bisogna "competere" sullo stesso terreno dell’avversario. Il comunismo vero è già dato a tal punto per sconfitto, e da ripudiare, che per esso non occorre neppure richiamare Stalin -non diciamo poi mai l’Internazionale di Lenin!-, ma basta un Anpilov o addirittura l’"eccesso di stato" a causare un liberistico orrore.

Questa virata anti-estremistica di Liberazione allude, d’altra parte, anche ai propri fatti interni. Bertinotti ha già annunciato che il partito deve ri-rifondarsi. Anch’esso ha, al proprio interno, degli Anpilov sotto forma Ferrando che rompono le scatole e di cui ci si deve liberare se si vuole assumere una "convincente" faccia acchiappavoti realmente riformista, di mercato, borghese insomma. Ed è sottinteso che i calci nel sedere agli uni ed agli altri di simili "estremisti" non provocheranno in noi alcun sentimento di simpatia "fronteunitaria" con essi. Se l’abito non fa il monaco, tantomeno un pezzo di stoffa potrà farlo e, semmai, l’assemblaggio di tanti pezzi di stoffa diversi definisce l’abito dei Pulcinella.

La strada dell’organizzazione comunista resta tuttora da fare, in Russia e qui. Non passerà per i Zuganov né per gli Anpilov né per gli strateghi locali di una sotto-quarta internazionale. La strada è segnata dalla scuola di guerra cui siamo chiamati e dall’armamentario adeguato che sapremo apprestare e con cui rispondere. Su questa via noi sappiamo di starci. Su di essa chiamiamo i proletari (non i Brancaleone) a venirci.

Vale per la Russia, vale per l’Italia visto che sempre più la stessa è l’aria che respiriamo.

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