18 febbraio 2023
Ma davvero sono misure a favore dei lavoratori?
Lo scorso 2 febbraio, il Consiglio dei ministri del governo Meloni ha approvato il cosiddetto “Ddl Autonomia Differenziata” firmato dal ministro per gli Affari regionali e le Autonomie, il leghista Roberto Calderoli: ogni Regione potrà decidere e legiferare su varie materie, fra cui sanità, scuola, rifiuti, trasporti, alimentazione, energia, sicurezza sul lavoro, previdenza integrativa.
Negli stessi giorni, il ministro “dell’Istruzione e del Merito” Giuseppe Valditara ha lanciato l’ipotesi di differenziare i salari del personale scolastico su base territoriale. Ipotesi caldeggiata anche dal ministro della pubblica amministrazione Paolo Zangrillo.
A sentire la propaganda governativa si tratterebbe di provvedimenti che, se messi in campo, andrebbero incontro alle necessità dei lavoratori e delle loro famiglie. Si dice ad esempio che in tal modo le regioni (del Nord e del Sud) sarebbero più libere dalla burocrazia statale e quindi più capaci di migliorare i livelli di assistenza sanitaria pubblica. Allo stesso modo si spiega che differenziare i salari su base geografica non recherebbe danno a nessuno, ma permetterebbe di adeguare “positivamente” le buste paga al diverso costo della vita delle varie zone. In pratica, affermano, non si toglierebbe nulla a chi lavora a Lecce o a Catania, ma si darebbe qualcosa in più a chi lavora a Milano o Bologna dove la vita è più cara.
In realtà, le cose stanno esattamente all’opposto.
Si guardi a cosa è accaduto proprio nella sanità pubblica in questi ultimi decenni. La sua regionalizzazione da un lato ha aumentato il divario tra Nord e Sud immiserendo le prestazioni ospedaliere nel meridione. Dall’altro, anche e soprattutto nel settentrione, ha significato lo spostamento di ingenti risorse dal servizio pubblico al settore privato, dalla sanità “per tutti” alla sanità “per ricchi”. La mattanza di pensionati durante l’epidemia da Covid-19, consumatasi soprattutto in Lombardia (regione leader in fatto di privatizzazione sanitaria) la dice lunga su quanto questi processi vadano incontro ai bisogni di chi vive del proprio lavoro.
E la differenziazione salariale su base geografica? All’inizio potrebbe anche esserci qualche beneficio per chi lavora nell’area centrosettentrionale del paese. Ma poi (e ben presto) i ridotti salari del Sud fungerebbero da pietra di paragone e da arma di ricatto che il padronato userebbe contro tutti i lavoratori (del Nord innanzitutto) per erodere non solo le buste paga, ma anche le condizioni normative e le tutele garantite dalla contrattazione collettiva nazionale.
Non è certo un caso che a cavallo degli anni ‘60 e ‘70 del secolo scorso le “gabbie salariali” (si chiamavano così le diversificazioni salariali territoriali) furono combattute e abbattute anche e soprattutto attraverso la lotta degli operai che, impiegati nelle fabbriche settentrionali, intuirono perfettamente che i bassi salari “calabresi” erano una minaccia anche per chi lavorava a Torino, Milano o Genova.
In sostanza queste misure avanzate o ventilate dal governo Meloni da un lato significano un ulteriore attacco alla spesa sociale, in particolare alla sanità e all’istruzione pubblica, già depauperate da anni di tagli e riforme al ribasso, a tutto vantaggio di scuole e sanità private. Dall’altro puntano a dividere ulteriormente e quindi a indebolire ulteriormente l’intera classe lavoratrice favorendone una forte frammentazione per vie territoriali, proprio in una fase in cui per difendersi dal capitalismo mondializzato sarebbe invece necessario iniziare preparare il terreno per una saldatura tra proletari al di là del colore della pelle, della religione, del sesso, dell’età e del territorio o della nazione di provenienza.
Iniziare a riflettere collettivamente sulla necessità di opporsi a tali iniziative governative è un primissimo passo per poter mettere in campo una propria efficace difesa.
ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA