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supplemento al n.41 di Che fare,

Inserto teorico


FEDERALISMO E COMUNISMO

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Tutti federalisti, anche all’estrema "sinistra".

     Federalismo è diventato ormai in Italia un termine magico di cui nessuno pare possa fare a meno. Se, in nome del federalismo spinto, Bossi vuole arrivare alla secessione, da destra come da sinistra gli arrivano tosto le bacchettate: ma questo non è il federalismo vero, dieci e lode, il bollino blu del federalismo genuino è nostro!
Persino Rauti pensa oggi ad una repubblica sociale federale, con Salò e Torpignattara in grado di esercitare in piena sovranità le proprie autonomie. Neppure Fini osa contraddire, lui, l’erede di un partito che ad ogni stormir di autonomia locale agitava il tricolore gridando all’unità della patria in pericolo. Anche Berlusconi (nonostante i suoi disegni ideali di riorganizzazione centralistica dello stato -persino dotati di un certo solido senso borghese-) non osa contraddire l’ola imperante.
Ma è proprio a sinistra che il federalismo impazza. Bassanini si vanta di essere "il ministro più federalista" dell’attuale governo. I "rossi" toscani non se ne sentono però soddisfatti: macché quadro unitario, in casa nostra vogliamo fare da soli, politica estera compresa! La piena autonomia regionale del Friuli-Venezia Giulia non piace a pidiessini e rifondatori perché costringerebbe "centralisticamente" entro gli stessi confini realtà diverse ed a vocazione autonoma, Friuli da una parte (o, meglio, varie fette di Friuli indipendenti e sovrane a sé) e Trieste dall’altra. E ci sono già dei pidiessini all’opera per creare una "cosa due" per realizzare questo disegno in opposizione alle romane (e quindi ladrone) Botteghe Oscure. Bassolino e Cacciari contestano: siamo ancora alle regioni, sia pure in formato ridotto? Non ci sta bene: rivendichiamo la sovranità dei Comuni, rivogliamo la Serenissima e il trono di Napoli!
All’estremissima sinistra (si fa per dire..., solo l’aggettivo è calzante, a designarne la quota di ridicolo e di vergogna) c’è la stessa gara per entrare nel Guinness dei primati del federalismo.
Autonomia Operaia afferma, contro "il centralismo burocratico e statalista, il mito unitario", espressione del "dominio reale sull’intera vita produttiva", che "il territorio deve acquistare un valore centrale, strategico" ed invoca "il federalismo degli autogoverni municipali" (da un documento dei "compagni dell’Arsenale Sherwood", Padova 28 agosto ’96). Cacciarate o caciarate?
Il coordinatore nazionale del Movimento Nonviolento, un tantino più "centralista", scrive alla Stampa (11 settembre ’96): "Condividiamo i principi di autonomia, indipendenza e libertà rivendicati dalla Lega Nord" e "confidiamo che la Padania possa costituire davvero esempio e guida per tutte le etnie italiane, che prima o poi saranno costrette a liberarsi da questo nostro potere statale centralista e partitocratico". La sola pregiudiziale che egli pone è quella del ricorso alle "tecniche della nonviolenza capitiniana e gandhiana" in luogo dei mezzi della violenza e dell’intolleranza. Basteranno "la disobbedienza civile, la noncollaborazione, lo sciopero, l’obiezione di coscienza e fiscale, ecc.". (Gli eccetera verranno poi da sé, bossoli compresi!).
Su Resistenza leggiamo: "L’80% di ciò che chiede oggi la Lega Nord è copiato da ogni programma democratico conseguente", dalla Comune di Parigi ai Soviet in URSS ed alle Comuni in Cina che "erano strutture di uno stato federale". Manca il restante 20% che, però, è l’essenziale per dei "veri comunisti" di tale calibro: "Nella società attuale non è possibile costruire uno Stato federale, dal basso in alto, sulla base del capitalismo". Bisogna, invece, sempre dal basso in alto, conquistarsi localmente dei poteri non capitalistici, e cioè "il diritto di amministrare quello che è alla base di tutto: la propria attività economica", ciò che comporta la "proprietà collettiva dei mezzi di produzione"... territorio per territorio.

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C’è un "unitarismo" che, forse, è più bestia del federalismo imperante.

     Solo pochissimi non ci sentono da quest’orecchio e, pur sempre federalisti, ma "unitari" e "solidali", suonano un’altra campana. Peggiore ancora, se possibile.
Sentite quest’appello di professori universitari capeggiati dal rifondatore Domenico Losurdo (Liberazione, 17 settembre ’96): contro l’"attacco alla Costituzione" del leghismo, legato "ad alcuni settori retrivi dell’Italia settentrionale" ed "agli interessi dell’imperialismo tedesco e del capitale finanziario internazionale" "facciamo appello alla sinistra... per la mobilitazione popolare sui seguenti obiettivi: l) la difesa dell’unità nazionale, che... è oggi un obiettivo "di sinistra" (utili le virgolette, n.)...; 2) la costruzione di un nuovo fronte antifascista, che riunisca tutte le forze democratiche contrarie al secessionismo (cioè della borghesia non "retriva", antitedesca, forse un po’ meno anti-USA, seriamente impegnata per la difesa e lo sviluppo di un proprio imperialismo, n.); 3) l’attivazione immediata della magistratura (nonché della forza pubblica e dell’esercito, se del caso, come precedentemente invocato sullo stesso giornale, n.)".
Non sappiamo se Losurdo vorrebbe attivare la magistratura ed il resto anche contro i propri compagni impegnati nel federalismo spinto (vedi in Toscana, dove Rifondazione è, proprio come partito, federata alla sinistra dell’ultra-autonomista Chiti), o se egli consideri questa forma di federalismo iper-jugoslavo compatibile con l’unitarismo statale. In ogni caso il messaggio è chiaro: unitarismo borghese al di sopra di tutto, spinto sino al riscatto delle bandiere nazional-imperialiste lasciate cadere nel fango dai settori borghesi "retrivi". Molto resistenziale, non c’è che dire... A quando il nuovo CLN con Bertinotti e Scalfaro, Agnelli e Cipputi, gli Stati Maggiori della Difesa e i GAP?
Posizioni del genere non saranno certamente in grado di fermare, neppure da un punto di vista borghese, l’attuale secessionismo, che è qualcosa di più e di diverso da una fantasia di settori "retrivi" di una destra borghese locale, perché trova le sue ragioni profonde nelle condizioni strutturali del capitalismo italiano e delle sue rappresentazioni politiche all’interno del quadro capitalistico internazionale, "globale". In compenso, però, potranno servire da arma contro l’autonomia di classe: sia per quel poco che varranno a spingere settori proletari a mettersi dietro il carro di una borghesia "unitarista" che la sinistra stessa dovrebbe promuovere ed inventarsi all’uopo; sia per la legittima, a questo punto, reazione dei soggetti proletari che vorrebbero mantenere in piedi il proprio antagonismo di classe salvo a smarrirlo poi (nel baillamme generale) nella deriva autonomistica che sopra s’è visto.
Noi l’abbiamo detto chiaramente: i marxisti sono schierati contemporaneamente contro il federalismo (in quanto borghese) così come contro l’unitarismo (borghese in pari grado).
Forse che non facciamo distinzione tra le due strade, le giudichiamo indifferenti e prive di rilievo concreto per il proletariato? Come, putacaso, per l’opposizione fascismo-democrazia che noi settari non avremmo a suo tempo colto?

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Falsa antitesi: federalismo o centralismo.
Vera antitesi: capitalismo o socialismo.

      Niente di tutto questo. Il dissidio c’interessa, eccome!, ma va chiarito ed affrontato alla nostra marxista maniera, che già da tempo immemorabile ha fatto i conti con l’uno e l’altro campionario delle bestialità qui esibite. Se avete pazienza ci spieghiamo subito, sia pur per sommissimi capi.
      Quando ci si chiede: "Ma voi siete per il centralismo statale o per il federalismo?" ci si pone un falso quesito. Il centralismo ed il suo contrario non sono due antitetici modelli di società tra cui ci sia dato scegliere, ma due forme di amministrazione della società presente che: 1) ubbidiscono in ogni caso all’obiettivo primario di accentramento di poteri borghesi contro il proletariato indipendentemente dalla loro efficacia o meno a promuovere il desiderato (dai sostenitori dell’una come dell’altra forma) pieno sviluppo capitalistico; 2) non è assolutamente detto che, di per sé, al di fuori del tempo e dello spazio, si contrappongano tra loro rispetto all’imperativo di una reale centralizzazione del capitale: in situazioni date, centralismo e decentramento (ai più svariati livelli) possono darsi benissimo il cambio, o combinarsi tra loro, per meglio adempiere a questa loro specifica funzione.
      La "scelta" dei comunisti non può essere che tra due sistemi antagonisti: capitalismo o socialismo. Col corollario conseguente: conservazione o rivoluzione.
      Solo su questa base si potrà poi discutere di quali debbano o possano essere le forme dell’organizzazione (non: amministrazione) sociale socialista. In ogni caso, prima di affrontare questo tema occorre essersi ben ancorati al contenuto di tale organizzazione, che sta nella presa in carico da parte dell’insieme della società delle potenzialità produttive per il soddisfacimento e l’allargamento razionale, pianificato (sì, non spaventatevi...) dei bisogni umani di questo stesso inscindibile insieme (non diremo "egualitarismo", perché questo termine, per l’uso inverecondo che se n’è fatto, puzza di cristianuccio o democostituzionale, ma comunitarismo umano, traducendo dal vocabolo marxiano Gemeinwesen); nella realizzazione di una produzione, quindi, non mercantile, il che comporta conseguenze fondamentali non solo sul versante della distribuzione, ma sulla stessa composizione qualitativa degli "oggetti d’uso" da produrre (con la drastica eliminazione della produzione socialmente tossica e nociva che attualmente ci appesta).
      Lo scrittarello di Resistenza sopra citato potrebbe arrogarsi il merito di dire quanto meno che il "vero federalismo" socialista è incompatibile con il presente sistema sociale. Ma il merito si trasforma nel suo contrario, sia perché l’orizzonte socialista viene fatto dipendere da una lotta "dal basso", localista, di progressive trasformazioni a partire dalle forme e non dalla sostanza (tratto tipico del riformismo, con un arretramento rispetto allo stesso riformismo secondinternazionalista, che coglieva, perlomeno, l’aspetto politico -e non, o non solo, movimentista- e centralizzato del problema); sia perché, come vedremo, il termine "federalismo" mal si attaglia a designare modi e contenuti dell’organizzazione socialista. E, soprattutto, perché non c’è una sola parola ad evocare l’orizzonte antagonista della produzione socialista. Sicché in buona sostanza, socialismo significherebbe produrre le stesse cose del capitalismo, possibilmente in più, per rendere tutti "egualitaristicamente" in grado (sui rispettivi territori...) di abboffarsene. Il tutto in linea col folle ideale superproduttivista dello stalinismo. Insomma: un capitalismo "socializzato". Né più né meno.

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Contro il capitalismo (sistema mondiale centralizzato), un unitario esercito centralizzato della rivoluzione.

     Orbene, se la questione è quella del rovesciamento rivoluzionario dei contenuti, e cioè dei rapporti sociali attuali, si tratta di vedere precisamente per quali vie esso possa darsi. Ma per stabilire ciò, occorre avere ben presente il quadro teorico complessivo che il marxismo ci dà del capitalismo e quindi della rivoluzione proletaria (per forza di cose delimitiamo qui il campo dei nostri interlocutori a coloro che abbiano già, in qualche misura, conseguito questo punto di partenza).
      Tutta l’opera di Marx si presenta come una spietata condanna a morte del capitalismo e, insieme, un’appassionata apologia del suo contenuto storicamente rivoluzionario. Rivoluzionario sotto un duplice ed inscindibile aspetto: in quanto distruzione di vecchi, sorpassati, reazionari ordinamenti sociali e in quanto realizzazione delle concrete basi materiali del socialismo chiamato ad eseguirne la condanna a morte.
      La socializzazione del lavoro e, con esso, lo sviluppo oltre ogni limite delle forze produttive, nonché la formazione, a ciò collegata, di una classe antagonista -il proletariato- estremamente diffusa e concentrata, resta un’acquisizione di partenza per noi. La catena di orrori che ha accompagnato l’espropriazione dei "liberi produttori individuali" e la distruzione, anche fisica, di vecchie culture (ed intere popolazioni), che Marx descrive a parole di fuoco nel capitolo del Capitale sull’origine del capitalismo, non ci può provocare rimpianto verso istituti economico-sociali morti e sepolti e che tali meritavano di essere, né, peggio, prospettarcene una riedizione riveduta e corretta (post-capitalismo come... risurrezione del precapitalismo in forme "nuove" e sotto "nuovi" cieli). L’oggetto della rivendicazione socialista, dicevamo, non è la redistribuzione della proprietà e, con essa, di poteri politici frazionati, ma la riappropriazione da parte della società dell’insieme della "proprietà" realizzata dal capitalismo per arrivare all’abolizione stessa della proprietà. Ogni e qualsiasi rivendicazione "territorialistica" del socialismo trasmette non solo un inganno quanto alle "forme" del socialismo, bensì quanto al contenuto di esso: l’ideologia delle "libere comuni associate" territorialmente (ma forse sarebbe più adeguato l’uso del maschile: "liberi comuni associati") è il corrispettivo dell’ideologia dei "liberi produttori" indipendenti e... concorrenziali con gli altri produttori di altri territori. Un "far da sé" ed un "vinca il migliore" regressivi rispetto al capitalismo.
      In stretta correlazione, il soggetto della rivoluzione socialista non è questa o quella frazione di proletariato che possa agire "autonomamente" su un "territorio" dato (magari per fare la Comune di Canicattì), ma il proletariato internazionale, perché esso è per definizione classe internazionale, così com’è stato prodotto dal capitalismo. L’un genere di totalità richiama l’altro: se la frammentazione dell’economia capitalistica per stati e centri di potere (legata allo sviluppo combinato e diseguale del sistema) non impedisce che ovunque nel mondo agiscano le stesse leggi capitalistiche (non diciamo: "allo stesso modo"), del pari la frammentazione del proletariato secondo la stessa logica, e persino all’interno di uno stesso "territorio", all’interno quindi della "stessa" classe localmente considerata, non impedisce che esso subisca l’oppressione di uno stesso e solo sistema unitario. Esso è già unito da un’identica condizione economico-sociale di fondo e se non lo è immediatamente, automaticamente, sul piano soggettivo (teoria, programma, organizzazione), proprio qui sta il compito dei comunisti. "Proletari di tutti i paesi, unitevi!" si disse nel 1848. Nel 1919 a Mosca si tradusse in pratica quest’appello con la formazione di un’Internazionale Comunista che aspirava a diventare partito unico mondiale (a meno che Losurdo non ci smentisca dimostrando che si trattava di una "federazione" copiata all’80%... dalla Lega) e ad istituire, sulle ceneri degli spezzati apparati di potere della borghesia, la dittatura del proletariato, la repubblica mondiale dei soviet proletari, nuovo organo di potere della rivoluzione socialista. Anche qui: sulle forme di funzionamento di un tale partito e di un tale stato si può discutere, e molto se ne discusse, ma, da marxisti (finché ce ne furono alla sua testa) in relazione a questo suo proprio contenuto, lontano le mille miglia dallo scimmiottamento dell’accentramento statalista borghese quanto, e più, dal suo rovesciamento all’indietro localista, autonomista.

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Marx mazzola i precursori ("socialisti") dell’autonomismo.

     Nel Manifesto, al capitolo sulla "letteratura socialista", Marx ha in anticipo e definitivamente schiaffeggiato quest’utopia reazionaria ricollegandola alle sue materiali basi piccolo-borghesi. Leggiamo.
      La borghesia non ha solo rovesciato l’aristocrazia feudale, ma anche i borghigiani medievali e il piccolo ceto rustico, e cioè la "piccola borghesia medievale". Questo processo si è verificato con tempi e modalità differenti. A metà ‘800, nei "paesi in cui il commercio e l’industria sono meno sviluppati, questa classe (la piccola borghesia medievale -n.) vegeta ancora accanto alla borghesia che sta sviluppandosi". Nei paesi, invece, in cui la civiltà moderna si è già più ampiamente sviluppata "si è formata una nuova piccola borghesia, che oscilla tra il proletariato e la borghesia e si viene sempre ricostituendo come parte integrante della società borghese, i cui componenti però, continuamente ricacciati nel proletariato per effetto della concorrenza, per lo sviluppo stesso della grande industria, vedono avvicinarsi un momento in cui spariranno completamente come parte autonoma della società odierna (attenti a questo "come" della sparizione!, n.)". E si hanno poi paesi, come la Francia di allora, "dove la classe rurale forma metà della popolazione".
      Queste forze sociali costituiscono la base dell’"anticapitalismo" del socialismo-piccolo borghese:
      "Era naturale che gli scrittori i quali scendevano in campo contro la borghesia a favore del proletariato applicassero nella loro critica del regime borghese la scala del piccolo borghese e del piccolo possidente contadino, e che pigliassero partito per gli operai dal punto di vista della piccola borghesia".
      (Siamo al 1848 e Marx può ammettere, com’è sacrosanto, che questi "scrittori", tra i quali si cita ad esempio il Sismondi, si potessero definire schierati a favore del proletariato, socialisti. Non potremo dire lo stesso di chi, ad un secolo e mezzo di distanza, torni indietro a categorie oramai definitivamente cancellate dalla storia).
      Nella fase prima dello sviluppo capitalistico e della conseguente formazione del proletariato moderno, il socialismo piccolo-borghese si conquistò dei meriti quanto alla critica degli effetti del capitalismo (ancora agli albori), ma non poteva rappresentare la risposta positiva ad esso che la scienza marxista ha potuto dare:
      "Questo socialismo anatomizzò molto acutamente le contraddizioni esistenti nei moderni rapporti di produzione. Esso mise a nudo gli eufemismi ipocriti degli economisti. Esso dimostrò in modo incontestabile gli effetti dell’introduzione delle macchine e della divisione del lavoro, la concentrazione dei capitali e della proprietà fondiaria, la sovrapproduzione, le crisi, la rovina inevitabile dei piccoli borghesi e dei piccoli contadini, la miseria del proletariato, l’anarchia della produzione, le stridenti sproporzioni nella distribuzione della ricchezza, la guerra industriale di sterminio fra le nazioni, il dissolversi degli antichi costumi, degli antichi rapporti di famiglia, delle antiche nazionalità.
      "Quanto al suo contenuto positivo, però, questo socialismo o vuole ristabilire i vecchi mezzi di produzione e di scambio e con essi i vecchi rapporti di proprietà e la vecchia società, oppure vuole per forza imprigionare di nuovo i moderni mezzi di produzione e di scambio nel quadro dei vecchi rapporti di proprietà ch’essi hanno spezzato e che non potevano non spezzare. In entrambi i casi è, ad un tempo, reazionario ed utopistico".
      "Le corporazioni nella manifattura e l’economia patriarcale nell’agricoltura, queste sono le sue ultime parole.
      "Nella sua evoluzione ulteriore questa scuola finisce in un vile piagnisteo".

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Marxismo contro proudhonismo

     Ma fin dalle sue origini il marxismo ha dovuto ingaggiare una battaglia a tutto campo anche con un’altra sorta di "socialismo" a questa apparentata quanto a sostanza di classe piccolo-borghese, ma ancora più pretenziosa nel suo intento di costituire una soluzione globale delle contraddizioni del capitalismo "più radicale" di quella comunista, ed a questa anzi alternativa: il "socialismo libertario ed autogestionario" di Proudhon, padre d’una lunga progenie di riformismi e di riformisti.
      La "critica" proudhoniana della società borghese, che pur è in grado di cogliere il contenuto oppressivo della sopravveniente dominazione capitalistica, e pur manifesta la volontà di reagire ad essa, rimane tuttavia totalmente impigliata nelle categorie borghesi. E, peggio, è una critica del capitalismo svolta con la testa ed il cuore rivolti ad un sistema precapitalistico da riscattare per la realizzazione del "vero socialismo". Una critica incapace di cogliere il dato rivoluzionario del capitalismo, che rompe il vecchio isolamento (relativo) delle singole unità produttive, la precedente stagnazione, e socializza il lavoro a scala universale, e solo a questa stregua rende realmente possibile il socialismo (frutto e conseguenza del capitalismo stesso, da cui nasce e di cui rappresenta la dialettica negazione, oppure socialismo non è).
      Alla concentrazione e centralizzazione capitalistica il proudhonismo vorrebbe rispondere contrapponendovi le libertà ed il "comunitarismo" del piccolo produttore espropriato e delle comunità locali, quindi: con un passo indietro rispetto al concreto evolversi storico. Dovrebbe trattarsi di una "riappropriazione" (sebbene, idealmente, riformata) di quanto il capitalismo va -utilmente- cancellando, secondo la classica visione anarchica, corrispettivo ideologico degli interessi materiali del piccolo, "libero" produttore.
      Al centro di essa sta, come del resto nel sottofondo "filosofico" di ogni specie di autonomismo "anti-centralistico", l’individuo, il "libero arbitrio" dell’uomo-individuo. Che nella società "socialista" immaginata da Proudhon si materializzerebbe nel "libero" scambio (mercantile) tra l’individuo-venditore e l’individuo-compratore, e tra le "libere" comunità locali da essi costituite. Un tale scambio avverrebbe sulla base di un "nuovo" criterio di distribuzione del prodotto sociale, laddove invece la organizzazione della produzione sociale continuerebbe a darsi fermissimamente su... anarchiche basi (micro)mercantili. Il "nuovo" criterio "anti-capitalistico"? Il valore di scambio delle merci -qui la prevista soluzione degli "inconvenienti" propri del capitalismo- dovrebbe rapportarsi "veramente" alla quantità di lavoro in esse contenuta, ed il reddito globale prodotto dovrebbe esser ripartito in modo "veramente equo" tra tutti i produttori. La protagonista di tanta "rivoluzione economica" (senza alcun bisogno di rivoluzione sociale e politica, una "rivoluzione" dolce, quindi, ideale, una rivoluzione senza rivoluzione, insomma: una riforma -utopistica e antistorica- del capitalismo sulle sue stesse basi) sarebbe l’"associazione reciproca" dei produttori salariati, cioé, alla fin fine, la piccola impresa, se non proprio una riesumata bottega artigiana, condotta, "auto-gestita", su basi integralmente mercantili, dagli... operai.
      Nella magnifica Miseria della filosofia Marx dà a queste fantasticherie passatiste tutt’oggi riruminate da tanto federalismo "di sinistra" (e sia pur senza più alcuna velleità neppure verbale di socialismo, iddio ne scampi!), una delle sue risposte definitive. Che giova richiamare anche nelle premesse che vanno a colpire, insieme con le tesi politiche, la stessa concezione dell’uomo e della società propri del federalismo (e dell’anarchismo).
      Nel "mondo reale" della società borghese, egli afferma, non s’ha modo di imbattersi in nessuno dei personaggi immaginari della commedia proudhoniana; men che meno in liberi individui agenti per conto di Sua Maestà Imperiale il Libero Arbitrio (e così pure accadrebbe nel mondo puramente ideale partorito dall’involuto cervello piccolo-borghese). Vi si incontrano, bensì, produttori e consumatori, ma essi sono materialmente "determinati dalla (loro) posizione sociale, la quale dipende anch’essa dall’organizzazione sociale nel suo complesso". Le relazioni effettivamente esistenti tra gli uomini in carne ed ossa sono relazioni sociali; non rapporti "tra individuo ed individuo" liberi di auto-determinarsi da sé stessi, bensì rapporti tra classi antagoniste, tra -se proprio li si vuol cogliere nella loro fisica immediatezza- operaio e capitalista, contadino e proprietario terriero, etc. E questi rapporti, che costituiscono il modo di scambio delle forze produttrici (da cui dipende il modo di scambio dei prodotti), sono non solo condizionanti i singoli "liberi individui", bensì essi stessi storicamente determinati dal grado di sviluppo raggiunto dalle forze produttive associate del lavoro.
      Questo grado, dice -nell’anno di grazia 1847!- la teoria che sarebbe in arretrato sui fatti "ultimi" (ed a cui dovrebbero esser versati, se il mercato fosse "veramente" equo, "veramente" proudhoniano, tutti i diritti d’autore intascati dagli Ohmae, dai Reich e dagli altri "scopritori" della mondializzazione del capitalismo, mentre invece siam qui, come nonno Karl, a combattere con la lira), è quello di una divisione del lavoro imperniata su una "grande industria distaccata ormai dal suolo nazionale, (che) dipende unicamente dal mercato mondiale, dagli scambi internazionali, da una divisione del lavoro internazionale". Già, perché lo sviluppo capitalistico porta con sé la "riunione", la concentrazione delle condizioni oggettivate del lavoro prima frammentate, il "monopolio moderno" di esse, che manda all’aria per sempre la possibilità che s’avveri il sogno (o l’incubo?) di un ritorno alla piccola produzione artigiano-contadina del Medioevo con tutti gli annessi e connessi.
      Se davvero si vuole "il progresso senza l’anarchia" capitalistica, è necessario, afferma Marx, "abbandonare gli scambi individuali" e la produzione mercantile. Affrontare e battere il capitalismo centralizzato. Risolvere per via rivoluzionaria (una rivoluzione vera, "il combattimento o la morte"!) la contraddizione antagonistica tra la concentrazione e l’accentramento borghese e l’accentramento delle forze di classe del proletariato, prodotto dallo stesso capitalismo -e che di esso costituisce l’antitesi-, nella sintesi del socialismo. Andando non al di qua, ma al di là del capitalismo.

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Partito e Stato del proletariato, armi decisive del passaggio rivoluzionario al socialismo

     Ma questo passaggio esige come conditio sine qua non la costituzione del proletariato in classe, in partito. E dunque, laddove Proudhon scartava come mezzo d’azione del salariato perfino le coalizioni operaie immediate (anche in questo lo seguono, e lo oltrepassano, i federalisti "di sinistra" di oggi, cantori delle specificità dei "territori" da "liberare" interclassisticamente tutti insieme, sfruttati e sfruttatori, da oppressori malvagi che sono sempre ad essi esterni), Marx oppone la necessità dell’azione della "classe per sé stessa", della "lotta di classe contro classe", della "lotta politica" violenta, della spaccatura in profondità del "territorio" sociale capitalistico, della "organizzazione degli elementi rivoluzionari" della classe oppressa, della guida del partito di classe per la rivoluzione proletaria. Che è "rivoluzione totale", è questa la espressione di Marx, in quanto è finalizzata, a differenza della "rivoluzione" proudhoniana, ad un "cambiamento di tutti i rapporti sociali", ad una società senza antagonismi di classe (l’espropriazione degli espropriatori non può avere altro significato), e perciò stesso -nel suo sviluppo ulteriore- non più bisognosa di "un potere politico propriamente detto". Ed è soltanto in questo nuovo contesto di organizzazione sociale liberato dalle catene degli "scambi individuali" e della legge del valore, che potrà realizzarsi una "libertà di ciascuno e di tutti" diversa dalla borghese "libertà" (leggi: coazione) di gareggiare in affari, fregarsi e scannarsi l’un con l’altro (e l’un "territorio" con l’altro).
      Vi è qui già tutta intera, in materia di programma, di economia, filosofia, storia e politica, la replica comunista, di ieri e di sempre, al federalismo, all’autonomismo, all’individualismo "libertario". E per intenderlo ancor più a fondo è lettura indispensabile il testo di Bordiga, I fondamenti del comunismo rivoluzionario marxista nella dottrina e nella storia della lotta proletaria internazionale.
      In esso si mette in massima evidenza, nella polemica tra marxismo e proudhonismo, in stretta congiunzione con quella della "essenza" del capitalismo e del comunismo come modi di produzione sociali, la questione del potere. E’ infatti non secondario aspetto della concezione di Proudhon e di quante ad essa si rifanno il prospettare, come dicevamo, una "rivoluzione economica" "egualitaria" senza la necessità di passare attraverso una rivoluzione politica anti-capitalista, un "movimento sociale" senza un corrispondente "movimento politico".
      Spiega Bordiga: Proudhon rifugge dal considerare insostituibili per "abolire la proprietà privata" il Partito politico e lo Stato dittatoriale di classe proprio "in quanto la sua posizione della trasformazione sociale è monca, non contiene il superamento integrale dei rapporti capitalisti di produzione, è concorrentista, è localmente cooperativa, resta bloccata alla visione borghese della azienda e del mercato. Egli gridò che la proprietà è un furto (ciò da cui ben si guardano il 99,9% degli autogestionari contemporanei -n.), ma il suo sistema, restando un sistema mercantile, resta un sistema proprietario e borghese. La sua miopìa sulla rivoluzione economica è la stessa dei moderni ‘aziendisti’, che ripetono in forma meno vigorosa la vecchia utopia di Owen che voleva liberare gli operai dando loro la gestione della fabbrica in piena società borghese. Si chiamino questi signori ordinovisti all’italiana o barbaristi alla francese (il riferimento è all’Ordine Nuovo di Gramsci e alla formazione "neo-marxista" transalpina "Socialisme ou Barbarie" -n.), uno stampo proudhoniano li accompagna nella remota origine, e come a Stalin si potrebbe loro lanciare l’invettiva: O miseria degli arricchitori (del marxismo -n.)".
      Lo stampo marxista, invece, una volta inchiodato saldamente il "tema" della natura non mercantile della organizzazione socialista della società, prevede come essenziale -per il trapasso dal capitalismo ad essa- l’intervento del Partito e dello Stato del proletariato rivoluzionario. Ed impone la lotta più vigile non solo contro ogni forma di mercantilismo mascherato ed ogni fantasia di riappropriazione parcellizzata dei mezzi di produzione socializzati dal capitalismo, ma anche contro qualsiasi ipotesi e pratica che annacqui il ruolo del partito come "primo organo della rivoluzione". E dunque lo smantellamento delle sempre ritornanti bagolate pan-sindacaliste, aziendaliste, consiliariste, laburiste, comunaliste, e così via.
      La lotta per la distruzione del capitalismo non può esser fatta da truppe proletarie o, peggio ancora, genericamente "popolari", federate sulla base di interessi immediati, locali, di settore, d’impresa, di nazione; esige la organizzazione unitaria internazionale della classe, senza di cui è destinata in partenza a mancare l’obiettivo. Al "centro dittatoriale del capitale" può rispondere efficacemente solo un "centro dittatoriale del proletariato" (e si comprenda che la diversa qualifica di classe del potere implica "qualcosina" di diverso anche sulle forme della dittatura).

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Quadro nazionale e internazionalismo

     Non si può certo dire, dunque, che la discussione sul federalismo, le autonomie locali, etc., sia estranea alla storia del movimento operaio. Soltanto, essa si è presentata, nella sua invariante sostanza, con modalità specifiche corrispondenti ai differenti stadi di sviluppo del capitalismo (e del proletariato).
      Nella fase costitutiva del proletariato, questo non poteva che combattere -assieme alla borghesia rivoluzionaria- per la trasformazione rivoluzionaria dei vecchi rapporti sociali precapitalistici, e ciò non poteva, di regola, avvenire che dandosi un’ossatura centralizzata alla scala della propria nazione, del proprio stato.
      Il proletariato combatte dapprima entro i rispettivi quadri nazionali. Lo stalinismo ha contrabbandato questo "dapprima" come l’essenza stessa della battaglia socialista, sino a fare del proletariato una "classe nazionale" per l’edificazione di singoli "socialismi" in singoli paesi o, in mancanza di ciò, da Togliatti in giù, per singole "democrazie progressive" dichiaratamente nazional-borghesi "popolari".
      Non ricopieremo tutto il Manifesto per dimostrare come questa neo-teoria mal scopiazzata dall’agenda borghese si contrapponga da cima a fondo all’impostazione di Marx. Ci basterà richiamare, dopo quanto già si è ricordato, la prefazione di Engels all’edizione tedesca del 1890 del Manifesto stesso: "Oggi... il proletariato europeo e americano passa in rassegna le sue forze, per la prima volta mobilitate come un solo esercito, sotto una sola bandiera e per un solo scopo immediato... (mostrando) chiaramente ai capitalisti e ai proprietari terrieri di tutti i paesi che oggi i proletari di tutti i paesi si sono di fatto uniti".
      La lotta proletaria comincia sul terreno dei singoli paesi a misura che su questo terreno il capitalismo si crea la propria iniziale ossatura. Ma come "il bisogno di sbocchi sempre più estesi per i suoi prodotti spinge la borghesia per tutto il globo terrestre" e "dappertutto essa deve ficcarsi, dappertutto stabilirsi, dappertutto stringere relazioni" sì che essa ha, nel tempo, "reso cosmopolita la produzione e il consumo di tutti i paesi" e "con gran dispiacere dei reazionari ha tolto all’industria la base nazionale", allo stesso modo il proletariato, prodotto della rivoluzione borghese, dappertutto si ficca, si stabilisce, stringe relazioni perdendo la sua base nazionale, con gran dispiacere degli... stalinisti e riformisti in genere.
      Se in tutto il mondo l’antagonismo borghesia-proletariato chiama quest’ultimo alla lotta, la risposta non può essere quella del "fai da te", perché tu, proletario jugoslavo, iracheno, negro americano, italiano etc., non ti scontri lì con un nemico localizzato, ma con un sistema mondiale di oppressione. Chi rilutta a questa, che è una conseguenza del processo di sviluppo del capitalismo, non può che cadere nella pratica che ci è quotidianamente sotto gli occhi: quattro parole di solidarietà generica con gli oppressi di casa altrui (sempre che si riesca nell’impresa di intravvedere un tale soggetto!), protesta indolore, semmai, per l’intromissione dei paesi borghesi che "non c’entrano" con quella casa per permettere il costituzionale rispetto delle regole del gioco colà (a cominciare dal "nostro" -altamente responsabile!- non c’entrarci). E più: siccome dal quadro mondiale comunque non si scappa, ecco che -l’abbiam visto in particolare per la questione jugoslava- si finisce per sostenere (come la corda l’impiccato...) gli "autonomi" diritti ed interessi degli... stati richiamandosi all’intervento, mezzo "umanitario" e tre quarti militare, dell’ONU o del nostro stesso stato per ristabilire laggiù le regole di "convivenza" e di "pacifica competizione". Tutto, fuorché l’intervento nostro, di classe.

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Stalinismo, atto primo: l’autonomismo come "tattica rivoluzionaria"

     Lo stalinismo degli esordi non osava ancora gettare al macero la parola d’ordine dell’internazionalismo, ma la concreta strada intrapresa sulla via della "costruzione del socialismo in un solo paese", l’URSS, e della rivoluzione socialista negli altri paesi per vie altrettanto nazionali, comportava già in nuce tutti i passaggi ulteriori. La deviazione si mostrava, all’immediato, sul piano delle tattiche; il rovesciamento di principio sarebbe venuto, del tutto coerentemente, in appresso.
      Accadde così in Italia che la neodirezione centrista gramsciana del PCd’I cominciò a scorgere come possibilità di una rivoluzione "italiana", in cui tuttora si credeva come "tassello" del socialismo mondiale, il corteggiamento dei vari movimenti autonomistici in campo, a cominciare da quello sardo. Il ragionamento era questo: per scuotere il potere centrale di classe fascista può essere utile smuovere l’anticentralismo delle istanze nazional-democratiche (borghesi, quindi) dei sardi, dei siculi, dei sud-tirolesi etc. Occorre costituire con queste istanze un "blocco progressista" quale presupposto della successiva spallata rivoluzionaria.
      (Notiamo qui, a memoria del prof. Losurdo, che Gramsci non nutriva perlomeno alcuna viscerale affezione per lo stato unitario, che sognava di disfare per poi ricostruire, magari, in veste socialista)
      Senonché, questa brillante "tattica" non teneva in alcun conto l’esigenza della vera tattica marxista di essere coerente ai propri presupposti e l’influenza di rimando che ogni tattica esercita su chi la promuove. Il "blocco" con gli autonomisti significava di per sé l’assunzione da parte del partito di esigenze anticentraliste espressione di strati sociali antiproletari e con petizioni, quand’anche spinte al massimo di radicalismo populista, utopiste e reazionarie (sempre se stiamo al Manifesto). Di più, la dichiarata disponibilità del PCdI degenerato a sostenere le rivendicazioni di queste forze trovava un muro invalicabile di riluttanza nella loro avvertita coscienza dell’alterità del programma comunista (e dell’esercito di classe comunista) rispetto ai propri orizzonti. Autonomismo antimussoliniano sì, per intenderci, ma -per tutte le tendenze autonomiste- prima e soprattutto anticomunismo da cima a fondo. Il contenzioso con il fascismo riguardava le forme di una determinata amministrazione del sistema, in nome della "specificità" nazionale, territoriale, di detta amministrazione, nel nome di un "proprio" capitalismo "autocentrato". Nei confronti del comunismo l’opposizione riguardava esattamente i contenuti di sistema. Perciò non se ne fece niente, con tant’amarezza per i super-tattici. Ovvero: si fece sì che la manovra "tattica", anziché conquistare forze esterne alla causa della rivoluzione comunista, la penetrasse ed infettasse dal di dentro.
      Nel ’45, il Togliatti della "democrazia progressiva" rovesciava l’impostazione di Gramsci -tirando le estreme conseguenze dello snaturamento del partito da lui iniziato-. La escludeva sul piano "tattico" in quanto promotore di un rovesciamento di principii.
      Al V Congresso del PCI, primo del dopoguerra (1945), Palmiro disse: ogni rivendicazione autonomista è da escludere in quanto mira oggettivamente ad indebolire il grado di compattezza e di forza dello stato nazionale borghese, che il proletariato, dal canto suo, si deve ben guardare dall’intaccare, ma a cui deve aderire come "responsabile classe nazionale" concorrente alla sua gestione. In principio era lo stato (borghese), ed alla fine ad esso si deve ritornare.

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Stalinismo, atto secondo: l’autonomismo come principio. Dal PCI di Togliatti...

     Più tardi, con l’affermarsi del neo-centralismo DC, il PCI muta di nuovo rotta: lo stato in mano ai reazionari soffoca le autonomie locali. Via quindi con la riscoperta di queste ultime. Ma, si badi bene!, non per ritornare alla vecchia tattica gramsciana di attacco rivoluzionario al sistema, bensì per promuovere un progetto di massima efficienza capitalistica, borghese del sistema-Italia sulla base del "decentramento". Si scopre che il centralismo "deprime" le autonome capacità produttive regionali che si vorrebbero capitalisticamente esaltare (sempre in nome di una più grande Italia) e questo come garanzia degli interessi "anche" dei proletari. Non contento di aver sottratto il proletariato italiano all’idea "cosmopolita" (termine usato come sinonimo della peggior aberrazione!) dell’internazionalismo, il PCI lo vuole ora ben "compartimentato", rigorosamente alla coda delle locali borghesie produttive con cui stringere un bel patto... di sottomissione.
      Di recente, sull’Unità, è scappata fuori una grossa verità: se la Lega non ha (ancora) messo radici nel triangolo rosso emiliano-tosco-umbro, è perché lì il PCI prima, il PDS poi (con Rifondazione al carro) ha messo in piedi un massimo di federalismo di fatto in grado di promuovere uno sviluppo acconcio del capitalismo "locale" nel quadro, ed a favore, del capitalismo nazionale come insieme, in una combinazione di decentramento ed accentramento. Solo che, oggi, questo modello classicamente togliattiano di "alleanza" tra proletari, ceto medio e borghesia produttiva è rimesso in causa dalle crepe dello stesso sistema italiano globale. L’alleanza interclassista e il rapporto "contrattuale" regioni-Stato viene anche qui al dunque nel terremoto che investe l’intiera struttura produttiva, sociale e politica dello Stato. Che fare allora? Le forze dirigenti locali, in quanto rispondenti alle esigenze della rete locale di interessi borghesi che si è andata tessendo, sembrano correre verso una ulteriore "leghizzazione" in proprio. Classe dirigente nazionale sì, ma... del triangolo, in concorrenza con la Lega sul suo stesso terreno. Da partito "nazionale" del proletariato si è finiti, come si doveva, a partito locale della borghesia. Amen.

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...al sessantottismo di tutte le salse.

     Il radicalismo piccolo-borghese sessantottino riprenderà a modo suo questi temi. Qualche sparuta frangia "maoista" rispolvererà la tattica gramsciana dell’alleanza con l’autonomismo in funzione anticapitalista (sino a sostenere, ad esempio, il secessionismo bombarolo sud-tirolese come "arma di attacco allo stato"). Altre forze, maggioritarie nel "movimento", cominceranno a riprendere l’idea dell’autonomismo quale modello di costruzione di un microsocialismo in proprio, sulla linea dei Sismondi, dei Proudhon e dei Bakunin, diffondendo l’idea, più che mai utopistica e reazionaria (e da vile piagnisteo), che le piccole comunità locali possano liberarsi di per sé in quanto tali (senza andar troppo per il sottile sui connotati sociali e di potere interni ad esse) dal giogo alienante del capitalismo ritornando indietro da esso e che tutto ciò costituirebbe una garanzia di potenziale "socialismo"... precapitalistico. Il tutto presupponendo che la "piovra centralista" se ne stia nel frattempo a guardare.
      Sergio Salvi ha aperto, come teorico, la pista con i suoi Le lingue tagliate e Le nazioni proibite (pur ricchi di dati anche per noi preziosi e di denunce incontrovertibili quanto agli effetti di sradicamento ed annichilimento prodotti dal capitalismo sulle culture e le nazioni da esso assorbite o dominate), col solito difetto di scambiare come causa dei guasti capitalistici una sua forma "centralistica", cui sardi, friulani e quant’altri (in quanto "popoli" classisticamente indistinti) potrebbero sottrarsi riformisticamente per riproporre il capitalismo stesso sotto altre forme.
      DP raccolse sul Quotidiano dei lavoratori la prima sistemazione "teorica" del proprio ramo friulano "federato" sul "colonialismo italiano" con una conseguente rivendicazione già indipendentista da costruire assieme alla peggior feccia sociale, quella raccoltasi attorno al Movimento Friuli e dominata da notabili e preti locali. (Questa specie di "compagni" hanno coerentemente conclusa la loro parabola tra i Verdi iper-autonomisti e sono oggi vicini alla Lega, casomai con la rivendicazione antibossista di una "piccola patria" friulana o sub-friulana indipendente anche dalla Padania).
      In Sicilia un ramo di DP accese le micce del neo-secessionismo isolano, proponendo sul suo organo Terra e liberazione una riedizione di "sinistra" del vecchio Movimento Indipendentista Siciliano. A quanto ci risulta, costoro sono attualmente federati a Socialismo Rivoluzionario, l’organizzazione nota per la difesa ad oltranza (da parte della NATO) del regime di Izetbegovic in nome dell’"autodeterminazione (a stelle e striscie) dei popoli".
      E si potrebbe continuare per un bel po’.
      Torniamo a dirlo, a scanso di equivoci: molte delle denunzie relative agli effetti della dominazione capitalistica con centro a Roma, del carattere estremamente prevaricatore dell’unificazione formale del paese da essa compiuta, delle distorsioni inerenti ad uno "sviluppo combinato e diseguale" giunto in Italia al parossismo della diseguaglianza interna, sono perfettamente fondate. Il guaio è che a ciò si reagisce non individuandone la causa reale, cioè il capitalismo in quanto sistema mondiale (a cui la stessa "astrazione nazionale" Italia appartiene in subordine), ma, al solito, le corrigende forme, insiste nel sistema. E, quel che più importa, non si vede nel proletariato unito -al di là delle linee territoriali e delle specifiche sue condizioni in cui lo si vuole dividere- il soggetto dell’unica risposta possibile, il socialismo, ma, conformemente alla base ideale di riferimento sociale e politico, si individua il soggetto del "cambiamento" nell’indistinto popolo, borghesi e proletari insieme, quasi fossimo tornati alla fase risorgimentale del capitalismo.

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Il federalismo della attuale "sinistra" è al di sotto di quello bossiano.

     Bossi sopravanza di cento e una spanna questi terribili "rivoluzionari", dal momento che posiziona il problema del secessionismo padano sul terreno reale della "globalizzazione mondiale", affidandone senza remore la guida alla borghesia locale con la proposta al locale proletariato di mettersi alla coda di essa, chiuso in corporazione del capitale, con la promessa di una (dubitabile) partecipazione agli utili.

Ma più in generale tutto il federalismo "di sinistra" è una sciocchezza immonda rispetto a quello leghista. Agitando la parola d’ordine della secessione padana, Bossi sa benissimo, almeno, che non si tratta di immaginarsi un "piccolo è bello" al di fuori del mercato mondiale e delle sue leggi, ma di centralizzare delle forze economiche padane (giocando sui risultati positivi dello sviluppo combinato e diseguale interno e tentando di scaricarne altrove i costi) per agganciarsi al treno europeo, cioè alle sue maggiori locomotive. "La Padania serve per entrare sul serio in Europa", "per affrontare le sfide della globalizzazione", egli dice. O ancora: "meglio una Padania indipendente e al traino della Germania e soci, che un’Italia condannata alla terzomondializzazione. Il quadro è -capitalisticamente- chiaro e preciso, al punto che lo stesso Bossi non si nasconde il pericolo, insito nelle leggi di movimento del capitale, di un’esposizione della futura Padania alla "colonizzazione" addirittura da parte dei maggiori partner, e non manca di rodomontare contro una tale minaccia. Casomai, è proprio Bossi a mettere in guardia contro lo stupido localismo, diffuso nel Nord-Est, che basa tutti i suoi calcoli sul fatturato immediato del territorio o dell’azienda x. E, infatti, questo o quel padroncino, questo o quel politico, e buona parte della "sinistra" (inclusi gli avanzi dell’Autonomia) gli imputano proprio un eccesso di... centralismo. Non sarà meglio che ognuno si tenga e gestisca le proprie gallinelle dalle uova d’oro, vuoi che siano le aziende tessili "che tirano", o la città turistica da ingrassare ulteriormente, o -perché no?- finanche i micro-ghetti in cui si compravendono merci "alternative"?
      In un mondo in cui con un semplice input al computer si smuovono tonnellate di miliardi, ci si appropria in un sol colpo delle ricchezze prodotte da milioni di individui e si riducono alla fame masse sterminate di sfruttati; in un mondo in cui alle armi del capitale concentrato rispondono immediatamente le flotte navali di guerra e le rampe lancia-missili; in un mondo del genere è pura follia pensare che la soluzione agli "squilibri del sistema" (mai messo in causa) si possa rimediare barricandosi in casa propria, e in una casetta sempre più piccola, come i tre porcellini a rischio di lupo cattivo. Il lupo è già in casa vostra, compari!
      Non è pensabile che non lo sappiano certi soloni dell’economia e della politica. Ma: primo, chi nella borghesia spinge per il federalismo ha già messo in conto di affittarsi come succursale di servizio di altre potenze (che non saranno, per non dispiacere ai Losurdo e a Bertinotti, i terribili tedeschi, ma, magari!, gli innocui States; questo è successo chiaramente in Jugoslavia, per esempio). Secondo: se non si può sfuggire all’insfuggibile, cioè alla morsa della "mondializzazione", si può però ben tentare di sfuggire al pericolo dell’antagonismo "mondializzato" del proletariato, frammentandolo in una rete (solo apparentemente) locale di interessi borghesi, a cui vincolarlo come "cointeressato". L’azienda tal dei tali, e l’intera azienda-Stato, si sa benissimo come dipenda dal gioco degli interessi (non solo economicamente, ma politicamente e militarmente) concentrati a scala internazionale; l’importante è che il proletariato "locale" non si senta dipendente dai suoi specifici interessi di classe concentrandosi alla stessa, ed opposta, scala.
      (Bossi, tentando di promuovere un "sindacalismo padano", mira essenzialmente a questo, buon scolaro del corporativismo fascista, -il cui contenuto riverniciato si è totalmente trasmesso, potenziato, nel post-fascismo. Ma non diversa strada imboccano, sostanzialmente, le "sinistre", che, di fatto, lavorano a condizionare, anche legislativamente, le "fortune" operaie alle sorti della regione, del "territorio", dei "propri" settori od aziende. Con una spruzzata di "solidarismo" che non guasta mai, del tipo di quella che si è vista al convegno della FAO a Roma...)

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In sintesi

Riassumiamo, per avviarci a concludere:
      1) L’unificazione statale capitalista è il corrispettivo della diffusione dei rapporti economico-sociali del modo di produzione capitalistico che assorbe, assoggetta, comprime spazi sempre più vasti al dominio delle proprie leggi ed, oggi, lo stesso stato nazionale non rappresenta che un tassello di un sistema sociale di produzione mondializzato, globale.
      2) Ogni tipo di unificazione statale capitalista comporta aspetti combinati e diseguali tali da suscitare la reazione dei settori sfavoriti, ma una risposta a ciò è possibile solo aggredendo i nodi di classe del sistema su un terreno di classe.
      3) L’autonomismo spinto, se del caso, sino al secessionismo non è giammai un dato classisticamente "neutrale": di esso possono farsi alfieri settori di microborghesia nazionale decisi a ricollocarsi diversamente nel quadro comunque globale del sistema da cui si sa che non ci può sottrarre volgendo la barca all’indietro, quindi come pedine del sistema capitalistico internazionale, con un grado ulteriore di accentramento e divaricazione antagonista "in proprio"; non possono in nessun caso farsene fautori i comunisti, per i quali la sola risposta alla mondializzazione del capitale consiste nel rovesciarle contro l’internazionalismo proletario.
      4) Il problema del superamento delle diseguaglianze, della privazione o compressione dei diritti "nazionali" (cultura, lingue...) può essere impostato solo dal socialismo in quanto sistema sociale non graduato sulle leggi della produzione mercantile, del profitto, della concorrenza spietata e dei knut di ogni genere.
      A questo punto, e solo a questo punto, potremo parlare dei modi in cui si realizzerà la società socialista.

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L’auto-attività delle masse nel socialismo e l’esperienza "sovietica"

     Si è detto più volte: il socialismo presuppone un inventario ed un piano dell’insieme delle risorse disponibili in mano alla società collettiva una.
      Significa questo che tutto si farà dal centro o dall’alto? La domanda-protesta presuppone un rimando polemico a quella che è stata la "pianificazione" sovietica. Non vedete come lì, in conseguenza di ciò, tutto è andato a catafascio?
      La nostra risposta è scritta da decenni: in URSS non si poteva pianificare (e non si è pianificato) socialismo, ma unicamente centralizzare e promuovere rapporti mercantili di produzione, un immenso industrialismo che, nelle condizioni date, doveva forzatamente prendere l’aspetto del centralismo statalista più spinto. Ma il capitalismo -nostra tesi centrale- è per sua natura impianificabile. Di qui la crescente contraddizione tra centri di produzione, aziende separate (private, nella giusta accezione marxista) tra di loro e tra esse e lo Stato. Un massimo di statalismo conviveva con un massimo di spinte settoriali, su base locale, fortemente "federalistica", e le alimentava costantemente.
      Lo sbocco storico è stato quel che doveva essere: messa in piedi di un potente industrialismo "sovietico", ma, alla fine del percorso, implosione delle vecchie ed oramai inadeguate forme centralistiche per l’avvio di una nuova, gigantesca ristrutturazione e ricentralizzazione borghese effettiva a più alto livello (senza, logicamente, regredire al "prima" -come accennano degli stolidi che blaterano di un’attuale "feudalizzazione" dell’ex-URSS e senza, ancor più logicamente, che dalle istanze autonomiste dei singoli territoriali potesse sbocciare alcun tipo di neo-socialismo).
      L’esempio della Russia "sovietica" mal si addice, perciò, al socialismo. E’ cosa che riguarda voi borghesi dall’inizio alla fine. Dagli esordi (borghesemente rivoluzionari) dello stalinismo classico al "caos" attuale che gli eredi di Baffone, scopertisi borghesi a pieno titolo, devono gestire entro il sistema di rapporti capitalistici mondiali.
      Torniamo allora a bomba. E nel socialismo? Sarà lì inibita l’autoattività dei singoli territori, delle "singole" masse? Noi diciamo che, al contrario, questa autoattività, una volta svincolata dalle leggi del mercato, raggiungerà i suoi massimi, a misura che la comunità umana sentirà di poter lavorare per i propri umani bisogni come un tutto. Quando si dice centralizzazione delle forze del proletariato è questo che s’intende: un centralismo -certo- che è però, per le sue finalità, la sua sostanza sociale e poi anche nelle sue forme, tutt’altra cosa dal centralismo borghese.

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Il centralismo borghese (per la conservazione) è burocratico e militare.
      Il centralismo proletario (per la rivoluzione) è volontario e cosciente.

     La natura del centralismo proletario è connessa e dipendente dalla natura del compito storico che al proletariato compete come classe rivoluzionaria, alla natura -appunto- del socialismo.
      Ora: base dell’organizzazione socialista è l’inventario delle risorse tecniche ed umane disponibili ed un piano per il loro utilizzo a scala universale. Ciò implica di per sé centralizzazione, ma di segno contrario rispetto a quella capitalistica. La centralizzazione capitalistica significa, infatti, dominio universale ed incontrastato delle leggi del capitale, con tutte le conseguenze del suo procedere anarchico, incontrollato, delle sue enormi e crescenti disparità tra classi e stati privilegiati e classi e stati sottomessi. Per questo esso abbisogna di un centralismo, come dirà Lenin sulla scia di Marx ed Engels, burocratico e militare, di una crescente coercizione organizzata sulla stragrande maggioranza della società -una coercizione burocratica e militare che nei mini-stati sorti dai recenti processi federalisti di "auto-determinazione", vedi Jugoslavia, lungi dall’essersi attenuata, è divenuta invece parossistica-.
      La centralizzazione socialista significa, al contrario, la pianificazione e la realizzazione di uno sviluppo armonico alla scala del globo, casa unica della comunità umana: nulla di quanto il lavoro socializzato ha prodotto in questo o quel luogo del pianeta sotto il dominio del capitale (con gli inevitabili squilibri) può considerarsi "proprietà" di esso in concorrenza ed opposizione ad altri luoghi, ad altre genti. La sua acquisizione, la sua redistribuzione, la sua ricostruzione allargata non può essere che un "affare comune", o, per usare un linguaggio più aderente ad una società in cui non ci saranno più i "liberi compratori" ed i "liberi venditori" del mercantilismo, un compito comune, da svolgere nell’interesse comune della società intiera. Ma, appunto per questo, occorre un piano centrale.
      E’ banale inferire da ciò che venga soppressa l’iniziativa per così dire "locale", come sostengono tutti i detrattori della pianificazione socialista. Ciò che viene abolita è soltanto l’iniziativa privata, concorrenziale tipica dei rapporti sociali capitalistici, il fatto che la produzione di qualcuno possa farsi e svilupparsi a detrimento di altri, come è inscritto nelle tavole del mercato e del profitto. E che, sul piano politico, il potere della società sia confiscato da una ristretta parte (privata, appunto) della società che lo organizza anti-socialmente per impedire o castrare le possibilità di iniziativa sia centrale che locale, e massimamente quelle di intervento sulla scena internazionale, del proletariato.
      Il proletariato rivoluzionario, invece, "pratica" nel suo organizzarsi, fin da prima della presa del potere, un tipo di centralismo che, come detto, corrisponde alle sue proprie finalità, ai suoi interessi, e che non ha nulla a che vedere con il centralismo borghese, con il federalismo borghese. I tratti di questo centralismo sono fissati in modo limpido da Lenin, oltre che nel Che fare per quel che riguarda il partito, nel III capitolo di Stato e rivoluzione per quel che riguarda il potere statale, proprio là dove egli respinge come mostruosa (chissà se la notizia è -dopo 79 anni- giunta nella redazione di Resistenza) la pretesa di Bernstein di cogliere una "straordinaria affinità" tra il federalismo di Proudhon e quello di Marx.
      "Nelle considerazioni di Marx già citate sull’esperienza della Comune non c’è la minima traccia di federalismo (s.n.). Marx è d’accordo con Proudhon proprio su un punto che l’opportunista Bernstein non vede; Marx dissente da Proudhon proprio là dove Bernstein vede la concordanza.
      "Marx è d’accordo con Proudhon in quanto entrambi sono per la ‘demolizione’ dell’attuale macchina statale (...).
      "Marx dissente sia da Proudhon che da Bakunin appunto a proposito del federalismo (per non parlare poi della dittatura del proletariato). In linea di principio, il federalismo deriva dalle vedute piccolo-borghesi dell’anarchismo. Marx è centralista (s.n.). E in tutti i passi citati non si troverà la minima rinuncia al centralismo. Soltanto gente imbevuta di una volgare ‘fede superstiziosa’ nello stato può scambiare la distruzione della macchina borghese con la distruzione del centralismo! (Proprio in quanto questa gente è incapace anche solo di pensare di poter distruggere realmente la vecchia macchina dello stato borghese, e -tanto più- è indisponibile a muoversi per questo scopo. Da cui la nostra tesi: fasullissimo è l’"anti-statalismo" dei federalisti. Esso è capace solo di moltiplicare, con lo spezzettamento, i parassitari apparati statali borghesi esistenti, e -attraverso lo spezzettamento dei meno solidi tra essi- di far gonfiare ancora a dismisura la potenza centralizzatrice oppressiva dei massimi super-stati, di cui è inconsapevole, e magari anche riottoso ma non per questo meno effettivo, strumento. Federalismo=non contrazione, bensì diffusione del parassitario statalismo borghese -n.)
      "Ma -continua Lenin per chiarire la natura e funzione del centralismo marxista- se il proletariato e i contadini poveri si impadroniscono del potere statale, si organizzano in piena libertà nelle comuni e coordinano l’azione di tutte le comuni per colpire il capitale, spezzare la resistenza dei capitalisti, trasmettere a tutta la nazione, a tutta la società la proprietà privata delle ferrovie, delle officine, della terra, etc., non è questo forse centralismo? Non è forse il centralismo democratico più conseguente e, con ciò, un centralismo proletario?
      "Bernstein (ovvero: ogni soggetto la cui mente è ottenebrata dall’ideologia borghese, ogni federalista, ad es. -n.) è semplicemente incapace di concepire la possibilità di un centralismo volontario, di un’unione volontaria delle comuni in nazione (e tanto più delle comuni "nazionali", delle dittature del proletariato sorte inizialmente in singole nazioni in quell’unica Comune rivoluzionaria mondiale che è nel programma d’azione del comunismo internazionalista -n.), di una volontaria fusione delle comuni proletarie nell’opera di distruzione del dominio borghese e della macchina statale borghese. Bernstein, come ogni filisteo, si rappresenta il centralismo come un qualcosa che, venendo unicamente dall’alto (da un "alto" che è esterno, estraneo, antagonista, ai bisogni della comunità sociale -n.), non può essere imposto e mantenuto se non dalla burocrazia e dal militarismo.". Tale invece non è il centralismo proletario, già entrato in azione nell’esperienza della Comune (e poi nell’Ottobre), che è un centralismo cosciente, volontario, teso ad impulsare e inquadrare -per potenziarla- la massima attivizzazione delle masse lavoratrici (è questo il senso di classe dell’affermazione leniniana: il centralismo proletario è il più conseguentemente democratico). Un centralismo lontano le mille miglia dal centralismo borghese ch’è per sua essenza "militare e burocratico", in quanto è organicamente volto ad impedire la partecipazione delle masse all’esercizio del potere e -se e quando ne impulsa ed inquadra la attivizzazione- lo fa per scagliarle contro se stesse.
      Potrà mai capire la possibilità e le immense potenzialità di una simile auto-attivazione del proletariato per sé stesso, per la specie umana, e di un simile centralismo "volontario e cosciente", il bestione borghese, od imborghesito nella "propria" capoccia, per cui non può muoversi foglia -nella storia- se non per mano di sovrani, stati, papi o altri personaggi "carismatici", mai comunque per opera della "massa bruta" che lavora? o per cui non è il caso di muovere foglia se non è assicurato che qualcosa ce ne viene in tasca? Ma per la comunità umana c’è tutto da fare per arricchire il "salvadanaio" della società collettiva, e la "massa bruta" che lavora -proprio essa!- sarà la protagonista di questa svolta epocale da lungo tempo attesa.
      Utopia? Che non lo sia già lo dimostra la storia ultracentenaria del partito di classe in cui i militanti si centralizzano, e cioè: si uniscono liberamente (qui ci vuole!), vivono e lottano come collettività umana, infischiandosene del "proprio" tornaconto immediato, del libro mastro delle "proprie" entrate e uscite e, in quanto a questo, reale anticipazione della società futura. Il domani socialista è quello del "partito dell’umanità".

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Indicazioni di lettura

     Ci pare di avere già fornito implicitamente, nel testo di questo Inserto, dei suggerimenti per quanti vogliano (avvertano come necessario) approfondire sulle fonti marxiste il rapporto (polemico) che corre tra il federalismo borghese e piccolo-borghese da un lato, il comunismo rivoluzionario dall’altro.
      Anzitutto il Manifesto del Partito Comunista, "piccolo" inesauribile scrigno del tesoro dottrinale marxista, la cui migliore edizione italiana è quella curata da E. Cantimori Mezzomonti per Einaudi (ora disponibile in edizione economica nella collana Oscar Mondadori).
      Quindi, sempre di Marx, Miseria della filosofia, pubblicata e ripubblicata (mai troppe volte) da Editori Riuniti, con l’introduzione del 1884 di Engels e una importante appendice contenente, tra l’altro, la lettera ad Annenkov del 1846 e il Discorso sulla questione del libero scambio.
      Fondamentali "commentarii" a questi testi, ma ben più che tali in senso letterale, sono gli scritti di A. Bordiga, I fondamenti del comunismo rivoluzionario, Ed. Il Programma comunista (che si può richiedere alla casella postale dell’omonimo giornale, n. 962, 20101 Milano) ed inoltre i Testi sul comunismo, La Vecchia Talpa, Napoli, una raccolta che è assai più difficile reperire, ma che ci è possibile far avere in fotocopia a chi ne faccia richiesta.
      Infine, non certo per ultimo, Stato e rivoluzione di Lenin ("La dottrina marxista dello Stato e i compiti del proletariato nella rivoluzione", secondo l’indicazione del suo sotto-titolo originale), contenuto nel vol. XXV delle Opere complete o in edizione a sé, nel quale sono indicate anche le altre opere sul tema di Marx ed Engels da cui non si può prescindere.
      Per quel che riguarda, invece, la battaglia anti-localista, anti-municipalista della tendenza marxista che diede vita al PCdI già nel periodo antecedente al 1921, si cominci col vedere la Storia della sinistra comunista, vol. I, pp. 29 ss., 64 ss., 214 ss., 218 ss. Ma su questa battaglia e sui suoi sviluppi successivi nel primo e nel secondo dopoguerra avremo modo di tornare estesamente in un lavoro sul federalismo in preparazione.
      Si tratta, naturalmente, di indicazioni date -più che ai singoli lettori, ed anche nel loro caso- per il lavoro collettivo (e non ci riferiamo con ciò solo alla nostra organizzazione). Può ben darsi, lo sappiamo, che a non pochi "singoli" compagni alcuni, almeno, di questi scritti possano risultare impervii. Ma ad un lavoro di squadra ben organizzato nulla è -in assoluto- inaccessibile.


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