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supplementi ai nn. 36 e 40 del Che fare,

Inserto teorico

IL PARTITO COMUNISTA


Indice

 

PREMESSA

Parte prima

  1. ORIGINE,  NATURA E FUNZIONE

 

Parte seconda

  1. DISCIPLINA E CENTRALISMO

Premessa

Perché l'inserto teorico

 


Chi ci legge, sia che si trovi d'accordo con noi sia che da noi diverga, non potrà in nessun caso mancare di riconoscere a quel che scriviamo una continuità di linea politica e di riferirla ad una non meno inequivoca continuità di linea teorica. Buono o cattivo che lo si giudichi, il nostro "marchio di fabbrica" è impresso, per così dire, in ognuno dei nostri articoli; da ognuno di essi si può ben desumere a quale "scuola" ci atteniamo.

Non ci dovrebbe, dunque, esser difficoltà a cogliere, per quel che ci riguarda, il nesso indissolubile tra condotta politica e referente teorico. (Non per tutte le correnti politiche è così. Ce n'è molte che, a parole, rivendicano una data ascendenza teorica come bagaglio "ideale" e la ribaltano poi nella "pratica", come nel caso di presunti "trotzkisti" della domenica che le giornate di lavoro le passano allegramente assieme a fior di stalinisti e/o, peggio, turatiani in sedicesimo. Ci sono poi di quelli che rivendicano a sé una "pratica comunista" senza neppur scomodarsi di fare i conti con una qualsivoglia teoria. Anche in questi casi il nesso tra pratica e teoria c'è, perché sempre i due termini sono stretti tra loro; ma, di certo, individuarlo risulta meno semplice ed immediato per l'occhio non abbastanza esperto).

Sin dalla nascita, il Che Fare, l'OCI, hanno prodotto teoria. Oggi, però, intendiamo compiere un passo in avanti, aprendo sul giornale una sezione-inserto specificamente dedicata alle questioni teoriche di base, "scorporandole", in qualche modo, dal contesto dei singoli articoli in cui sono state sì sempre presenti, ma col rischio di diluirsi in una certa misura frammezzo alle questioni di analisi nel dettaglio dei singoli temi ed alle note più decisamente d'intervento.

Facciamo questo, senza nulla cambiare del nostro indirizzo generale, per più motivi.

Il primo è di chiarezza e completezza sul piano teorico, di richiamo ad un uso congruo di esso (ciò vale per i nostri lettori, ma, prima ancora, per i nostri militanti, per l'insieme della nostra organizzazione). Non concediamo, e soprattutto non ci concediamo, alcun "diritto alla pigrizia" in questo campo.

Il secondo, collegato al primo, deriva da considerazioni "praticissime" (se marxisticamente intese): l'attuale ciclo di lotte, operaie e non, italiane ed internazionali, mostra una volta di più l'addensarsi di una bufera decisiva a cui la nostra classe sta andando incontro con molte delle proprie energie e della propria volontà intatte, ma con un deficit di orientamento teorico-programmatico -e, di conseguenza, politico- che proprio l'acuirsi dello scontro a venire contribuisce a rendere drammatico e che sempre meno può essere eluso. Il crescere della massa dello scontro, delle lotte, insegna Lenin, esige (a misura che rende anche più fattibile) una massa di coscienza.

Questo è tanto vero per noi che non abbiamo paura di gettare in faccia a tutti coloro ai quali questi problemi "non interessano", perché "è la pratica quello che conta", la previsione di tempi a venire in cui -se non si sarà provveduto a colmare questo deficit, per quello, almeno, che sta ai rivoluzionari di poter fare- si andrà incontro a catastrofiche linee di caduta, a cominciare proprio dalla "pratica"... praticabile. Il "bel" tran-tran dei tempi passati, di "pacifico" interludio tra un'epoca di fiamme e l'altra, non si addice alle condizioni barometriche attuali dello scontro di classe e tanto meno si potrà affrontare il tornado che si approssima con le armi spuntate del "riformismo" praticone che fu, ed oggi viene a morte. Il "collaudato" bagaglio riformista (con tutte le sue teorie o la sua mancanza di un'organica teoria) si è già mostrato impotente nella pratica e nessuno potrà oramai "rifondarlo" aggiornato per ridargli vigore. Altre armi s'impongono, tanto per la lotta quotidiana che per la lotta teorica che, sola, può illuminarla e guidarla. Guai a non vederlo!

I nostri inserti teorici si propongono di cominciare un lavoro di base in questa direzione, senza pretendere affatto di scodellare nuovissime e clamorose "scoperte". Riandiamo all'abc (cercando di farlo con metodo) della teoria marxista "di sempre", che riteniamo immutabile, "invariante", nella sua spina dorsale e di cui rivendichiamo, pertanto, la restaurazione (non dispiaccia il termine per la sua assonanza con ben altri tipi di restaurazione: rimettere in piedi le armi della rivoluzione non è "archeologia" o "regresso", ma, al contrario, taglio netto con l'autentica regressione costituita dalla sottomissione alle esigenze ed all'ideologia del capitale che si è lasciata passare facendosi cader di mano quelle armi; altro "progresso" non conosciamo).

Sarà "troppo poco" questo abc? Sul mercato i dottori di "marxismo" che si atteggiano a "innovatori" e "superatori" non mancano davvero. Noi, di regola, li vediamo da decenni riscoprire vecchie bagolate proprie dell'ideologia borghese superando di continuo sé stessi solo in contorsionismi reazionari. Adottiamo, per quel che ci riguarda, una vecchia raccomandazione di Bordiga: evitare di produrre "documenti sullo zero e le sue potenze", impegnandoci a "nulla rivedere, nulla aggiungere, nulla aggiornare; tutto sostenere, difendere, confermare e diffondere".

Per questo i nostri testi avranno abitualmente cura soprattutto di "ripetere" diligentemente quel che il marxismo ha già detto, rimandando incessantemente agli "scritti canonici" (come si addice a dei "dogmatici" quali siamo) dei nostri maestri. Non pretendiamo di esibire nulla di più che un rinvio guidato ad essi, aiutandone la lettura diretta, integrale (e non procurando di sostituirla con comodi, perché facili, bignamini).

Se, tenendoci su questa linea, riusciremo a far ingoiare e digerire questo abc ad un certo numero di compagni consapevoli dei doveri che la militanza comunista comporta ed anche, per converso, a renderlo visibilmente "indigeribile" e da evitare a chi non può starci, avremo conseguito il miglior risultato che l'attuale fase ci consente.

Dopo di che, se e quando sarà possibile, passeremo alla d e tenderemo alla zeta, una volta che la restaurata dottrina e la restaurata organizzazione si saranno mostrate all'altezza di questo primo risultato. Stiamo oggi alle "primordiali" armi della critica. Se ben maneggiate, la critica delle armi verrà di seguito.


Parte prima:

ORIGINI, NATURA E FUNZIONE

 Contro i partiti e la politica "in generale"? O contro il partito e la politica di classe "in particolare"?

Dagli anni settanta in qua, in modo particolarissimo, è in atto da parte della borghesia una vera e propria campagna diretta ad estirpare la nozione stessa di partito. E quest'offensiva, com'è ben logico, è diretta in primissimo (od esclusivo?) luogo contro la sotto-categoria del partito di classe del proletariato, del partito comunista. Nell'ambito del cosidetto "sistema dei partiti", dal quale si voglion far discendere tutti i guai che attraversiamo, la palma dell'elemento cancerogeno principe spetta ad esso di diritto, di qui non si scappa...

L'opera di smantellamento del "sistema dei partiti" (in molti casi si dice: il sistema politico tout court) si svolge a tutti i livelli: da quello ideologico a quello della materiale "ripulitura" della società dai guasti da esso provocati e si giura che, una volta smantellata la dittatura dei partiti, la "società civile" potrà infine respirare l'aria pura... del libero mercato. Andiamo, dunque, verso una società che non ha più bisogno di partiti?; verso una "libera" e "razionale" amministrazione della vita sociale emancipata dal dispotismo e dall'irrazionalità di cui questi ultimi sarebbero portatori?; una società senza più politica, o "post-politica" insomma?

Nessuno oserebbe dirlo, perché il dato conflittuale presente "nel sociale" non può essere ignorato. Si trova, allora, quest'altra scappatoia: esistono sì i conflitti ed i relativi "soggetti", esistono sì i "movimenti", ma gli uni e gli altri non possono adattarsi entro i vecchi schemi della politica e dei partiti "tradizionali", "autonomizzatisi" rispetto ad una società che, nel frattempo, si sarebbe completamente trasformata. In che senso? Nel senso che non vi trovano più spazio, meglio: va negato spazio alle categorie di classe, antagonismo di classe, partito di classe. Conflitto sì, perché esso è il pepe della storia, ma al di fuori di queste categorie "obsolete".

La "sinistra" è, naturalmente, d'accordo: la "dialettica" ed il "progresso" sono con ciò al salvo!

In una rivista dell'86 (Classe 1 - Il sociale e l'immaginario: già il titolo è un programma), un certo I. Spano così sintetizzava la "trasformazione" avvenuta "all'inizio degli anni '80" nei rapporti tra soggetti, movimenti, politica e società:

"Cambiamento degli attori dei movimenti (non più una connotazione di classe ma una presenza di diversi soggetti che attraversa trasversalmente la realtà sociale); cambiamento degli strumenti per la realizzazione degli obiettivi (con interventi puntuali, sistematici su obiettivi anche limitati o parziali, che definiscono l'agire locale di questi soggetti); cambiamento delle forme di organizzazione del movimento (dal centralismo organizzativo si passa (..)   alla realizzazione di un modello di democrazia di base, con l'incentivazione dell'iniziativa spontanea, l'inventiva, la differenziazione e la sperimentazione). Rispetto ai movimenti degli anni '70, Marco Boato definisce i nuovi soggetti e i nuovi movimenti sociali come: a-ideologici (..), a-partitici (..), inter-classisti (..), parziali (..) e carsici".

Se questa è la versione "di sinistra" della "trasformazione", addirittura in veste "rivoluzionaria", fa bene il fascista M. Tarchi (vedi Diorama del maggio-giugno '95) a sottoscriverla, rivolgendosi cameratescamente ai "neo-movimentisti" che "rifiutano di sprecare le proprie energie in battaglie di retroguardia come quelle che i fautori del bipolarismo del pensiero e della discriminante destra/sinistra si affannano a riproporre".

Non si poteva meglio riassumere il senso della questione: ciò che va cancellato è il bipolarismo di classe (con rispettivo bipolarismo di pensiero e, se permettete, di schieramenti e conflitti). Una determinata politica, un determinato partito, una determinata classe. E non per arrivare a "nuove sintesi" che scavalchino le vecchie divisioni, ma per unipolarizzare tutti i vari "soggetti" attorno alla realtà empirica del capitale. Senz'alcun bisogno di "nuovi pensieri", e addirittura senza bisogno di pensiero, dal momento che quel che conta è "il reale", cioè questo sistema assunto ed eternizzato per definizione.

  Nessuna "trasversalità destra/sinistra", per l'amor di dio! Si tratta di un'identica melma "a-ideologica, a-partitica, inter-classista" etc. etc. che ben può comunemente riconoscersi nella società presente e farne l'apologia. Ed essa funziona ottimamente da concime per l'opera di "disinfestazione" borghese dal sovraccarico del "sistema dei partiti". Spazziamo via i partiti "in generale". Che ci resterà? La società borghese allo stato puro, indistruttibile ed eterna (questo nelle speranze). Ricordava la Luxemburg: "La borghesia non è un partito parlamentare, ma una classe dirigente, che si trova in possesso di tutti gli strumenti della dominazione economica e sociale". A questa classe dirigente ed al sistema di cui essa è portatrice s'inchinano i "nuovi soggetti e movimenti", di cui sono "carsiche" solo le voragini nel cervello e nei cuori. Viviamo un'epoca contrassegnata dal "pensiero debole", che è la traduzione nelle teste della debolezza dello scontro antagonista materiale, ed il "pensiero debole" non ha che da seguire docilmente la realtà in cui s'accomoda, come il cane segue fedelmente il suo padrone tiratovi per la catena.

Noi ci confessiamo, fuori dal coro, ferreamente ideologici, partitici, classisti come ci comanda di essere quest'infame società bipolare ed antagonista.

Spieghiamone il perché, partendo, come si conviene, da lontano.

  L'atto di nascita della borghesia: una classe rivoluzionaria, un partito rivoluzionario.

La società presente, cioè la società capitalistica (che tutti, o quasi, danno ormai per eterna, salvo opportuni e frequenti lifting "riformatori" da far invidia alle immarcescibili dive di Hollywood), nasce da una serie di fatti rivoluzionari, di cui il 1789 francese sta a simbolo. E tutti -qui ci mettiamo anche noi, anzi: per primi- riconoscono che si è trattato "allora" di fatti progressivi. Rivoluzione, quindi scontro aperto, violento. Tra chi? Tra due classi, quella feudale e quella borghese, la prima abbarbicata ad un mondo oramai consunto, l'altra portatrice del nuovo, del progresso per l'appunto. Gli elementi portanti della rivoluzione borghese erano andati a lungo maturando entro la società precedente. Un personale sociale borghese e dei rapporti di produzione sociali borghesi precedono la rivoluzione borghese, in un inarrestabile crescendo.

Ma questa crescita infrauterina non poteva partorire un nuovo sistema sociale per semplice accumulo di forze accanto a quello feudale e per successiva sua sostituzione gradualista, indolore. Aveva bisogno, per l'appunto, di una rivoluzione, di una rottura violenta, perché nessuna classe al potere dimissiona spontaneamente. Aveva bisogno della rivoluzione quale "levatrice del parto", per dirla con Marx. E rivoluzione fu. L'ultima nella storia, pensavano i borghesi di allora (convinti di aver aperto le porte alla "Ragione" una volta per tutte) e giurano gli apologeti attuali del capitalismo (che se ne infischiano altamente della Dea Ragione e badano al Dio Portafoglio). Se ci fermiamo al 1789 si può ben ammettere la lotta tra le classi, la necessità della rivoluzione etc. etc., ci ammannisce l'ideologo borghese. Grave peccato sarebbe trasporre queste categorie più oltre, al presente putacaso, in quanto tutto ciò sarebbe per l'appunto... irrazionale.

Ma chi ha "fatto" la rivoluzione allora? L'ha "fatta" una classe particolare della società e l'ha fatta organizzandosi in partito. Per rompere il sistema feudale non bastavano "i borghesi" in una certa quantità; occorreva che una minoranza di essi si riconoscesse in quanto classe, si forgiasse una dottrina, si dotasse di un'organizzazione politica, si costituisse, insomma, in partito.

"Per dire che una classe esista ed agisca in un momento della storia non ci basterà dunque conoscere quanti erano, ad esempio, i mercanti di Parigi sotto Luigi XVI, o i landlords inglesi del secolo XVIII, o i lavoratori dell'industria manifatturiera belga agli albori del XIX. Dovremo sottoporre un periodo storico intero alla nostra logica indagine, rintracciarvi un movimento sociale, e quindi politico, sia pure che, attraverso alti e bassi, errori e successi, si cerchi una via, ma di cui sia evidente l'aderenza al sistema di interessi di una parte di uomini posti in una certa condizione dal sistema di produzione e dai suoi sviluppi". (Bordiga, Partito e classe, 1921).

Il 1789 va letto in quest'ottica, quale soluzione infine trovata di un problema che datava di secoli e non di anni, perché da secoli esistevano i borghesi (sin dai tempi dell'età comunale in Italia) senza che per questo si potesse parlare in senso proprio di una classe borghese in grado di dirigere con successo un movimento sociale "e quindi politico" contro il sistema feudale. La rivoluzione borghese esplode e trionfa allorché questa classe mostra di esistere, di sapersi organizzare in classe e quindi in partito.

Nell'89 realmente tutto questo si dà al massimo grado. Non siamo più in presenza di singole individualità o singoli gruppi divisi e incoerenti di borghesi, ma ci troviamo di fronte ad una straordinaria sintesi degli interessi complessivi di una classe in senso proprio, storico e non statistico, e questa sintesi si esprime nell'organizzazione-partito, cioè in un corpo di dottrine ed in una linea d'azione unitaria, centralizzata, in grado di parlare a nome di "tutta la società". Abbiamo insieme le splendide pagine dei filosofi e dei politici (della caratura di un Robespierre, di un Saint-Just, di un Marat...) e le armi in mano alla "santa canaglia", le lame affilate della ghigliottina. Abbiamo, in sostanza, una classe, un partito, una rivoluzione.

(Usiamo il termine partito al singolare non perché ignari della molteplicità di partiti precedenti e successivi all'89 e dei contrasti non da poco tra di essi -visto che era poi la ghigliottina a decidere delle "verità" e "ragioni"-, ma ad indicare la sostanza unitaria dell'indirizzo sociale, di classe: anche dopo la soppressione dell'ala più radicale, necessaria alla borghesia per recidere a fondo i rapporti col passato, anche col Termidoro ed il bonapartismo il nuovo regime borghese non svanisce, semmai mostra tutti i lati sordidi ad esso connaturati e che i generosi "arrabbiati" della prima ora avevano inteso negare... ).

La contraddizione storica che accompagna la borghesia: il proletariato, classe rivoluzionaria antiborghese.

Spunta qui subito, però, una particolarità. Ed è che, in quest'incendio che si vorrebbe definitivo ed ultimo nella storia, perché di qui in poi tutti saremmo egualmente "cittadini" gratificati dal "comune" motto di liberté, fraternité, égalité, affiora subitaneamente una "imprevista" contraddizione: al di sotto della borghesia comincia a fremere un'altra classe, che partecipa sì alla rivoluzione antifeudale, ma non si trova "razionalmente" risistemata nella nascente società borghese in forza del suo status di "cittadinanza" presuntemente libera, fraterna, eguale.

Questo terzo incomodo è il proletariato. Il quale, sin nel fuoco della battaglia antifeudale condotta a fianco ed in appoggio alla borghesia, comincia a riconoscersi per sé, in quanto classe distinta ed antagonista rispetto al nuovo ordine "universalista" conclamato dalla borghesia e si dà esso stesso un embrione di partito per condurre la rivoluzione in atto "sino in fondo" e non farla fermare allo stadio borghese.

Il giacobinismo spinto all'estremo evocava esso stesso i bisogni ed i "diritti" del nascente proletariato. Prendete, ad esempio, le più belle pagine di un Saint-Just e vi troverete, assieme alla convinzione che la soluzione ultima dei problemi sociali possa ritrovarsi in questa rivoluzione "definitiva", l'esigenza che essa si realizzi per davvero "sino in fondo" spezzando una volta per tutte le catene "ingiuste" dell'ineguaglianza di fatto e l'appello alla "santa canaglia" perché essa stessa se ne faccia carico: "Dubito che la libertà possa affermarsi finché sarà possibile sollevare i poveri contro il nuovo ordine di cose; dubito che non ci siano più poveri se non si fa in modo che ciascuno abbia la sua terra: (..) Un uomo non è fatto né per i lavori servili né per l'ospedale né per l'ospizio; tutto ciò è spaventoso. Bisogna che l'uomo viva indipendente (..); non ci devono essere né ricchi né poveri. Un povero sta al di sopra del governo e delle potenze della terra; egli deve parlare loro da padrone... Occorre una dottrina che traduca in realtà questi principii e assicuri il benessere a tutto il popolo".

Siamo ad un crinale storico: il "completamento" della rivoluzione borghese evoca già il proletariato; ma proprio di fronte a questa minaccia la rivoluzione borghese indietreggia, stringe il patto termidoriano con le vecchie classi possidenti, si "autolimita" per non soccombere e manda al supplizio la vecchia guardia giacobina. A risollevare la bandiera rivoluzionaria, dopo di allora, non potranno però essere nuovi giacobini; sarà il proletariato.

Il Manifesto degli arrabbiati, del 1793, parla già più chiaro: "La libertà non è che un vano fantasma quando una classe di uomini può impunemente affamare l'altra. L'uguaglianza non è che un vano fantasma quando il ricco, per mezzo del monopolio (del potere economico), esercita il diritto di vita e di morte sul suo simile. La repubblica non è che un vano fantasma quando la controrivoluzione si realizza, giorno per giorno, tramite i prezzi degli alimenti a cui i tre quarti della popolazione non possono far fronte senza versare lacrime. (..) Le proprietà dei furfanti son dunque più sacre della vita dell'uomo? Se la forza armata è a disposizione dei corpi amministrativi, perché questi corpi non potrebbero requisire i viveri? (..) Pronunciatevi (oh deputati) dunque ancora una volta, e i sanculotti, con le loro picche, faranno eseguire i vostri decreti". Non la Dea Ragione s'invoca, ma la forza, in nome di una classe sfruttata (che già s'intravvede anche teoricamente) contro una classe di sfruttatori.

Babeuf e Buonarroti, con la loro Congiura degli Eguali, appariranno a più forte ragione come i primi gloriosi rappresentanti coscienti del proletariato, gli antesignani del movimento che troverà la sua piena definizione nel 1847 col Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels. Non siamo ancora all'altezza dei maestri che verranno di lì a qualche decennio, ma le tavole del partito son già embrionalmente scolpite, con buona mano e di buon scalpello:

"Noi non abbiamo soltanto bisogno di questa uguaglianza, quale risulta dalla Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino: la vogliamo in mezzo a noi, sotto il tetto delle nostre case. Siamo disposti a tutto, a far tabula rasa per conservar essa sola. Periscano, se necessario, tutte le arti, purché ci resti l'uguaglianza reale. (..) Noi miriamo a qualcosa di più sublime e di più equo, il bene comune, o la comunità dei beni! Non più proprietà privata della terra: la terra non è di nessuno. Noi reclamiamo, vogliamo il godimento comune dei frutti della terra: i frutti appartengono a tutti. (..) Abbia infine termine questo grande scandalo, cui i nostri nipoti non vorranno prestare fede! Sparite, infine, disgustose distinzioni fra ricchi e poveri, fra grandi e piccoli, fra padroni e servi, fra governanti e governati".

Il Manifesto dovrà "solo" sfrondare questo appello delle sue caratteristiche utopiche -che risentono tuttora dell'empito morale più che di una concreta definizione programmatica-, definire con precisione scientifica la natura e le caratteristiche del regime borghese, il posto delle varie classi in esso ed armare di un programma politico concreto il proletariato che scende in lotta. Con tutto ciò, Babeuf e Buonarroti non ci appaiono più solo un riflesso incosciente di contraddizioni oggettive, ma degli elementi soggettivi della risoluzione rivoluzionaria di esse: militanti, compagni di partito.

Proprio questa "emergenza" proletaria segnerà il periodo a venire. Dovunque apparirà evidente che non bastava liberare la società dai ceppi feudali (battaglia, per altro, conclusasi in Europa -per non parlare del resto del mondo- dopo altri decenni di travagli indicibili) per liberare realmente la società in quanto tale, per dare avvio ad una comunità a pieno titolo umana (la Gemeinwesen di cui parla Marx), ma bisognava superare ed abbattere il sistema della divisione della società in classi che la borghesia portava ai suoi estremi quale fonte di un antagonismo insopprimibile all'interno dell'"ordine" presente.

L'antagonismo di classe è un dato ineliminabile della società presente. Nulla potrà mai vietare che esso si esprima.

La borghesia che aveva vittoriosamente rivendicato per sé, in nome degli interessi dell'umanità "in generale", il diritto di avere una propria ideologia, una propria organizzazione politica, e di saggiare l'una e l'altra al fuoco della violenza e del terrore (sacrosantamente) rivoluzionari, non intendeva riconoscere analoghi diritti al suo antagonista di classe proletario, perché questi non si accordavano con la "razionalità" del proprio "universalismo". Lo stesso diritto di associazione sindacale veniva proibito in quanto incompatibile con uno schema che negava ogni sorta di "interferenza" tra cittadini e Stato. Figuriamoci cosa potesse esser riservato ai primi tentativi di associazione politica rivoluzionaria! Come ricorda Marx in una lettera ad Engels del 30 gennaio 1865: "Sia detto di passaggio: la legge prussiana contro le coalizioni e così tutte le leggi continentali della stessa specie hanno la loro origine nel decreto dell'Assemblea Costituente del 14 giugno 1791 con cui i borghesi di Francia punivano severamente -per esempio, privazione dei diritti civili per un anno- tutto quanto somigli da lontano a ciò, anche ogni specie di associazione di operai, col pretesto che sarebbe un ristabilimento delle corporazioni (sciolte colla costituzione del 1789) e cosa contraria alla libertà costituzionale e ai diritti dell'uomo".

Va detto che la borghesia, una volta insediatasi saldamente al potere, sente sempre più come un peso le questioni "astratte" dell'ideologia e dei programmi di cui aveva pur avuto, molto concretamente, bisogno nei giorni eroici del suo slancio rivoluzionario. Le basta avere nelle proprie mani lo Stato quale espressione ed agente del proprio dominio e ad esso demanda di formulare le regole empiriche. Tutto nello Stato, tutto per lo Stato (come dirà poi il fascismo, come insistono a dire tutti gli apologeti -sparatissimi quelli di "sinistra"- del capitale!). Brutta fine per la Dea Ragione quella di risolversi nello Stato, cioè in uno strumento di dominio di classe, ma tant'è... (1). Nessuna "corporazione" tra Stato e cittadini : se partiti ci devono essere, essi devono diligentemente fungere da "servitori dello Stato", cioè da esecutori fedeli dei supremi interessi collettivi della borghesia. E sta precisamente qui il senso dell'attuale campagna contro un "sistema dei partiti" diventato troppo costoso ed invadente, e che va ridisciplinato con un ulteriore assoggettamento centralizzato alla "ragion di stato" borghese. Un massimo di funzionale dittatura del capitale (in cui gli stolidi han letto l'inizio del "ristabilimento della società civile" propiziato da quei corpi indipendenti e sovrani che sarebbero la Magistratura, l'Ordine Pubblico e, al di sopra di tutto,...il Libero Mercato).

E tuttavia quel che era proibito dalle leggi e bollato dall'ideologia al potere come "irrazionalità", per forza di cose era postulato dal fatto stesso della crescita numerica e dal raggruppamento fisico crescente dei proletari e dall'antagonismo tra gli interessi di questi e le classi borghesi. Il risultato necessario di un tal ordine di cose fu che, come già a suo tempo la borghesia, il proletariato affermava crescentemente l'esigenza, storicamente determinata, di costituirsi in classe e quindi in partito, realizzando la formula scoperta dal marxismo. Non solo: un tale passaggio, che alla borghesia era costato secoli, sembrava qui bruciare i tempi, vuoi per la velocità impressa dal capitalismo ai processi sociali, vuoi perché una classe emergente sulla scena storica non parte mai da zero, ma si appropria dei risultati attinti da chi l'ha preceduta. Poteva mai essere, infatti, che il proletariato "ignorasse" il dato-partito che la borghesia rivoluzionaria si era forgiato? Tant'è: i primi club proto-comunisti seguono di pochi anni quelli giacobini, di cui ancora si presentano come una variante estrema ed indipendente, sino a trovare, nell'arco incandescente di pochi anni, la forza di staccarsene con maggior nettezza.

Il movimento storico dell'emancipazione proletaria risulta quindi quale fenomeno oggettivo, determinato; fini ed azione storica (il fattore cosciente) sono chiaramente leggibili nell'essere dell'insieme della società -vedremo più sotto come parla Marx in proposito-. Questo fattore di coscienza e volontà che "svela la classe a sé stessa" (scienza) e ne dirige l'azione (volontà cosciente) si condensa nel partito: "Nella sua lotta contro il potere unificato delle classi possidenti, il proletariato può agire come classe solo organizzandosi in partito politico autonomo, che si oppone a tutti gli altri partiti costituiti dalle classi possidenti". (Marx, Statuti dell'Associazione Internazionale degli Operai).

Percorso storico del partito di classe del proletariato.

Si può dire che già con gli Eguali di Babeuf abbiamo in nuce l'affermarsi di questa tendenza, nonostante tutte le incoerenze e le debolezze legate ad un'epoca di minor età (oggettiva, ergo soggettiva) del proletariato. Il passaggio di qui alla Lega dei Giusti e, poi, alla carta costitutiva del partito rappresentata dal Manifesto è acceleratissimo, in un modo che sembra avere del "miracoloso". Ma il "miracolo" si spiega razionalmente col fatto che, nel breve volgere di qualche decennio, la trionfante ascesa borghese riplasma da cima a fondo la società e porta in essa, torrentiziamente, le nuove contraddizioni antagoniste ad essa connesse con la crescita esplosiva del proletariato, oggetto della sua opera di schiavizzazione, ma anche, sempre più, soggetto attivo di reazione ad essa. Il nuovo sistema borghese è leggibile in tutto il suo corso futuro sin dai suoi primi vagiti e già da essi reca in sé gli elementi materiali della sua negazione: una classe sfruttata, una conoscenza delle leggi che ne regolano l'"essere" ed il "dover essere", la tendenza di questa classe a costituirsi in partito politico rivoluzionario.

Se andiamo a vedere le date, troveremo che poco più di un cinquantennio appena separa i primi focolai del comunismo dalla definitiva affermazione teorica di esso nel Manifesto e, di lì ad un ventennio o poco più, il movimento si afferma possentemente nella pratica in armi della Comune di Parigi. Alla sconfitta della Comune non subentra poi alcun rinculo, ma, al contrario, con la Seconda Internazionale si afferma in tutta Europa una rete di solidi partiti "nazionali" del proletariato il cui programma travalica i "propri" confini di stato borghesi ed indica la via della rivoluzione internazionale del proletariato. La cesura della prima guerra mondiale, col "tradimento" socialdemocratico che annulla "in un sol giorno" le conquiste teorico-programmatiche precedenti accodandosi pressoché dappertutto (a cominciare dal cuore tedesco) alle proprie borghesie nazionali, sembra ancora una volta ricacciare indietro la storia del proletariato; ma basteranno pochi anni perché veda la luce una nuova Internazionale, la Terza, forte della prima storica vittoria sul campo in Russia, e che si presenta già non più come un insieme di partiti nazionali federati tra loro, ma come il partito comunista internazionale.

Nella seconda metà degli anni venti, la rotta s'inverte. La Terza Internazionale viene meno al suo compito e lo stalinismo consacra questo fallimento distruggendone da cima a fondo le acquisizioni, sul piano teorico-programmatico, politico, organizzativo e trasformandosi, per il proletariato, secondo l'efficace espressione di Trotzkij, in "organizzatore di sconfitte".

Da allora in poi non c'è stata risalita significativa, sì che può oggi sembrare che di quel passato tutto si sia definitivamente consumato, senza possibilità alcuna di futuro riscatto. Al tracollo della Seconda Internazionale aveva risposto subito la Terza. A quello della Terza mai una quarta ha potuto far seguito, nonostante gli sforzi di comunisti del calibro di un Trotzkij o di un Bordiga per riallacciare il filo spezzato. Al contrario, la marcia della borghesia è da allora ripresa impetuosa incuneandosi nelle stesse trincee dell'avversario sino a concludersi, oggi, con il riconoscimento da parte degli stessi "comunisti" di un tempo che l'orizzonte di riferimento non può esser altro che quello del capitale, business and money, e del suo Stato, di cui tutti siamo (o dovremmo essere) universalmente "liberi ed eguali cittadini".

Non ci soffermeremo qui più di tanto sui motivi di tale catastrofe, perché di essi, della loro natura e delle loro conseguenze dovremo occuparci successivamente in extenso. Ci limitiamo a brevissime anticipazioni -ricorrendo a dei remake- per marcare qui la nostra distanza da due tipi contrapposti di "analisi" e conclusioni. La prima: il lascito di Lenin non è stato raccolto conseguentemente da nessun "soggetto" e questo spiega tutto (pura idiozia idealistica, soggettivista, che abbiamo già avuto modo in passato di strapazzare a sufficienza e su cui non ritorniamo: fa pena veder ridotta una tragedia storica alla mancanza di "personaggi" all'altezza delle "situazioni"; se poi chi così opina crede di avere in mano il bastone di Lenin, la cosa arriva al grottesco). La seconda: la fine ingloriosa della Terza Internazionale sancisce l'improponibilità di ogni soluzione comunista e, in prima istanza, la fine della forma-partito di classe.

Cosa diciamo noi? Diciamo che la degenerazione della Terza Internazionale, l'eclisse del partito, derivano esattamente dal fatto che proprio essa, per le condizioni oggettive che l'avevano incubata, era arrivata ad essere (a differenza delle due Internazionali precedenti) la "Internazionale dell'aperta azione di massa, dell'attuazione rivoluzionaria, della realizzazione" storica del programma comunista in un combattimento "per la vita o la morte", venendo così a porsi ad un crinale decisivo (la Prima e la Seconda, sotto questo aspetto, appaiono molto di più come dei passaggi preparatori, come vedremo altra volta). L'Internazionale di Lenin nasce in una situazione di "supremo" grado dello sviluppo economico-sociale, di massimo grado di fusione tra dottrina comunista e movimento di classe del proletariato, di scontro aperto internazionale, epocale, tra proletariato e borghesia, ad una scala tale da far apparire "roba da ragazzi" (ma che ragazzi!) il precedente della Comune di Parigi. Su questo crinale si sono dialetticamente incontrati due ostacoli decisivi per l'arrivo in porto.

Il primo (oggettivo e soggettivo esterno): la tensione estrema attraverso la quale la borghesia internazionale ha saputo concentrare "totalitariamente" tutte le proprie forze per resistere all'assalto rosso, scompaginandolo e disperdendolo in mille rivoli "particolari"; impiegando il bastone fascista e la carota riformista (in alternativa od in simultanea) per piegare la classe antagonista; utilizzando le risorse dello "sviluppo combinato e diseguale" per "stabilizzarsi" nelle metropoli (scongiurando il pericolo di una congiunzione tra metropoli e periferia) e, quindi, rilanciarsi internazionalmente alla grande; mettendo sapientemente a frutto il veleno del riformismo attecchito in seno al movimento operaio della precedente fase "pacifica" di sviluppo per confermare la propria ideologia (ed anche mirando a far giungere nel seno stesso del movimento comunista questi stessi veleni)...

Il secondo (soggettivo interno al nostro movimento, ma che nessuno -se provvisto di sale in zucca- vorrà mai intendere come fattore "indipendente"): l'immaturità complessiva della stessa Terza Internazionale, giunta all'appuntamento decisivo in ritardo e con slabbrature evidenti sia sul piano dell'omogeneità tra le varie sezioni costitutive sia su quello del piano tattico, al quale neppure il bolscevismo migliore (quello dei "tempi di Lenin") si può dire abbia dato una soluzione completa e definitiva. Una troppo facile generalizzazione delle lezioni dell'Ottobre in campo tattico mal si addiceva al cuore capitalisticamente avanzato dell'Europa e poteva favorire -come poi, in realtà, ha fatto- un arretramento rispetto alle trincee fissate nei programmi costitutivi della Terza: via via, non più soltanto sul terreno della tattica, ma su quello del programma ed, infine, degli stessi principi.

La battaglia decisiva posta dalla storia poteva essere vinta solo mettendo in campo tutti gli strumenti decisivi. Così non è stato. Di qui non poteva derivare un semplice arretramento, ma una catastrofe verticale, come in ogni battaglia "per la vita o la morte".

Il "meraviglioso 1989" ha consacrato il tutto con la caduta degli ultimi muri ad Est ed il riassorbimento definitivo delle macerie del "comunismo" formalmente sopravvissuto in Occidente nell'alveo borghese.

A questo quadro idilliaco di "pacificazione" noi contestiamo alcune cose. Primo: non è vero che il conflitto di classe sia andato smorzandosi a scala internazionale. Ad un Occidente in via di omologazione sul terreno borghese imperialista ha risposto innanzitutto la rivolta dei "popoli di colore", che è un fenomeno di lotta di classe internazionale, espressione a questo livello dell'antagonismo proletariato-borghesia, socialismo-capitalismo, le cui conseguenze non si limitano alla periferia dell'Impero, ma mirano dritte al suo centro. Secondo: concluso il lungo ciclo riaccumulativo conseguente alla ricostruzione post-bellica ed al libero depredamento del Terzo Mondo, il conflitto tende di nuovo a ritrasferirsi al centro stesso del sistema (come dovrebbe essere evidente anche ai ciechi dall'esperienza di questi ultimi due decenni, che hanno visto un susseguirsi in crescendo di affondi antiproletari nelle metropoli). Terzo: la nullità politica presente del proletariato metropolitano (trasferiamo al presente un'espressione usata da Engels per situazioni, meno tetre, del suo tempo e riferita all'Inghilterra) e la nullità del partito comunista -che tuttora non c'è, neppure in nuce, e che noi non intendiamo affatto rivendicare a noi stessi come proprietà in atto- sono destinate a convertirsi, di fronte all'immancabile esplodere delle situazioni politiche, economiche e sociali, in un ritorno accelerato e rafforzato alle "antiche" posizioni di classe, ripartendo dal punto più alto di esse senza dover per nulla affatto passare gradualisticamente per tutti i gradini "intermedi". Il corso del capitalismo decadente è catastrofico e non gradualistico: ha saputo inscrivere al proprio attivo la caduta catastrofica del partito di classe ad esso antagonista, ma è altrettanto certo che questo catastroficamente risorgerà.

Di tutti e tre questi punti abbiamo cercato di dare, in più occasioni, dimostrazione e a questo nostro lavoro non possiamo che qui rimandare, riservandoci di riprendere in esteso la questione del tracollo storico della forma-partito del proletariato e, di conseguenza, del suo programma antagonista: un fatto di gigantesche proporzioni che sarebbe banale ridurre a formulette e di cui va dato debito conto, ma non per concluderne che "quel che è stato è stato" e la faccenda si è ormai chiusa definitivamente, come affettano di credere i nemici nostri o credono effettivamente certi "rifondatori", bensì proprio per chiarire che si tratta di una catastrofe transitoria da cui si uscirà riprendendo in mano potenziate tutte le "vecchie" armi lasciate in passato cadere. L'esperienza di questi decenni nega (nella pratica e nelle lezioni che da essa trae la teoria comunista) la possibilità di rieditare le incertezze e le aperte défaillances tattiche del passato. Le "lezioni della controrivoluzione" rappresentano una sicura garanzia per la rivoluzione a venire: da esse ci derivano gli anticorpi di cui abbiamo bisogno. Voi, borghesi d'ogni risma, pretendete di aver fatto di uscire di scena il partito di classe; ma finché non sarà uscita di scena la contraddizione su cui prosperate e che vi strozzerà -il proletariato-, il partito è destinato a ritornare sul palcoscenico della storia da protagonista. Ciò che non si vedrà più saranno unicamente le debolezze che nel passato ne han provocato l'eclissi!

Alle radici del "Che fare?" di Lenin: una critica globale del capitalismo, per una rivoluzione anticapitalistica globale.

Riprendiamo a questo punto il filo sulla questione del partito, per vedere sinteticamente come essa sia impostata dal marxismo e a quali deformazioni e tradimenti essa sia stata sottoposta nel corso della degenerazione che va dallo stalinismo ai nostri giorni.

C'è, in proposito, un testo di riferimento non eludibile, ed è il Che fare? di Lenin, data 1902.

Su questo testo circola una leggenda comune non solo ai borghesi, ma ai "comunisti" tanto di ispirazione estremista-infantile che staliniana. Si tratterebbe, in sostanza, di un documento in cui Lenin professa l'"onnipotenza" del partito, traducendola in severe norme organizzative. Una specie di manuale d'organizzazione, insomma, e niente di più. Da gettare nel cestino per il suo "giacobinismo", per il distacco o addirittura disprezzo che vi si ostenterebbe nei confronti della classe (secondo borghesi ed estremisti infantili, i primi tesi a dimostrare che "questo è il comunismo", i secondi che "questo non dev'esserlo"). Oppure da porre sugli altari come esempio di "bolscevizzazione" secondo gli stalinisti.

In realtà, il Che fare? è innanzitutto un testo di alta teoria sulle cui basi s'impostano le soluzioni organizzative, ed è la prima, assai prima che le seconde, da prendere o lasciare in blocco, perché determinate misure organizzative possono anche essere "contingenti" -nel tempo e nello spazio-, ma i criteri cui esse ubbidiscono sono, in Lenin, nel marxismo, permanentemente fissati dalla teoria, al di fuori di ogni "contingentismo".

Il punto di partenza di Lenin consiste nella determinazione della natura e della funzione del partito comunista di classe. Un partito rivoluzionario vale se e in quanto esso è in grado di comprendere ed affrontare la realtà sociale nella sua globalità e prospettare soluzioni generali, valide per tutta la società. Il partito borghese lo ha fatto sostituendo al sistema feudale un insieme di rapporti sociali "liberi", giuridicamente eguali per tutti, sulla trama del mercato, chiamando a sé tutte le forze vive della società in quanto tutte "egualmente" interessate a spezzare gli antichi vincoli feudali. Senonché, come s'è detto, la sua "democrazia economica" e giuridica ha mostrato di essere l'espressione non della liberazione dell'intera società, ma di una sua parte contemporaneamente all'asservimento di un'altra, il proletariato, cioè di chi può solo essere in grado di offrire "liberamente" sul mercato e in quanto merce la propria forza-lavoro. All'antico antagonismo feudalesimo-capitalismo uno nuovo ne subentra, quello tra capitalismo e socialismo.

    La società borghese, che si vorrebbe eterna, è dimostrato dal marxismo costituire solo un passaggio transitorio nella storia dell'evoluzione della società umana. Essa ha assolto ad un compito rivoluzionario spezzando le vecchie catene feudali ed impiantando sulle sue ceneri un nuovo e più alto sistema sociale, imprimendo alle forze produttive uno slancio inaudito, rendendo sociale il lavoro; ma, dialetticamente, proprio l'incedere di questi risultati mostra la contraddizione di fondo su cui essa è venuta ad impantanarsi, quella tra il carattere sociale della produzione ed il carattere privato dell'appropriazione. Lo sviluppo delle forze produttive ed il carattere sociale di esse impongono di essere liberati dal regime della proprietà privata.

Tale liberazione non è concepita dal marxismo quale "socializzazione (redistribuzione) della proprietà", ma quale abolizione del sistema di produzione mercantile e del lavoro salariato, abolizione della proprietà. Rimanendo al di qua di questo obiettivo si ricade inevitabilmente nelle mille varianti di "socialismo rozzo" -tributario dell'ideologia borghese-, che sogna una società "giusta" sulla base del mercato: tutti liberi ed eguali produttori di merci, come nei sogni anarchici, mazziniani, proudhoniani o persino del "socialismo" cattolico. La critica marxista al capitalismo non si limita alla "ingiusta" redistribuzione degli "utili", ma coinvolge da cima a fondo l'insieme dei rapporti mercantili. E' il sistema di produzione mercantile (di cui l'appropriazione privata è solo la traduzione giuridica) che va messo in causa quale fattore di alienazione dell'intero sistema dei rapporti sociali, umani (o, a meglio dire, disumanizzati).

  La critica "ingenua" al capitalismo non sa altro che individuare gli effetti di esso, senza neppure la capacità di vedere che di ciò si tratta; men che mai saprebbe quindi risalirne alle cause. Il marxismo coglie invece queste ultime e mostra come nel sistema capitalista l'alienazione sia totale; non investa, cioè, semplicemente i rapporti di distribuzione, ma coinvolga l'insieme dei rapporti mercificati tra gli uomini in tutti i loro aspetti. (Il concetto di economia va marxisticamente inteso nel senso ampio, globale, non solo di astratti rapporti produttivi, ma di produzione/riproduzione di rapporti sociali, tra gli uomini, e di tutto l'apparato sovrastrutturale che su di essi si eleva, esso stesso forza economica).

  Tutto, nella presente società (così come in ogni altra società precedente), reca un segno d'insieme, e così come la borghesia rivoluzionaria coerentemente aveva messo in causa questo insieme di rapporti rispetto alla società feudale (non limitandosi alla contestazione delle corvées e dell'ingiusta ripartizione dei seggi assembleari, ma sin le ultime sovrastrutture ideologiche, morali, familiari etc.), altrettanto dovrà fare il partito comunista per potersi qualificare quale forza agente rivoluzionaria. La critica marxista della società presente è ben lungi dal limitarsi al semplice fatto dell'appropriazione del pluslavoro operaio da parte del capitalista e della sua traduzione in profitto; essa investe l'intiera rete dei rapporti sociali alienati che su questa base si definiscono sin al livello dell'ultima sovrastruttura. La mercificazione capitalista è un fatto universale, che non si limita affatto allo sfruttamento della forza lavoro-merce, ma coinvolge sin l'ultima sfera "privata" e sin gli ultimi prodotti del Libero (mai così schiavizzato!) Ingegno Umano. Il sistema capitalista è il sistema dell'universale prostituzione mercantile di ogni "valore". Esso fa scempio di ciascuno e di tutti essi secondo una ferrea logica determinata.

I "concretisti" lo realizzano "a bocconi". C'è, ad esempio, un problema sessuale, "di genere". C'è un problema dell'ambiente. Diamoci sotto... E non si vede esattamente che si tratta di una serie di rami che proliferano da un'unica radice. Non esistono questioni "particolari" che non rientrino in quell'una questione generale. Ingenui e mascalzoni possono dedicarsi (senza successo) al proprio campicello d'azione "particolare". Il marxista coglie e affronta la totalità dei problemi, o marxista non è: il che non significa affatto, come si vuol far credere da più parti, ridurre la complessità dei "singoli" problemi ad una pseudo-"unità" essa stessa particolare (secondo gli schemi dell'"operaismo"), ma affrontarli tutti leggendoli nella loro indistricabile unità.

Non c'è "singolo" aspetto della presente vita sociale che il marxismo non abbia saputo e non sappia ricomporre nell'unitario mosaico di cui sopra. La reificazione (la riduzione di ogni essere e cosa ad oggetto mercantile) non conosce steccati ed è ben lungi dal fermarsi alla fabbrica. Sotto il segno dell'alienazione capitalista sta la cosidetta "questione di genere" femminile (massimamente quando si prospetta alla donna un'"emancipazione" che la trascini "a pieni diritti" nel vortice della sua mercificazione "pari all'uomo"). Sotto questo segno sta la corrente "morale" borghese in decomposizione, che celebra all'interno del "privato" sacrario familiare i suoi più orridi nefasti. Sotto questo segno sta la questione religiosa, con la proliferazione di "nuove" impotenti vie di fuga esotiche od esoteriche, o il risuscitare medievale di madonne che piangono (mentre le curie incassano, alle spalle dei fedeli). Sotto di esso sta il rapporto "Uomo"-Natura, in cui quest'ultima è fatta oggetto di scempio non dall'Uomo, o dall'omino singolo, ma dalla incontenibile furia predatrice del capitale. Ed ancora sotto di esso sta la Produzione Intellettuale, da quella filosofica (che non a caso si assegna compiti da "pensiero debole", quando non di rimasticatura di sorpassate fanfaluche) a quella artistica, per definizione idealistica frutto del "libero Ingegno" ispirato. (Marx, denunciando di quale pantano si nutra quest'ingegno "libero", annota: "La produzione capitalistica è avversa a certi rami di produzione spirituale quali l'arte e la poesia" e lo scrive, pensate un po', in Teorie sul plusvalore, alla faccia di chi critica del marxismo un presunto "riduzionismo al dato economico bruto". Non hanno torto le Ciccioline ad esordire nelle interviste con un "noi artiste": si riassume qui al meglio il grado di generale prostituzione che, nella società presente, infetta l'intero organismo sociale, a cominciare proprio dalle cellule più "alte" -più vulnerabili- di esso...)

Ancora Marx nei Manoscritti:

"Il denaro, poiché possiede la proprietà di comprare tutto, la proprietà di appropriarsi tutti gli oggetti, è quindi l'oggetto in senso eminente. L'universalità della sua proprietà è l'onnipotenza del suo essere (..) Il denaro è il mezzano tra il bisogno e l'oggetto, tra la vita e i mezzi di sussistenza dell'uomo. Ma ciò che media a me la mia vita, mi media anche l'esistenza degli altri uomini per me. Questo è l'altro uomo per me: (..) Se il denaro è il legame che mi collega alla vita umana, alla società, alla natura e agli uomini, non è esso il legame di tutti i legami?" (A fatica ci tratteniamo dal ricopiare integralmente il capitolo, ma non ci tratterremo dal raccomandarne a compagni e lettori una non distratta lettura e rilettura).

La borghesia rivoluzionaria ha avuto il merito di comprendere materialisticamente la necessità di portare l'attacco a tutte le strutture e sovrastrutture della società precedente, cogliendo esattamente il nesso tra le prime e le seconde. Lì si è fermata, supponendo le proprie strutture e sovrastrutture come realizzazioni "eterne" dell'"ideale". Non si poteva chiedere di più al materialismo borghese. Il materialismo dialettico marxista è chiamato a demolire questo nuovo castello di menzogne a servizio dell'oppressione di classe. Ma per fare ciò ha da porsi su un analogo piano di onnilateralità: quello che vogliamo demolire è un sistema, non un insieme incoerente di fenomeni tra essi indipendenti; quello che vogliamo antagonisticamente organizzare sul suo cadavere è un nuovo sistema. Il richiamo, maldestramente usato da certuni, alla "relativa autonomia delle sovrastrutture" e al rapporto dialettico struttura-sovrastruttura non significa attenuazione, ma potenziamento di questo compito: correttamente inteso, può aiutarci ad evitare semplificazioni e schematismi (per loro natura antidialettici); mai potrà significare "autonomizzazione" dei fenomeni determinati dalla loro base determinante.

 La prima lezione di Lenin: il marxismo è scienza.

Queste considerazioni di fondo sono richiamate di fatto nel Che fare? allorché Lenin spiega cosa significhi educazione politica:

"Ci si domanda in che cosa debba consistere l'educazione politica. Ci si può limitare a diffondere l'idea che la classe operaia è ostile all'autocrazia? Certamente no. Non basta spiegare l'oppressione politica degli operai (come non basta spiegare l'opposizione dei loro interessi agli interessi dei padroni). Bisogna fare dell'agitazione per ogni manifestazione concreta di questa oppressione (come abbiamo fatto per le manifestazioni concrete dell'oppressione economica). E poiché questa oppressione si esercita sulle più diverse classi della società, poiché si manifesta nei più diversi campi della vita e dell'attività professionale, civile, privata, familiare, religiosa, scientifica, ecc. ecc. non è forse evidente che non adempiremo il nostro compito di sviluppare la coscienza politica degli operai, se non ci incaricheremo di organizzare la denuncia politica dell'autocrazia in tutti i suoi aspetti?"

"La coscienza della classe operaia non può essere coscienza veramente politica, se gli operai non sono abituati a reagire a ogni caso di arbitrio e di oppressione, di violenza e di sopruso, qualunque sia la classe che ne è colpita, e a reagire da un punto di vista socialdemocratico e non da qualche altro punto di vista. La coscienza delle masse operaie non può essere vera coscienza di classe, se gli operai non imparano a osservare, sulla base dei fatti e degli avvenimenti politici concreti e attuali, ognuna delle altre classi in tutte le manifestazioni della loro vita intellettuale, morale e politica; se non imparano ad applicare nella pratica l'analisi e la valutazione materialistica a tutte le forme d'attività e di vita di tutte le classi, gli strati e i gruppi della popolazione. Chi rivolge l'attenzione, lo spirito di osservazione e la coscienza della classe operaia esclusivamente, o anche solo principalmente, su se stessa, non è un socialdemocratico, perché la conoscenza che la classe operaia può avere di sé è legata in modo indissolubile all'assoluta chiarezza di idee non solo teoriche, anzi non tanto teoriche quanto piuttosto elaborate nell'esperienza della vita politica, circa i rapporti reciproci di tutte le classi della società contemporanea".

E' questa una prima doccia fredda contro i teorici e i praticoni di una "lotta operaia" limitata al dato dello scontro salariati-padroni sul terreno immediato. Non perché questo sia ininfluente, va da sé, ma perché solo innalzandosi, in esso ed attraverso di esso, ad una piena coscienza socialista il proletariato può assolvere al suo compito storico di emancipazione dell'intiera società. Ed una tale coscienza non è, per l'appunto, un dato sentimentale o "diretto", "spontaneo". La lotta operaia, la lotta del proletariato muove sì da fattori "naturali", "immediati" e da ciò è spinta. Ma questo è appena il punto di partenza per la complessiva guerra emancipatrice di classe: senza risalire all'insieme, non vi è possibilità di emancipazione dalla complessa ragnatela dei rapporti sociali capitalistici (e non c'è neppure, aggiungiamo, possibilità di risolvere senza di ciò "quel problema particolare"). E la risalita a questo traguardo non procede per via "spontanea" (per nessuna classe rivoluzionaria nella storia). Procede per via di conoscenza scientifica.

Su questo punto Lenin è ancora più tagliente, con ulteriore scandalo degli "operaisti", trascrivendo da un buon Kautsky d'annata marxista:

"Il progetto (di programma che Kautsky critica) dice: «Quanto più lo sviluppo capitalistico aumenta il numero dei proletari, tanto più essi sono costretti a lottare contro il capitalismo ed hanno la possibilità di farlo. Il proletariato giunge ad avere coscienza» delle possibilità e della necessità del socialismo. La coscienza socialista, per conseguenza, sarebbe il risultato necessario, diretto della lotta di classe proletaria. Ma ciò è completamente falso. Il socialismo, come dottrina, ha evidentemente le sue radici nei rapporti economici contemporanei, al pari della lotta di classe del proletariato, e deriva, al pari di quest'ultima, dalla lotta contro la miseria e dall'impoverimento delle masse generati dal capitalismo; ma socialismo e lotta di classe nascono l'uno accanto all'altra e non l'uno dall'altra, essi sorgono da premesse diverse. Infatti, la scienza economica contemporanea è, al pari della tecnica moderna, una condizione della produzione socialista, e il proletariato, per quanto lo desideri, non può creare né l'una né l'altra: entrambe sorgono dal processo sociale contemporaneo. Il detentore della scienza non è il proletariato, ma sono gli intellettuali borghesi (..); anche il socialismo contemporaneo è nato nel cervello di alcuni membri di questo ceto, ed è stato da essi comunicato ai proletari più intellettualmente dotati, i quali in seguito lo introducono nella lotta di classe del proletariato (..), e non qualcosa che ne sorge spontaneamente (..). Il vecchio programma di Hainfeld diceva dunque molto giustamente che il compito della socialdemocrazia è di introdurre nel proletariato (letteralmente: di permeare il proletariato) la coscienza della sua situazione e della sua missione".

Per parte sua, Lenin annota:

"Ciò non significa che gli operai non partecipino a questa elaborazione. Essi, tuttavia, vi partecipano non come operai, bensì come teorici del socialismo (..), in altre parole, solo in quanto riescono a impadronirsi in varia misura delle conoscenze del proprio secolo e a farle progredire".

E' una pesante botta per gli stomaci deboli. Si obietta a Lenin: ma se così è, la lotta per il socialismo cessa di fatto di appartenere ai proletari, essendo demandata agli "intellettuali borghesi". E questo spiegherebbe il carattere "giacobino" del pensiero di Lenin, "espropriatore" dei "diritti" operai.

Obiezione insensata.

La successione delle forme sociali di produzione è, nella storia, un fatto oggettivo e determinato. Il socialismo può solo succedere alla maturità del capitalismo, che ne crea le condizioni e la necessità. L'una e le altre, in quanto dati oggettivi e determinati, sono oggetto di rilevazione scientifica. Dove starebbe la bestemmia nel dire che i detentori della scienza, in una società divisa in classi, appartengono alle classi in qualche modo privilegiate? Così è stato per la scienza politica borghese, non censibile in base all'appartenenza dei suoi titolari (in tutto o in maggioranza) alla classe borghese, così è per la scienza socialista. L'essenziale è che la scienza rivoluzionaria, da chiunque -da un punto di vista di anagrafe sociale- posseduta, diventa effettuale (cioè: non si limita a riflettere il mondo, ma tende a mutarlo) allorché s'incontra, permeandolo di sé, col soggetto sociale ad hoc. In questo senso le "elucubrazioni" filosofiche di transfughi delle classi aristocratiche sono diventate, a suo tempo, l'arma della borghesia rivoluzionaria, della sua lotta di classe antifeudale. Allo stesso modo le "elucubrazioni" del "borghese" Carlo Marx lo sono diventate nelle mani (e nelle teste) dei proletari coscienti. L'unicità delle radici e della scienza rivoluzionaria e della lotta di classe dichiarano all'anagrafe un solo padre: il capitalismo; l'una e l'altra hanno il compito di strangolarlo.

Il proletariato non deve piegarsi alle "invenzioni" di ideologi estranei alla sua classe, bensì trova nella scienza socialista (che non è un prodotto di cervelli geniali, ma la scoperta geniale di rapporti oggettivi e determinati) la rivelazione del suo stato, delle sue possibilità, dei suoi compiti. Scienza socialista e lotta di classe proletaria sono due fenomeni parimenti prodotti dal capitalismo, frutto dell'antagonismo sociale ad esso connesso e forze agenti unitariamente contro di esso. Nati "l'uno accanto all'altro", non l'uno "indipendentemente" dall'altro o l'uno "dall'altro".

Come scrive ancora Lenin:

"Si dice spesso: la classe operaia aspira spontaneamente al socialismo. Ciò è giustissimo nel senso che più profondamente e più esattamente di tutte le altre la teoria socialista determina le cause dei malanni, e perciò gli operai l'assimilano così facilmente, purché questa teoria non capitoli davanti alla spontaneità, purché si assoggetti la spontaneità".

Scienza e azione di classe.

La lotta di classe è un dato di fatto naturale, oggettivo, che precede la coscienza.

Prima vengono i singoli borghesi, prima viene l'antagonismo oggettivo tra interessi di questi ed interessi delle classi feudali, prima viene la lotta di classe borghesi-feudatari, poi viene (rampollando dalla stessa radice della base economica esistente) una scienza della rivoluzione borghese, poi ancora questa scienza permea di sé i borghesi spinti oggettivamente a determinarsi in classe e quindi in partito politico. Niente di diverso vale per il proletariato.

Il culto della spontaneità interromperebbe questa giunzione dialettica della varia serie di fenomeni. Il rimandare alla "spontaneità" dei processi della lotta di classe altro non significherebbe che limitare l'orizzonte della classe rivoluzionaria ad una parziale e inconcludente presa d'atto di singoli fenomeni effettuali di un "disagio" sociale impedendo di coglierne le cause e di individuarne una via d'uscita. Era "spontaneista" il partito dei giacobini? Lo fosse stato, staremmo ancora ad aspettare la presa della Bastiglia!

Tutto il Che fare? è un flagellare continuo la tendenza a limitare la lotta operaia alle rivendicazioni immediate, magari esclusivamente trade-unionistiche, di fabbrica, portata avanti dai destri (oggi da molti "ultra-sinistri") con la scusa che "la politica segue docilmente l'economia", che gli operai devono "autodeterminarsi" e "liberarsi del dominio dei capi", degli "intellettuali borghesi". Cade qui il famoso passaggio-scandalo (per i fessi):

"La storia di tutti i paesi attesta che con le sue sole forze la classe operaia è in grado di elaborare soltanto una coscienza tradeunionistica, cioè la convinzione di unirsi in sindacati, di condurre la lotta contro i padroni, di cercare di ottenere dal governo determinate leggi necessarie agli operai, ecc.".

E, successivamente:

"Ma perché -domanderà il lettore- il movimento spontaneo, il movimento che segue la linea della minore resistenza (o: del minimo sforzo, n.) va verso il predominio dell'ideologia borghese? Per la semplice ragione che per la sua origine l'ideologia borghese è molto più antica di quella socialista, che essa è elaborata in tutti i suoi aspetti e possiede mezzi incomparabilmente più grandi di diffusione".

Ne volete una riprova? Date un'occhiata retrospettiva alle recenti lotte operaie in Italia a partire dal conflitto sulla questione delle pensioni. Eravamo lì in presenza di un attacco diretto della borghesia contro la classe operaia (non per la studiata malvagità di un tal Cavaliere, ma per obiettive necessità collettive, che, si è visto poi benissimo, il governo Berlusconi si è limitato a trasmettere paro paro al successore -... di sé stesso- Dini). I proletari hanno registrato questo effetto, per loro sommamente spiacevole, del sistema e si sono mossi con la coscienza tradeunionista di dover "condurre la lotta contro i padroni" (anzi: contro il governo; il che potrebbe sembrare un passo "politico" in avanti, ma così non è stato, dal momento che si è considerato il fattore-governo come sganciato -o sganciabile- dagli interessi collettivi del padronato di cui esso è espressione, per giunta non sulla base della messa in campo di una propria autonoma ed antagonista forza di classe, sulla base di un corrispondente programma, ma lasciando la "gestione" della propria mobilitazione alle sorti del "dibattito parlamentare", sotto la vigile cura di "propri rappresentanti" del tutto esterni ed incompatibili coi propri bisogni ed assolutamente fuori da ogni forma di "controllo" da parte di una piazza "autodimissionatasi").

Sì, i lavoratori sono scesi in piazza a milioni, attestando una straordinaria prova di vitalità e forza potenziale, da cui sarebbe stata vana follia "staccarsi", e che bisognava invece tradurre da potenzialità in atto nel vivo di essa. Dopo di che, però, non solo non si è "spontaneamente" risaliti ad aggredire le cause prime che sottintendevano all'attacco anti-operaio, ma addirittura ci si è piegati ad ingoiare il rospo "addolcito" offerto dalla controparte "post-berlusconiana" senza colpo ferire. Anzi: si è introiettato nella propria "coscienza" che questo era quanto di meglio si poteva ottenere dati i "conti" della "nazione", le sacre esigenze del nostro (intoccabile) capitalismo nazionale etc. etc. L'ideologia borghese si è facilmente imposta, attraverso il veicolo di trasmissione dei "rappresentanti operai", cioè dei suoi lacché in seno al proletariato.

Quello che abbisognava, in questo caso -ed è quello che nella modestia dei nostri mezzi ci siamo sforzati di fare-, era che il potenziale straordinario della lotta di classe si saldasse con una chiara determinazione delle cause dell'attacco operaio ed un'altrettanto chiara determinazione delle vie d'uscita da esse, che da esso si sprigionassero dei barlumi di coscienza vera di classe e che da essi maturasse un indirizzo complessivo di lotta antagonista, ciò che poteva derivare soltanto dalla presenza attiva di un'organizzazione militante "esterna" immune dai germi dello spontaneismo codista. Significava questo "sostituzionismo", sovrapposizione "dall'esterno" alla "spontaneità" della classe operaia? Al contrario, significa e significherà "sostituzione", rottura in seno al proletariato del predominio ideologico e politico-sociale della borghesia.

Niente a che fare con la semplice ed illusoria pretesa d'intervento per "impulsare" la lotta ed indicare ad essa delle modalità e degli obiettivi in essa autoconcludentisi. Impugnare altri metodi e sollevare altri obiettivi è solo possibile a condizione che dal proletariato si sprigioni una forza di direzione in grado di rispondere colpo su colpo all'ideologia borghese. Non basta farsi i conti in tasca ed aver voglia di lottare: occorrerà, per questo, avere una chiara cognizione dei meccanismi attraverso cui si esprime il capitalismo, vagliare le risposte ad essi delle "proprie rappresentanze" operaie (riformiste, sottoriformiste, domani social-scioviniste) all'insegna della "compatibilità" coi libri-mastro della borghesia e le sue "superiori" ed "universali" esigenze; occorrerà, su questa base, tracciare il solco divisorio tra proletariato e borghesia ed intenderlo (e praticarlo) alla dimensione internazionale che gli è propria (questioncella tutt'altro che "spontaneamente" risolvibile, è evidente); occorrerà individuare come l'impresa capitalistica si realizzi sull'insieme dei rapporti istituzionali e sovrastrutturali (ideologici, "morali"...) della società. Un problemaccio dinanzi al quale abbiamo la coscienza di star tuttora a lontani assaggi, a misura che il massimo cui l'attuale proletariato arriva, se e quando vi arriva, è una "disposizione alla lotta" estremamente parcellizzata e ridotta (dopo la quale si può ben arrivare a fare il tifo per Dini bis quale rappresentante dell'Ulivo consolandosi delle botte che se ne riceveranno coll'"argomento" che in fondo si tratta di un "male necessario" e del "meno peggio" rispetto a quelle che ce ne verrebbero dal Polo... Specchio fedele del marasma attraversato dalla nostra classe, incapace di sollevarsi antagonisticamente per sé, e cioè di dotarsi di una propria coscienza di classe).

  Necessità della teoria: le "armi della critica" per la "critica delle armi".

Di fronte al proletariato noi non giochiamo a far quelli che "alzano il tiro" chiedendo di più, intendendo in questo banalissimo modo la questione delle "rivendicazioni transitorie" che dovrebbero far ("spontaneamente") da "ponte" tra l'immediatezza e i fini ultimi. Noi diciamo apertamente al proletariato: la lotta che fai, nella quale siamo incondizionatamente a tuo fianco, ti mostra l'esigenza di una teoria che presieda al programma ed all'azione. Hic Rhodus, hic salta! Qui devi, qui dobbiamo romperci le corna! Ogni scesa in campo che non s'interroghi sui propri fini, che non cominci a mettere in causa le ideologie borghesi (in questo caso, per primo, il concetto dell'"economia nazionale", "di tutto il popolo") e le forme della sua veicolazione all'interno della classe (tutte le varianti discordi/concordi del "riformismo") sarebbe inesorabilmente condannata ad un doppio ripiegamento, del portafoglio e della coscienza, e se è vero, com'è vero, che essa è la condizione prima, imprescindibile dell'acquisizione della coscienza (perché, dice Marx, le classi apprendono quali sono i muri da abbattere solo scontrandovicisi), è altrettanto vero che questo non si verifica "spontaneamente", "di per sé", perché "di per sé" si posson solo prendere delle zuccate e magari convincersi che la colpa non è del muro con cui ci si è andati a scontrare, ma del fatto di aver improvvidamente oltrepassato i confini delle proprie competenze, come quei due tali che osarono mangiare la mela proibita e ne sono stati opportunamente castigati...

Teoria o azione? No: teoria e azione quali elementi stretti tra loro. Senza teoria rivoluzionaria non c'è movimento rivoluzionario. Chi l'ha detto? Il marxismo, sotto varie formulazioni e con mille nomi, perché qui sta la chiave del problema.

Lasciamo ancora parlare Lenin:

"L'esempio dei socialdemocratici russi illustra con particolare evidenza il fenomeno europeo (da tempo rilevato anche dai marxisti tedeschi) che la famigerata libertà di critica (cioè il ripudio della "fossilizzazione dottrinaria" per andare a respirare l'aria tonificante della "vita reale") significa non la sostituzione di una teoria con un'altra, ma la libertà da ogni teoria totale e meditata, significa eclettismo e assenza di principii. Chi conosca almeno un pò la situazione reale del nostro movimento non può vedere che l'ampia diffusione del marxismo è stata accompagnata da un certo abbassamento del livello teorico. Al movimento, grazie al suo significato e ai suoi successi pratici, aderirono molte persone, pochissimo o nient'affatto preparate teoricamente. Si può quindi giudicare di quale assenza di tatto dia prova il "Rabocee Delo" quando agita trionfalmente la frase di Marx: "Ogni passo del movimento reale è più importante di una dozzina di programmi". Ripetere queste parole in un momento di confusione teorica è come gridare "Cento di questi giorni!" a un funerale. Queste parole di Marx, poi, sono tratte dalla sua lettera sul programma di Gotha, nella quale egli biasima aspramente l'eclettismo nella formulazione dei principii: se è necessario unirsi -scriveva Marx ai capi del partito- fate accordi allo scopo di soddisfare i fini pratici del movimento, ma non fate commercio dei principii, non fate "concessioni teoriche"... Senza teoria rivoluzionaria non vi può essere movimento rivoluzionario. (Ecco l'"autore"!) Non si insisterà mai abbastanza su questa idea in un momento in cui la predicazione in voga dell'opportunismo va a braccetto con l'entusiasmo per le forme più anguste di attività pratica... Soltanto un partito guidato da una teoria d'avanguardia può svolgere la funzione di combattente d'avanguardia".

  E poco più sotto:

"Ricordiamo le osservazioni di Engels, risalenti al 1874, sull'importanza della teoria nel movimento socialdemocratico. Engels riconosce non due forme della grande lotta socialdemocratica (la politica e l'economica) -come si fa abitualmente da noi- ma tre, poiché accanto a queste egli pone anche la lotta teorica."

Lodando il "senso teorico" del proletariato tedesco, Engels scriveva:

"Senza il precedente della filosofia tedesca e precisamente della filosofia di Hegel, il socialismo tedesco -l'unico socialismo scientifico che sia mai esistito- non sarebbe mai nato. (Questo a conferma di quanto Lenin abbia... innovato in materia) Se tra gli operai non ci fosse stato questo senso teorico, il socialismo scientifico non si sarebbe mai cambiato in sangue e carne in così grande misura come è effettivamente accaduto. E quale incommensurabile vantaggio sia questo, si rivela da una parte se si tenga presente l'indifferenza verso tutte le teorie, che è una delle cause principali per cui il movimento inglese, malgrado tutta la notevole organizzazione dei singoli sindacati, avanza così lentamente, e, dall'altra parte, se si tengono presenti la confusione e le storture che il proudhonismo ha provocato, nella sua forma originaria nei francesi e nei belgi, e, più tardi, nella caricatura che ne fece Bakunin, negli spagnuoli e negli italiani".

Perché il proletariato: le basi materiali oggettive del soggetto rivoluzionario.

Ci si potrà obiettare: ma, stando a quel che avete detto, non si capisce poi tanto bene perché si debba parlare di partito "del proletariato", visto che la scienza comunista non viene fatta derivare direttamente dalle sue lotte, visto che si demanda agli intellettuali borghesi il possesso di essa, visto ancora che l'alienazione capitalistica di cui parlate riguarda, a vostro dire, l'insieme dei rapporti sociali e non una sola parte della società, il proletariato per l'appunto. Quest'obiezione ci è mossa, in effetti, e da più lati a presunta vocazione "marxista": tanto dagli "operaisti" quanto da quei buontemponi che cancellano la nozione distinta di proletariato parlando di una omologazione generale (di tutto il "genere umano") della società e di una sua eguale vocazione "comunitaria" anticapitalista.

Se la lotta anticapitalista poggiasse sulle idee, sulle teste, la questione potrebbe porsi in questo modo. Persino il capitalista "avveduto" potrebbe accorgersi di essere lui stesso un alienato nella società presente ed... autonegarsi (nella propria coscienza?, o dimissionando volontariamente dal proprio ruolo sociale?) in quanto tale, col che, tra l'altro, si sarebbe risolto un singolo caso di "regolamento dei conti" con la propria coscienza od intelligenza, restituendole pure alla "moralità" od alla "ragione", ma non mutando di uno iota la questione degli assetti sociali (cui gli stessi "redenti" resterebbero poi soggetti). Ciò che decide, però, è altro, è la posizione di una determinata classe in seno alla società ed a questa stregua appare evidente (a noi, almeno) che proprio e solo il proletariato è la classe che realizza la ricchezza sociale e ne è integralmente spogliata; proprio e solo il proletariato è la classe che per liberare sé stessa deve materialmente mettere fine alla divisione in classi della società (negando anche sé stessa nel momento in cui nega la società presente, perché il socialismo non è il "potere operaio", contraddizione in termini: perpetuazione del proprio stato di classe e potere sulla società non sono termini che vadan d'accordo tra loro e, difatti, le società "real-socialiste" a "potere operaio" son sempre state una grossa fregatura!).

Per questa sua posizione materiale nella società il proletariato è, come dice Marx, l'unica classe veramente rivoluzionaria (diciamo: l'unica a poter esercitare un'effettiva funzione rivoluzionaria), perché solo dal suo mettersi in moto antagonista può discendere la rottura dell'asse centrale su cui materialmente si regge la società borghese. E proprio per questo essa è, potenzialmente, accessibile alla scienza marxista che le indica il suo essere e i suoi fini storici. Se questo nodo non viene aggredito laddove esso materialmente è, sarebbe vana danza di coscienze andate a male sognare un'uscita dal capitalismo. Rileggiamo ancora una volta i sacri testi:

"Se gli scrittori socialisti attribuiscono al proletariato questa funzione di significato storico-mondiale, ciò non accade affatto, come la critica pretende di credere, perché essi considerino i proletari come dei. Ma, al contrario, perché nel proletariato pienamente sviluppato è fatta astrazione di ogni umanità, perfino della parvenza di umanità; perché nelle condizioni di vita del proletariato sono riassunte TUTTE le condizioni di vita dell'odierna società, nella loro forma più inumana; perché l'uomo nel proletario ha perduto se stesso, ma, contemporaneamente, non solo ha acquistato la coscienza teorica di questa perdita, bensì è stato spinto direttamente dalla necessità ormai incombente, ineluttabile, assolutamente imperiosa -dall'espressione pratica della necessità- alla ribellione contro questa inumanità: ecco per quali ragioni il proletariato può e deve emanciparsi. Ma esso non può emanciparsi senza sopprimere le proprie condizioni di vita, senza sopprimere TUTTE le inumane condizioni di vita della società attuale, che si riassumono nella sua condizione. Esso non frequenta invano la dura, ma temprante scuola del lavoro. Non si tratta di sapere che cosa questo o quel proletario, o anche il proletariato tutto intero, si propone temporaneamente come meta. Si tratta di sapere che cosa esso è e che cosa sarà costretto a fare in conformità a questo suo essere. La sua meta e la sua azione storica sono tracciate in modo sensibile ed irrevocabile nella situazione della sua vita come in tutta la organizzazione della odierna società borghese". (Marx-Engels, La Sacra Famiglia)

  Ecco spiegato perché il proletariato è, al tempo stesso, la sola forza rivoluzionaria della società presente e perché, insieme, la sua azione emancipatrice non possa ridursi al compito di affrancare unicamente il "quarto stato" che così si troverebbe ad essere, ma coinvolga necessariamente l'emancipazione dell'insieme della società, dell'umanità, della specie. Ed ecco spiegato perché la teoria socialista può riuscire ad esso straordinariamente chiara ed accessibile e tradursi in arma militante; ecco in che senso esso è l'"erede della filosofia tedesca" e l'agente soggettivo di classe che non può limitarsi a riflettere il mondo, ma è deterministicamente chiamato a cambiarlo, a sovvertirlo. E' perciò dietro le sue insegne che potranno muoversi anche elementi e falangi provenienti da altre classi, materialmente incapaci di sollevarsi di per sé a questo compito storico. Non c'è contraddizione tra l'affermare che nel partito non si fanno distinzioni di classe, non si misurano i gradi di "proletarietà" dei singoli aderenti perché ivi il solo termine di riconoscimento è quello di compagno militante, e l'affermare che senza una significativa presenza proletaria al proprio interno ed un forte movimento di classe proletario all'esterno, come bene dice Lenin, l'organizzazione comunista si ridurrebbe ad un "gioco", un fantasma privo di consistenza. La scienza-partito non è un qualcosa che navighi sulle nuvole, ma s'incarna (non diciamo: sempre e comunque "si deve" immediatamente incarnare) nella materia viva di un preciso soggetto di classe "impregnato" di essa. Per questa via coscienza ed azione si fondono nella militanza di partito.

  In questo senso, "rovesciando" in apparenza l'assunto di Lenin, potremmo dire che l'intellettuale borghese (per origine) e marxista (in quanto ad "idee") entra sì nel partito comunista, ma non in quanto intellettuale borghese, ebbensì quale militante proletario. Dritto e "rovescio", si comprenda bene!, sono le facce di un'identica cosa. Quando Lenin parla del partito-scienza e non ha tema di preconizzarne un'organizzazione "chiusa", selezionata, lo fa esattamente in direzione dell'esercito di massa del proletariato, senza di che esso non avrebbe alcun senso:"Condizione fondamentale di questo successo (del partito, n.) è stato, naturalmente, il fatto che la classe operaia, il cui fior fiore ha creato la socialdemocrazia, si distingue, grazie a cause economiche oggettive, da tutte le altre classi della società capitalistica per la sua maggiore attitudine all'organizzazione. Senza questa condizione l'organizzazione dei rivoluzionari di professione sarebbe stata un giocattolo, un'avventura" (Lenin, Prefazione alla raccolta "Dodici anni")

Il legame tra i due termini è potentemente dialettico:

"Ci siamo così convinti che l'errore fondamentale della "nuova tendenza" della socialdemocrazia russa sta nel culto della spontaneità, nella mancata comprensione che la spontaneità della massa esige da noi, socialdemocratici, una massa di coscienza. Quanto più grande è il risveglio spontaneo delle masse, quanto più il movimento si estende, con tanta più incomparabile rapidità cresce il bisogno di una massa di coscienza nel lavoro teorico, politico, organizzativo della socialdemocrazia... (In Russia) il risveglio delle masse è avvenuto e si è esteso in modo organico e ininterrotto (..) I rivoluzionari, invece, sono rimasti indietro rispetto a questo risveglio sia nelle loro "teorie" sia nella loro attività, e non sono riusciti a creare una organizzazione organica e ininterrotta capace di dirigere tutto il movimento".

Chi sta a digiuno in fatto di dialettica potrà cogliere qui un accento di esaltazione dell'attività spontanea delle masse in "contrapposizione" al ritardo del partito, in "contraddizione" con quanto detto precedentemente. Al contrario, da perfetto marxista, Lenin, distinguendo nettamente le due nozioni, le rapporta entrambe al dato oggettivo comune: le contraddizioni materiali suscitate dal capitalismo, delle quali il partito è scienza e l'azione delle masse l'elemento sovvertitore nello scontro materiale tra forze sociali in campo. La scienza marxista è il cervello di questo corpo in azione ed è dal coordinamento tra cervello e corpo che può e deve scaturire lo storico risultato della rivoluzione. Ed allora si può ben dire, dopo aver smantellata la riduzione del fattore dirigente del partito a puro "riflesso" dell'immediatezza, che questo stesso fattore non è dato mai "per definizione", ma sempre richiede di porsi a quest'altezza, di essere "verificato" come tale.

In questo senso certe considerazioni della Luxemburg non sono fuori luogo: l'"ipostasi"-partito può rivelarsi (e la storia ce ne ha offerto esempi a josa!) come un elemento di freno e persino di deviazione controrivoluzionaria rispetto alle stesse istanze del movimento spontaneo. Lenin, qui sopra, non dice nulla di diverso. Errore sarebbe, di fronte a ciò, scartare l'elemento-partito a favore di una spontaneità tumultuosamente in moto (cosa che mai la Luxemburg ha affermato). Al contrario, occorre più che mai, in questo caso, la "massa di coscienza" rivendicata da Lenin. Perché (per entrambi) rompere col conservatorismo, ed i tradimenti anche, di un dato partito formale significa metterne a nudo le insufficienze ed i tralignamenti teorici, scientifici, maturati all'insegna della "libertà di critica" (in quanto "libertà dal marxismo") e non già proporre uno "spostamento" di "funzioni" e di "poteri". Significa restaurazione dottrinale quale premessa della restaurazione della volontà e delle capacità di direzione rivoluzionaria. Significa, in sostanza, lavorare ancor di più per il partito e in quanto partito. Non è certo su questi punti che si potrà parlare di "dissidio" tra la Luxemburg e Lenin, e non a caso ad essi, insieme, si devono i materiali di fondo che hanno permesso la costituzione anticipata dei materiali costitutivi della rottura di fondo con la "tradizione" secondinternazionalista (una rottura che precede di molto il '14, ed in cui Riforma sociale o rivoluzione? sta bene assieme al Che Fare?). Questo sia detto non per "omologare" la Luxemburg a Lenin e negare o sottovalutare i motivi di differenza tra i due, ma per porre anche questi ultimi sul loro reale terreno: e ci torneremo, come merita, più avanti...


Parte seconda:

DISCIPLINA E CENTRALISMO

  Le basi della disciplina e del centralismo comunisti.

Nella sua Intervista sul fascismo (Bari, Laterza, 1976), lo stramarcio riformista Giorgio Amendola deve rendere, obtorto collo, omaggio alla struttura militante del primo PCd’I, guidato dalla Sinistra. Leggiamo attentamente questo passo, non solo e non tanto per ribadire con parole altrui (e quanto insospettabili!) il peso incancellabile dell’opera svolta dalla Sinistra, quanto per misurare la distanza che intercorre tra la nostra visione del partito e quella di derivazione stalinista. Amendola, infatti, esalta i valori della militanza e della disciplina -e sin qui parrebbe stare con noi-, ma intendendoli in termini completamente deformati.

"Negli anni che vanno dal ’21 al ’26... -egli scrive- si è formata un’avanguardia che ha dato luogo ad un tipo di militante del tutto nuovo nella vita del movimento operaio italiano. Un militante rivoluzionario, preparato ad abbandonare la casa, il lavoro, il domicilio, la famiglia, ad andare in galera. Tutto questo discendeva da una premessa: non siamo socialisti. Ossia non subordiniamo la milizia ai nostri interessi personali, anche rispettabili come la famiglia. No: siamo dei comunisti, non siamo dei confusionari. La disciplina è una cosa essenziale. Guai a chi la rompe. E Bordiga fu battuto perché ruppe la disciplina. La disciplina fu subito intesa come qualcosa che differenziava il nuovo partito comunista dal vecchio circo Barnum socialista". (pp. 52-53)

Dal punto di vista effettuale è perfettamente vero che il senso della disciplinata milizia distingueva immediatamente la "tipologia" del comunista da quella del socialista, ma, detto questo, non abbiamo ancor detto niente (o il contrario della verità...) per quel che concerne le radici profonde della distinzione. Queste non stanno in una diversa attitudine all’"intruppamento", quasi che si trattasse di una regola di comportamento a sé stante, ma in ragioni di orientamento dottrinario e politico, nella compagine comunista, diverse ed opposte rispetto a quelle del riformismo.

In che senso si può parlare di "confusionismo" socialista? Se si sta alla superficie delle cose, in quello di una riluttanza ad una serrata milizia. Ma questa, per l’appunto, è solo la superficie, l’immagine esterna delle cose, un fatto derivato (il che non significa meno grave) e non un -casuale?- dato caratterizzante primario. Perché il socialista non si dimostrava disposto ad agire, in difesa del programma del suo partito, allo stesso modo dei comunisti? E perché e come il comunista è giunto a darsi una opposta fisionomia? Per ragioni "naturali", organiche, o perché qualcuno o qualcosa lo ha dall’esterno plasmato in tal fatta?

No. Il confusionismo socialista quanto a milizia era la traduzione del confusionismo politico, dell’assenza di un programma rivoluzionario, della fiducia stolida nelle virtù riformatrici del sistema borghese da sviluppare passo passo attraverso battaglie istituzionali (elettoralismo, sindacalismo "responsabile") e di "opinione". Chi crede nella spontanea e pacifica evoluzione del capitalismo verso una "maggior socialità" non può darsi la foggia del militante armi in pugno; egli non ha che da lasciarsi portare dalla corrente naturale.

Il naufragio del "tipo" di milizia individuale e collettivo del riformismo risponde a questa ricaduta di fondo del riformismo tra le braccia della società borghese (con pessima ricompensa, tra l’altro). In un articolo della Critica Sociale di quegli anni si dice: già, i comunisti si muovono come un sol uomo agli ordini del partito, i nostri no. Ma, si aggiunge subito, e qui si svela l’arcano, questo dimostra la distanza che intercorre, a nostro vantaggio (!), tra loro e noi. I nostri sono gente abituata a giudicare di testa propria, non facile a sottomettersi agli ordini, che non crede al miracolismo rivoluzionario, ma alla paziente opera di "conquista delle istituzioni" giorno per giorno grazie al lavoro tenace di ciascuno di noi. (Il fascismo aveva già assestato i suoi colpi decisivi alle fortezze del movimento operaio, ma non per questo veniva meno la fiducia dei riformisti nel loro "metodo" -cioè nella società borghese-. Nel ’24, al momento del risveglio provocato nelle masse dal caso Matteotti, Turati raccomanderà ai suoi di non agitarsi troppo, di non provocare la borghesia "di sinistra", di confidare nella positiva ricaduta del caso sulle istituzioni "sane" della borghesia. Il Corriere della Sera è con noi, gli industriali sono con noi, anche il Re e le forze armate potranno esserlo se... non ci muoveremo troppo. E’ l’ennesima riprova di come il riformismo rappresenti l’antitesi di ogni seria milizia di classe, ma proprio in quanto quest’ultima o è rivoluzionaria o non è. Questo il segreto del confusionismo socialista!)

A Livorno i comunisti non parlarono di "circo Barnum" perché non c’era disciplina, ma perché l’insieme dei mille programmi riformisti collideva con le esigenze rivoluzionarie e quindi era tale da impedire ogni seria disciplina rivoluzionaria. Se quest’ultima poté esser forgiata, ciò si deve al concorso di tre elementi: l’offensiva, non casuale ma necessaria, del capitale contro il proletariato; l’emergere di uno spontaneo sommovimento di classe; l’indicazione di una dottrina, di un programma, di uno strumentario organizzativo adeguati a sostenere lo scontro e portarlo al suo esito rivoluzionario da parte dell’avanguardia comunista. Tutto in linea con quel che abbiamo letto nel Che fare?

Il lassismo organizzativo degli "spontaneisti", spiega Lenin, è l’altra faccia del lassismo teorico e politico, l’espressione effettuale del ripiegamento, lungo la linea del "minimo sforzo", sui binari dell’ideologia borghese. Il partito di ferro di Lenin poté essere tale perché ferree erano le sue fondamenta, e non per il risultato di accorgimenti organizzativistici. Fosse vero il contrario, il centralismo da lui difeso si sarebbe ridotto ad una ben macabra barzelletta, così come sostenevano i suoi avversari: ecco il furiere!, ecco il giacobino!, ecco il dittatore! (dimenticando, in ogni caso, che mai e poi mai un’organizzazione di ferro potrebbe costituirsi al di fuori di motivazioni profonde che rendano possibile al furiere, al giacobino, al dittatore di metterla in piedi; nessun tipo di organizzazione nasce dal caso, dalla volontà di uno o più individui, ma è sempre e comunque la risultante di una necessità storica -vale per il partito comunista, per quello stalinista, per il fascismo, ognuno al proprio posto- ).

Per Amendola, invece (e citiamo lui per indicare tutta una corrente di pensiero), la disciplina è un valore a sé, una norma, un articolo di legge, in ciò ricalcando il filisteismo borghese quanto a sovranità metastorica della Legge, cioè dello Stato.

Per farne cosa è questione che passa in secondo piano. Il partito (in quanto ente astratto, "in sé", Idea che prende il corpo di Legge, di Stato) può benissimo copiare i programmi del riformismo, e volgerli anche più a destra, come ha dimostrato di fare il PCI togliattiano rispetto a Turati; l’essenziale è che non lo faccia a guisa di circo, ma con grande serietà, con la massima disciplina. Nel ’21 si disse "circo Barnum" per dire delle scomposte pagliacciate riformiste buone solo a far sorridere i borghesi al sicuro nei loro palchi di gala. Amendola, il riformismo di origine staliniana, si ripromette di far scendere nell’arena i propri pagliacci, ma invitandoli a comportarsi con estrema serietà...

"Bordiga fu battuto perché ruppe la disciplina". No, Bordiga fu battuto perché era stata battuta la rivoluzione, per la sua disciplina vera al vero partito rivoluzionario di classe.

Alla data ’26, che prendiamo -cum grano salis- quale data-simbolo, le basi del partito rivoluzionario erano già state, e per un lungo ciclo a venire, definitivamente minate per le sconfitte subite sul campo e per l’introiezione di tale sconfitta da parte della nuova dirigenza vincente nell’Internazionale in seno al partito stesso con la deformazione e la cancellazione dei suoi tratti distintivi in campo tattico, politico, programmatico e teorico. Nondimeno restavano in piedi tutte le ragioni dello scontro accesosi nell’immediato primo dopoguerra ed una consistente disponibilità militante in estese avanguardie del proletariato. L’esercito sconfitto del proletariato non ripiegava in disordine, a ranghi sparsi. Su questo dato -l’unico in cui si possa vedere una qualche permanente traccia degli anni dell’"assalto al cielo"- poggiò lo stalinismo per piegare la permanente disposizione alla battaglia dell’avanguardia a fini estranei ed opposti a quelli originarii ed autentici presentandosi quale custode delle "bandiere immacolate del socialismo". Sta qui la novità dell’opportunismo stalinista, il segreto della sua diversità dai "modi d’essere" del riformismo socialdemocratico classico. L’"edificazione del socialismo" (di un moderno industrialismo capitalista) in URSS non poteva compiersi che per questi (borghesemente) rivoluzionari modi, attraverso una straordinaria mobilitazione di energie proletarie all’interno dell’URSS e negli altri paesi, dopo aver convinto i proletari di questi ultimi che la loro causa s’identificava con quella della "patria del socialismo".

  Il carattere del tutto relativo e transitorio di questa novità, di questa diversità, lo poterono valutare esattamente solo le scarne avanguardie rivoluzionarie rimaste in campo, ma, per forza di cose, staccate dalle masse imprigionate nella legge del "minimo sforzo" (attenti: questo concetto non significa necessariamente un volersi sottrarre alla lotta ed al sacrifizio, ma alla direzione, supposta come più storicamente facile, cui le proprie energie vengono indirizzate; sappiamo bene quanto sangue il proletariato ha versato dietro le bandiere dello stalinismo e non lo dimentichiamo; non lanciamo fango su di esso, ma sulla causa controrivoluzionaria -ed agli agenti di essa- cui è stato sacrificato!).

  Oggi si può toccare con mano quel che i rivoluzionari di allora e di sempre avevano anticipato nel loro inascoltato isolamento. A missione borghese assolta, definitivamente e sino in fondo, allo stalinismo succede conseguentemente il circo Barnum dei mille "post-comunismi" nati dalle sue radici. Dopo Stalin Chruscev, poi Gorbacev, poi El’tzin; dopo Togliatti Amendola, poi Berlinguer, poi Occhetto, D’Alema e Veltroni (e chissà se è finita lì?!). Oggi quel tipo di disciplina di cui ancora poteva vantarsi nel ’76 un Amendola non serve più; il "militante" di cui un PDS (o una Rifondazione) ha bisogno è, a conclusione della corsa, quello disegnato dalla vecchia, cara Critica Sociale: il "cittadino", l’individuo, convinto che il sistema attuale è l’alfa e l’omega dell’unica realtà possibile, che, se va emendata, dev’esserlo coi sistemi classici della vecchia socialdemocrazia (salvo uno spompamento muscolare in più). Non a caso sta scritto negli statuti di questi partiti: i diritti del singolo a pensare ed agire di testa propria vengono prima di tutto; a coordinarli ci penserà il sistema vigente, coi suoi meccanismi materiali ed ideologici. Non c’è, in questo, rovesciamento della vecchia tradizione capitolarda, ma il suo logico coronamento; la discontinuità è solo formale, non sostanziale.

Disciplina sostanziale=disciplina al comunismo, alla comunità umana

Sì, il subordinare alla milizia i propri interessi personali, come rivendicava Amendola, costituisce il tratto caratteristico del comunista, ma in maniera opposta alla concezione borghese e clericale. Non è il servitore convinto di uno Stato alla cui costituzione debba giurare fedeltà, non è il carabiniere "nei secoli fedeli" all’Arma, né tantomeno il gesuita ubbidiente alla Società di Gesù perinde ac cadaver. Così come non è, all’opposto, il "libero pensatore" e libero gestore di sé stesso, all’interno dell’organizzazione. Quei due modelli fanno parte dell’ingegneria borghese, provvida da un lato di furerie e dall’altro di esaltazioni dell’individualismo assoluto: l’uno e l’altro sono espressione dello schiacciamento dell’individuo atomizzato alla propria dittatura, materiale ed ideale. Tanto sotto il caporale di giornata che sotto... Max Stirner.

La definizione primaria del militante comunista è quella che ne diede Marx in un passo "sconcertante" per la mentalità piccolo-borghese: è tale militante chi si sente ed è conquistato dal "demone del comunismo", da un legame profondo e cosciente con gli interessi della classe chiamata a rivoluzionare la società presente, conosce le regole deterministicamente fissate di essa e quelle, altrettanto determinate, della lotta per emanciparsene e non si limita a rifletterle, ma le traduce in azione liberatrice; non come "individuo", ma come membro della collettività umana (presente, passata e futura) in lotta per uscire dalla propria "preistoria". Nelle Considerazioni sull’organica attività del partito quando la situazione generale è storicamente sfavorevole,del ’65, Bordiga chiosa quel passaggio in quest’altra "sconcertante" maniera:

"E’ compagno militante comunista e rivoluzionario chi ha saputo dimenticare, rinnegare, strapparsi dalla mente e dal cuore la classificazione in cui lo iscrisse l’anagrafe di questa società in putrefazione, e vede e confonde se stesso in tutto l’arco millenario che lega l’ancestrale uomo tribale lottatore con le belve al membro della comunità futura, fraterna nella armonia gioiosa dell’uomo sociale".

(Questo riferimento all’uomo sociale non sta "anziché" la classe, se ne prenda ben nota!, non "prescinde" da essa, ma la assume nel suo "significato storico-mondiale", come spiega Lenin in Stato e rivoluzione: "L’uomo nel proletariato ha perduto se stesso, ma, contemporaneamente, non solo ha acquistato la coscienza teorica di questa perdita, bensì è spinto direttamente dalla necessità (..) alla ribellione contro questa inumanità; ecco per quali ragioni il proletariato (eccoci al soggetto!, n.) può e deve emanciparsi. Ma esso non può emanciparsi senza sopprimere tutte le proprie condizioni di vita. Esso non può sopprimere le proprie condizioni di vita senza sopprimere tutte le inumane condizioni di vita della società attuale, che si riassumono nella sua situazione"; "La sua (del proletariato, n.) meta e la sua azione storica sono tracciate in modo sensibile e irrevocabile nella situazione della sua vita, come in tutta la organizzazione della odierna società borghese". Ne discende che "se il proletariato vince, esso non perciò diventa il termine assoluto della società; infatti esso vince solo superando se stesso ed il suo opposto. Allora scompare tanto il proletariato quanto l’antitesi che lo condiziona, e cioè la proprietà privata".)

Il partito, dunque, può dirsi partito operaio in quanto rappresenta l’antitesi comunismo-capitalismo e, in ciò, trova il proprio perno nella classe in cui "si riassumono" le condizioni di inumanità della complessiva società borghese, ma non un partito operaista in senso sociologico né il suo fine è un presunto "potere operaio": questa formula, è già scritto in Marx, è piuttosto propria del "comunismo rozzo" incapace di giungere ad una visione rivoluzionaria autentica e vede piuttosto il futuro come una generalizzazione, una universalizzazione del sistema della produzione di merci, della proprietà privata, del salario infine e dello Stato, rimediando alla sola "ingiustizia" della proprietà e del potere nelle mani dei soli borghesi.

  Lenin diceva (ripetiamo a mente): siamo dei militanti liberamente associatisi tra loro (liberamente nel senso che tutti sottostiamo a quel famoso "demone") e che si tengono fortemente per mano camminando per un’erta scoscesa. Unendoci nella collettività-partito nessuno di noi "perde la propria libertà" perché non si dà con ciò ad una istituzione esterna cui ubbidire ciecamente da sottoposto, ma aderisce volontariamente e volontariamente contribuisce a far crescere quell’organo collettivo di scienza e di lotta entro cui solo sente di potersi riconoscere come uomo sociale. Nel partito il militante conosce ed agisce in quanto tale e perciò ad esso dedica "gioiosamente", possiamo dirlo, tutte le proprie energie. Gioiosamente non vuol dire senza prezzo per le proprie tasche, per la propria vita se occorre, ma sta ad indicare quel senso di appartenenza liberatoria alla comunità sociale alla quale non può sottrarsi e per la quale nessun sacrificio "personale" è eccessivo.

Chi non sta su questa lunghezza d’onda non potrà mai capirlo. Non lo capirà mai il piccolo-borghese innamorato di sé stesso come membro della società presente e ben lieto di confondersi con l’anagrafe in cui si trova iscritto in quanto tale (e relativo portafogli). Ma non potrà mai capirlo anche chi indulge a considerazioni della milizia del tipo: chi entra nel partito è chiamato (... dalla fureria) a rinunziare ad una parte di sé stesso, delle proprie libertà, a sacrificarsi.

No, il militante non sacrifica nulla di sé aderendo al partito, non perde un sol grammo di libertà, ma l’acquista nel senso sociale che s’è detto. Certo: a patto di aver mandato a spasso i diritti che gli competerebbero come schiavo o profittatore di questa società inumana, a patto di avere a disgusto le guarentigie che da ciò potrebbero derivargli, di apprezzare non più che merda le delizie del vivere e del "pensare" borghese.

Se è vero che il singolo entra nel partito non in quanto individuo, o, peggio, "personalità", ma in quanto membro cosciente della propria classe (e, con ciò delle ragioni stesse della specie umana), è altrettanto vero che il partito, in quanto organo collettivo di direzione non può presentarsi ad esso come qualcosa di esterno, come un casellario in cui passivamente inserirsi. Il ferreo centralismo, la ferrea disciplina del partito vigono e valgono, marxisticamente, in quanto corrispondono ai bisogni collettivi espressi dal singolo militante e ne rappresentano la possibilità di realizzazione. Non è che il singolo mette a disposizione la propria disciplina e il partito gliela impartisce come "ordini". Se questo avviene, ciò può solo significare che qualcosa di fondamentale è andato perso nel partito. Potremmo dire: il singolo si ordina nel partito; ma anche: il partito stesso si ordina sforzandosi di corrispondere nella sua teoria, nel suo programma politico, nella sua azione ai contenuti cui è chiamato a rispondere. Il partito non è "sovrano"; esso stesso è chiamato ad una disciplina sostanziale, è l’organo della lotta per l’emancipazione, non il libero facitore di essa. (Bordiga scrive icasticamente: i partiti, come le rivoluzioni, non si fanno, si dirigono).

  Individuo e collettività

Nella Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico Marx bolla la concezione hegeliana del rapporto individuo-Stato, singolo-totalità, svelandone, sotto l’aspetto formale (democratico e "totalitario" ad un tempo) il senso di rispecchiamento ed idealizzazione della società borghese. Ne riportiamo alcuni passaggi perché, come si vedrà, in essi è posto il corretto modo nostro di porre il problema singolo-collettività, che si applica tanto alla società socialista che al partito; al lettore cogliere il nesso tra le posizioni criticate da Marx e l’ingegneria modellistica stalinistoide cui si siamo riferiti:

  "Tutti singolarmente -afferma Hegel- debbono prendere parte alla discussione e risoluzione degli affari generali dello Stato" (del Partito); "In uno Stato realmente razionale (qui il termine non va inteso come forma statale specifica, ma piuttosto come società, n.) -replica Marx- "non devono tutti singolarmente prender parte alla discussione e risoluzione degli affari generali dello Stato", ché i "singoli" partecipano in quanto "tutti", cioè nella società e come membri di questa... non tutti in quanto individui, ma gli individui in quanto tutti... La totalità (hegeliana, n.) non è qualcosa per cui esso (l’individuo, n.) perda la determinazione dell’individualità astratta; bensì la totalità è soltanto numero totale di singolarità. Una individualità, molte individualità, tutte le individualità. Una, molte, tutte - nessuna di queste determinazioni muta l’essenza del soggetto, dell’individualità".

Chiediamo venia per l’"oscurità" del passo e rincariamo la dose con un brano dell’Ideologia tedesca che lo completa:

"Appunto perché gli individui cercano (nella società borghese, n.) soltanto il loro particolare interesse, che non coincide col loro interesse collettivo, e il generale di solito è forma illusoria della collettività, questo viene imposto come un interesse "generale", anch’esso a sua volta particolare e specifico, ad essi "estraneo" e da essi "indipendente", o gli stessi individui devono contrapporsi in questo dissidio, come nella democrazia. Giacché d’altra parte anche la lotta pratica di questi interessi particolari che sempre si oppongono realmente agli interessi collettivi e illusoriamente collettivi rendono necessario l’intervento pratico e l’imbrigliamento da parte dell’interesse "generale" illusorio sotto forma di Stato".

Sciolto il velame di questi detti oscuri, ci si renderà conto di come il "modello" di partito stalinista rappresenti la copia conforme della "totalità"-Stato, e lo si può capire benissimo considerando proprio la sua natura ideologica borghese e, nel caso specifico dello stalinismo classico, la sua identificazione con le ragioni (borghesi) di Stato. (Nel caso dei partiti post-stalinisti, che hanno abiurato il concetto di "totalità" in nome della "naturale" e consensuale riassunzione delle singole individualità e relativi singoli appetiti nell’ambito della "libera" società attuale -non per questo meno totalitaria, "gli stessi individui devono contrapporsi in questo dissidio" come singoli; per l’appunto).

 Contro la falsa disciplina, il falso centralismo

Può sembrare un paradosso a chi non è uso a maneggiare la dialettica, ma i marxisti, proprio in quanto sostenitori della massima centralizzazione, dell’estrema disciplina, sono anche i più feroci fustigatori della cieca disciplina per la disciplina col suo corteggio di sanzioni amministrative "sovranamente" amministrate dal centro, di "lotte politiche" all’interno del partito come metodo normale di funzionamento, di critiche ed autocritiche.

Dobbiamo qui ricordare, ad illustrazione del tema, l’esempio storico del PCd'I diretto dalla Sinistra, che nessuno ha sin qui potuto scalfire. Nel suo periodo di direzione del partito, Bordiga non ha mai esercitato questi mezzi. Eppure, nel partito esistevano varie sensibilità e tendenze, spesso inclinanti alla refrattarietà e persino all’opposizione aperta alla linea del centro. C’erano il Gramsci consiliarista, il destro Tasca, il revisionista delle dottrine economiche di Marx Graziadei etc. etc. Alle loro svisate, però, Bordiga mai pretese di rispondere con ordini e sanzioni, ma tentando di stringere tutte queste sincere energie militanti in un lavoro collettivo che, nella coerenza complessiva di dottrina e di azione indicata dal centro, valesse a farle lievitare nel verso giusto. La consegna di principio era: se qualcosa nel partito non va, è l’insieme del partito che deve sentirsene coinvolto, è il partito a doversene sentire responsabile. L’amarxismo di Gramsci è un problema del partito, che a questa scala dev’essere superato, non un problema dell’individuo Gramsci, magari da prendere per ciò a pedate (ed a tanto Bordiga si atterrà anche dopo di esser stato preso a pedate dal centrismo gramsciano promosso a centro del PCd’I dall’Internazionale, con atto che diciamo d’arbitrio non per il violato rispetto dei democratici diritti della maggioranza di Sinistra, ma per il suo carattere sostanziale di reinversione di linea cui tale misura amministrativa corrispondeva).

Questo perché "il partito va considerato come un organismo unitario nella sua dottrina e nella sua azione, la cui appartenenza impone tassativi obblighi a capi ed a gregari, ma a cui l’atto di adesione (o di allontanamento) avviene senza l’intervento di costrizione fisica alcuna, e ciò deve avvenire nello stesso modo prima, durante e dopo la conquista del potere" (Natura, funzione e tattica del partito rivoluzionario della classe operaia, 1945, II-§16).

Nelle Tesi di Lione del ’26 la posizione marxista su questo tema è espressa in termini definitivi. Ci prendiamo il lusso di stralciarne abbondantemente un passo cruciale, anche a dimostrazione di quale sia stata la linea della Sinistra, pur stretta in un angolo, vessata in ogni (e spesso immondo) modo, non per rivendicare "a sé" i conculcati "diritti democratici" che le competevano, ma per riaffermare i criteri sostanziali della necessaria e vera disciplina comunista:

"Un altro aspetto della parola bolscevizzazione è quello di far consistere la sicura garanzia della efficienza del partito in un completo accentramento disciplinare e nel severo divieto del frazionismo.

L’ultima istanza per tutte le questioni controverse è l’organo centrale internazionale, nel quale si attribuisce, se non gerarchicamente, almeno politicamente, una egemonia al Partito Comunista Russo.

Questa garanzia in realtà non esiste, e tutta la impostazione del problema è inadeguata. In linea di fatto non si è evitato l’imperversare del frazionismo nell’Internazionale, ma se ne sono incoraggiate invece forme dissimulate ed ipocrite. Dal punto di vista storico poi il superamento delle frazioni nel partito russo non è stato un espediente né una ricetta ad effetti magici applicata sul terreno statutario, ma è stato il risultato e l’espressione della felice impostazione dei problemi di dottrina e di azione politica.

Le sanzioni disciplinari sono uno degli elementi che garantiscono contro le degenerazioni, ma a patto che la loro applicazione resti nei limiti dei casi eccezionali, e non divenga la normalità e quasi l’ideale del funzionamento del partito.

La soluzione come non sta in una esasperazione a vuoto dell’autoritarismo gerarchico (...) così non sta in una applicazione sistematica dei principi della democrazia formale, che nel marxismo non hanno altro posto che quello di una pratica organizzativa suscettibile di essere comoda.

I partiti comunisti devono realizzare un centralismo organico che, col massimo compatibile di consultazione della base, assicuri la spontanea eliminazione di ogni aggruppamento tendente a differenziarsi. Questo non si ottiene con prescrizioni gerarchiche formali e meccaniche, ma, come dice Lenin, colla giusta politica rivoluzionaria.

La repressione del frazionismo non è un aspetto fondamentale della evoluzione del partito, bensì lo è la prevenzione di esso.

Essendo assurdo e sterile, nonché pericolosissimo, pretendere che il partito e l’Internazionale siano misteriosamente assicurati contro ogni ricaduta o tendenza di ricaduta nell’opportunismo, che possono dipendere da mutamenti della situazione come dal gioco dei residui delle tradizioni socialdemocratiche, nella risoluzione dei nostri problemi si deve ammettere che ogni differenziazione di opinione non riducibile a casi di coscienza o di disfattismo personale può svilupparsi in una utile funzione di preservazione del partito e del proletariato in generale da gravi pericoli.

Se questi si accentuassero, la differenziazione prevederebbe inevitabilmente ma utilmente la forma frazionistica, e questo potrebbe condurre a scissioni non per il bambinesco motivo di una mancanza di energia repressiva da parte dei dirigenti, ma solo nella dannata ipotesi del fallimento del partito e del suo asservimento ad influenze controrivoluzionarie. (...)

Il pericolo dell’influenzamento borghese sul partito di classe non si presenta storicamente come organizzazione di frazione, ma piuttosto come una accorta penetrazione sventolante una demagogia unitaria e operante come una dittatura dall’alto, immobilizzatrice delle iniziative della avanguardia proletaria.

Si riesce ad individuare e colpire un simile fattore disfattista non ponendo la questione di disciplina contro i tentativi di frazione ma riuscendo ad orientare il partito ed il proletariato contro una tale insidia nel momento in cui prende l’aspetto non solo di una revisione dottrinale, ma di una proposta positiva di una importante manovra politica ad effetti anticlassisti.

Uno degli aspetti negativi della cosidetta bolscevizzazione consiste nel sostituire alla elaborazione politica completa e cosciente nel seno del partito, che corrisponde ad un effettivo progresso verso il centralismo più compatto, una agitazione esteriore e clamorosa delle formule meccaniche dell’unità per la unità e della disciplina per la disciplina.

I risultati di questo metodo danneggiano il partito ed il proletariato e ritardano il raggiungimento del "vero" partito comunista. Questo metodo (...) è di per se stesso un grave sintomo di un latente opportunismo."

Dove le "garanzie"?

La negazione della falsa disciplina implica un’affermazione ancor più recisa dell’autentica disciplina di partito. Sugli aspetti fenomenici di essa abbiamo sin qui solo fatto degli accenni e ci ritorneremo in appresso. Diciamo, per il momento, che essa è totale ed incondizionata (nel senso di: non condizionata a pruriti individualistici, borghesi, non nel senso -come da tutto quanto sopra- di cieca sottomissione ad un’autorità, ad un potere incondizionato esterno). Ma, per l’appunto, la disciplina del singolo militante, che, nella nostra visione marxista, è il singolo-tutto di cui parla Marx, comporta analoga disciplina da parte del tutto-Partito, che non può ridursi a falsa totalità e, quindi, a sua volta, particolarità, individualità.

Nel Dialogato coi morti, del ’56, Bordiga chiarisce al meglio questa ardua questione dialettica e non ci resta che copiare diligentemente:

  "Dove dunque trovare le garanzie contro la degenerazione, il disfacimento del corso del movimento, del suo partito? (La degenerazione del partito, attenti!, non il reato di violata "democrazia", "collegialità" e banalità del genere, n.) In un uomo è poco (..). E’, se unico, pessima fragile garanzia, anche se in uno solo la si credesse insita. (Fosse, quell’unico, pure Lenin: il culto -formale per definizione- all’autorità personale di Lenin ha, esso stesso, provocato più danni di quanti non ne abbia parati come garante disciplinare, n.)

"Prenderemmo tuttavia sul serio il gran vantare di aver trovato la garanzia collegiale (..)? Tutto ciò non è serio (..) (i marxisti, come non credono all’Unico così non credono ad un collegio di... unici, irridono all’autorità individuale monocratica ed irridono a quella democratica dei tot capita tot sententiae che si mettono ai voti per decidere al meglio, n.)

"Le nostre garanzie sono note e semplici.

1) TEORIA. Come abbiamo detto non nasce in una fase storica qualunque, né attende per farlo l’avvento del Grande Uomo, del Genio. Solo in certi svolti può nascere: delle sue "generalità" è nota la data, non la paternità. (Geniale Marx? Certamente, se con ciò si vuol dire che egli ha teoricamente sistematizzato i dati della realtà oggettiva, ivi compreso il "rovesciamento della prassi", che appartiene anch’esso all’oggettività; ma neghiamo anche a Marx il titolo di "creatore", di "padre": e fu lui il primo a dirsi "non marxista" cavandoci a tempo simili castagne dal fuoco, n.) La nostra dovette nascere dopo il 1830 sulla base dell’economia inglese. Essa garantisce in quanto (anche ammettendo che l’integrale verità e scienza sono obiettivi vani, e solo si può avanzare nella lotta contro la grandezza dell’errore) la si tiene ferma nelle linee dorsali formanti un sistema completo. (Non negheremo, perciò, l’avanzamento teorico; neghiamo quelle rettifiche ed aggiornamenti che rimettono in causa linee dorsali e sistema per ricadere nella riesumazione di ideologie borghesi, come è regolarmente stato e sarà per tutti i revisionismi, di destra e di sinistra, da Bernstein a Sorel per non scendere al sottoscala dei Bertinotti, n.). Durante il suo corso storico ha due sole alternative: realizzarsi o sparire. (I mezzi-marxismi sono tutti integrali antimarxismi: non si salvano mezze navi, ma, con obiettivi del genere, si può ben affrettare l’inabissamento della nave intera, n.). La teoria del partito è un sistema di leggi che reggono la storia e il suo corso passato, e futuro. Garanzia dunque proposta: niente permesso di rivedere, e nemmeno di arricchire la teoria. Niente creatività.

2) ORGANIZZAZIONE. Deve essere continua nella storia, quanto a fedeltà alla stessa teoria e alla continuità del filo delle esperienze della lotta. (Non parliamo di continuità del nome della ditta, perché: a) un partito formale pur glorioso può deviare dalla fedeltà alla teoria e spezzare quel dato filo nonostante l’immutabile anagrafe -vedi il PCb; b) per converso, alla continuità storica può venir meno quella formale, come stiamo sperimentando da decenni, n.) Solo quando ciò per vasti spazi del mondo, e lunghi tratti del tempo, si realizza, vengono le grandi vittorie. La garanzia contro il centro è che non abbia diritto a creare, ma sia obbedito solo in quanto le sue disposizioni di azione rientrino nei precisi limiti della dottrina, della prospettiva storica del movimento, stabilita per lunghi corsi, per il campo mondiale. La garanzia è che sia represso lo sfruttamento della "speciale" situazione locale o nazionale, dell’emergenza inattesa, della contingenza particolare. (Nel tempo e nello spazio si danno, ovviamente, situazioni "particolari"; ma queste o sono inquadrabili ed inquadrate nella teoria e nel programma d’insieme -quindi non inattese- o rappresentano il grimaldello per far saltare in aria le fondamenta del partito, senza salvare, com’è logico, alcun... tetto, n.). O nella storia è possibile fissare concomitanze generali tra spazi e tempi lontani, ovvero è inutile parlare di partito rivoluzionario, che lotta per una forma di società futura. (..) Nessuna direzione di partito può annunziare svolti del genere da un anno all’altro. (..) Annunziatore di "nuovo corso" uguale traditore.

Garanzia contro la base e contro la massa (come sopra, il "contro" vale nei confronti della pretesa "libertà" dei soggetti in questione, la loro pretesa "indipendenza", n.) è che l’azione unitaria e centrale, la famosa "disciplina", si ottiene quando la dirigenza è ben legata a quei canoni di teoria e pratica, e quando si vieta a gruppi locali di "creare" per conto loro autonomi programmi, prospettive, e movimenti.

Questa dialettica reazione tra la base e il vertice della piramide (..) è la chiave che assicura al partito, impersonale quanto unico, la facoltà esclusiva di leggere la storia, la possibilità di intervenirvi, la segnalazione che tale possibilità è sorta. (..)

3) TATTICA: Sono vietate dalla meccanica del partito (non da dettati costituzionali, n.) "creatività" strategiche. Il piano di operazioni è pubblico e notorio e ne descrive i precisi limiti, ossia i campi storici e territoriali. Un esempio ovvio: in Europa, dal 1871, il partito non solidarizza con alcuna guerra di Stati. (..) In Asia e Oriente, oggi tuttora, il partito appoggia i moti rivoluzionari democratici e nazionali e un’alleanza di lotta tra proletariato e altre classi fino alla borghesia locale. Diamo questi crudi esempi per evitare si dica che lo schema è uno e rigido sempre e dovunque: (..) La dittatura di classe e di partito non degenera in forme diffamate come oligarchie, a condizione che sia palese e dichiarata pubblicamente in relazione ad un preveduto ampio arco di prospettiva storica, senza ipocritamente condizionarla a controlli maggioritari, ma alla sola prova della forza nemica. (..)

"Il programma deve contenere in linea netta l’ossatura della società futura in quanto negazione di tutta la presente ossatura, punto dichiarato di arrivo per tutti i tempi e luoghi. Descrivere la presente società è solo una parte del compito rivoluzionario. Deprecarla e diffamarla non è affar nostro. (Ciò significa che la negazione della società attuale o è ancorata all’affermazione della società futura, in totale antitesi con la presente, o si conclude in pure geremiadi moralistiche e pietistiche contro "singoli aspetti ingiusti" -aggettivo che useremo con cautela- di essa e, quindi, in un particolarismo immediatista che vale a riaffermarla nella sua totalità, n.) Costruire nei suoi fianchi la società futura nemmeno. Ma la rottura spietata dei rapporti di produzione presenti deve avvenire secondo un chiaro programma, che scientificamente prevede come su questi spezzati ostacoli sorgeranno le nuove forme di organizzazione sociale, esattamente note alla dottrina del partito".

La verifica pratica

L’impaziente, prima ancor di cercare di capire cosa significhino questi fondamentali assiomi, ci chiede di andar per le spiccie, di essere pratici, di portar esempi concreti.

E noi li portiamo, avvertendo, però, che, come in ogni scienza che si rispetti, l’esempio vale ad illustrare una legge, una teoria, non a farne a meno e che anche un biliardo di esempi senza questo qualcosa cui riferirli non aprirebbe nessuno spazio utile di conoscenza ed azione, ma un biliardo di regolari cantonate. (Perciò parliamo, con Bordiga, di doverosa ripulsa del "concretismo" e dell’"attualità" in quanto veicoli di un agire immediatistico alla coda dei fatti e di una corrispondente "teoria", se così potessimo dire, dell’inanità di ogni teoria; non a caso gli attuali "uomini di sinistra" sono per il pensiero debole e, quanto ad azione, di midollo ce n’è ancor meno).

Un esempio emblematico: la questione del fascismo. La nostra scuola nega in teoria che il fascismo rappresenti un fenomeno nuovo rispetto ai caratteri fondamentali ed all’evoluzione del capitalismo; nega che si possa parlare, di conseguenza, di "terrorismo degli strati più reazionari" del capitalismo (e, per contraltare, di strati progressisti che ad esso vorrebbero e potrebbero opporsi); nega, ancor più solennemente, che possa vaneggiarsi di "reazione agraria", "feudale". Un fenomeno del genere, in quanto s’inserisce ad un certo stadio di sviluppo del capitalismo e ad un dato trapasso dello scontro antagonista borghesia-proletariato va, pertanto, letto come modernissima manifestazione del capitalismo in quanto sistema, come fatto né nuovo né inopinato, ma piuttosto come riassunto e prova del nove di tutto l’arco del divenire del capitale e dell’antagonismo sociale che ne discende. La forma fascista di distruzione delle organizzazioni di classe e quella dell’organizzazione totalitaria dello stato (col suo partito unico, il suo sindacato unico, le sue corporazioni...) può non essere né definitiva né ottimale -la forma democratica, dice Lenin, è un’arma di dittatura borghese assai più sofisticata ed efficace-, ma il contenuto del fascismo è, in quanto tale, l’ultima parola del sistema borghese ed, in quanto tale, irreversibile: la democrazia post-fascista non può che farsene erede e spenderlo al meglio, per sé e contro di noi. Ogni ritorno all’epoca della primitiva democrazia borghese, al tempo ed alle condizioni, cioè, in cui essa era tuttora una classe rivoluzionaria (che meritava persino l’alleanza del proletariato) sta nel regno dei sogni o, piuttosto, della truffa.

Le soluzioni tattiche non possono escogitarsi al di fuori di queste coordinate. Non ci sono né possono esserci, dinanzi allo scontro cruciale di classe, delle frazioni borghesi con cui si possa stringere un programma organico di unità nella lotta contro il contenuto del fascismo. L’opportunismo andò a cercarsele ovunque: tra gli industriali "moderni e progressisti", tra i liberali dell’Aventino, tentò con D’Annunzio e gli autonomisti sardi, sbirciò tra le redazioni dei grandi giornali democratici, sperò nella forza pubblica e persino nel Re. Con i risultati che sappiamo: quello di trovarsi non solo regolarmente isolati dai presunti compagni di cordata, ma, e soprattutto, di indebolire a morte il nostro fronte, perché -altro nostro punto di principio- una determinata tattica disfattista, in quanto espressione di un disfattismo teorico, reagisce su chi se ne fa carico, non è un "usa e getta" da usare indifferentemente ad libitum.

Sul piano organizzativo: l’organizzazione del partito dev’essere insieme palese e clandestina, politica e militare; le forze militarmente inquadrate del partito non possono ubbidire che alla rigorosa disciplina del partito, escludendosi ogni possibilità (prima ancora che facoltà) di mescolanza con raggruppamenti militarizzati non di partito, fossero pure, da un punto di vista sociologico, puramente operaie, tanto più con forze extra o pluriclassiste e politicamente extra ed antipartito. (La rigidezza nei confronti degli Arditi del popolo, su cui tanto si è indegnamente speculato, dimostra che solo il partito riuscì a dare una continuità d’azione clandestina ed anche militare alla lotta al fascismo e precisamente in forza di questa "rigidezza", mentre l’opposta souplesse l’avrebbe trascinato nella sorte poco gloriosa cui gli Arditi andarono incontro dopo i primi ed ultimi loro fuochi d’artificio in conformità al loro confusionismo teorico, politico ed organizzativo ed alla loro natura apertamente extra, quando non anti-classista).

Ed ancora: nessuna facoltà di gruppi locali o singoli militanti del partito di "escogitare" forme ed azioni di lotta al di fuori del piano e del rigoroso controllo centrale; nessuna considerazione lecita di "particolari condizioni locali" per cui ciascuno si possa gestire come meglio crede, sulla base della "propria esperienza" (e delle "proprie" forze), quella che non è una trincea a sé, ma un reparto di un ordinato esercito unitario. Strettissime misure di controllo, e non unicamente di "autocontrollo", sui militanti, su ciascuno, individualmente, di essi.

(Annotiamo che il senso di questo orientamento organizzativo non si attaglia esclusivamente alla "particolare" contingenza del caso specifico in questione, non è legato ad una "particolare" emergenza militare usciti dalla quale se ne possa fare a meno: esso corrisponde ad un dato permanente, come poi vedremo, della vita del partito, forse anche più urgente in tempi di "normalità", di "pace sociale": lo scontro in atto scava, in qualche modo, già di per sé, delle trincee ed assegna a ciascuno il proprio posto; è proprio l’ammorbante stato di "pace sociale" che rende più impellente, e difficile, una sana pratica organizzativa militante)

Prendiamo ora il caso rovesciato: l’opportunismo picista alla prova della seconda guerra mondiale.

Teoria. Dopo il tentativo maldestro di fare appello alle camicie nere per la "rigenerazione" del fascismo sulla base del programma "progressista" del ’19 (un "incidente di percorso" che pochi conoscono e di cui si preferisce non parlare), la "linea" del PCI, in conformità a Mosca, si modifica allo scoppio della guerra ed in presenza del patto Hitler-Stalin: la guerra è imperialista ed il disfattismo va praticato da ogni lato, salvo che da quello del "paese del socialismo". Si finge di ritornare, teoricamente, a Lenin, ma si tratta di una parodia dell’internazionalismo che riduce la lotta proletaria dei vari paesi (singoli) ad un appoggio alle ragion di stato sovietiche, con le quali la causa del socialismo viene fatta coincidere (e con quali risultati si era visto in Spagna e nei plotoni di esecuzione ordinati da Stalin, con l’applauso "disciplinato" dei Togliatti, per tutta la vecchia guardia bolscevica). Hitler attacca la Russia, ed ecco un nuovo rovesciamento di "linea" teorica: la guerra in corso è guerra del progresso contro la reazione, degli Stati democratici e dell’URSS "socialista" contro il nazi-fascismo. E’ una guerra per la Libertà, quella del supposto socialismo moscovita e quella delle centrali imperialistiche, colonialistiche, schiavistiche dei Roosevelt e dei Churchill solidali tra loro. Con ciò, tutta la teoria marxista del capitalismo è rovesciata, da cima a fondo.

Tattica. Posta l’identità di fini tra stati che si fingono tuttora difformi quanto a sistemi sociali, ne risulta l’identità di fini tra i diversi partiti e le diverse classi sociali che in questa lotta si troverebbero accomunati. La parola passa ai fronti popolari resistenziali, per definizione (e finalità) interclassisti. Tutte le classi assieme, in nome delle "comuni" libertà da riconquistare -quelle degli sfruttatori come quelle degli sfruttati-. Di più: ogni singolo paese, per meglio attrezzarsi alla vittoria, deve regolarsi sulle proprie esigenze, le proprie particolarità, ed altrettanto vale per i singoli partiti "comunisti": nel ’43 Mosca scioglie formalmente l’Internazionale, spiegando "teoricamente" che ne è passato il tempo perché "col crescere delle complicazioni nelle relazioni interne ed internazionali dei vari paesi, qualsiasi genere di centro internazionale avrebbe incontrato ostacoli insuperabili nel risolvere i problemi che si ponevano al movimento in ciascun singolo paese". Una realtà italiana, dunque, ed una corrispondente tattica italiana... al servizio del capitale, quello "nazionale" e quello mondiale. Consegna di battaglia: lotta al tedesco in quanto tedesco (cuius Status, eius religio); a nessuno passi per la testa di proporre un programma di fraternizzazione di classe con l’elemento proletario in divisa tedesca perché ciò significherebbe, per l’appunto, attentare alla causa bellica degli imperialisti buoni e della patria del socialismo e l’immediato frantumarsi dell’unità interclassista ciellenistica ed oltre tutto ciò richiederebbe un dato centro rivoluzionario internazionale di cui si è esclusa a priori la possibilità e l’opportunità...

Organizzazione. La direzione della rete combattente del "partito nuovo" ha la facoltà di stringere a proprio piacimento tutti i migliori accordi operativi che vuole con le altre formazioni politiche, di stipulare con esse (con le classi da esse rappresentate) tutti i piani per la ricostruzione post-fascista che meglio crede. Gli alti vertici militari del CLN possono e devono subordinarsi agli omologhi anglo-americani che tengono il bastone dalla parte del manico perché, per definizione, il "garibaldinismo" funge da appendice alle esigenze militari (e sociali, e politiche) di cui questi ultimi sono portatori. Qui la disciplina è tutta ed esclusivamente proimperialista. Ma una ben diversa disciplina deve esercitarsi da parte del PCI sul proprio corpo militante. Proprio perché ci troviamo di fronte ad una linea che ha conosciuto e conoscerà, in quanto controrivoluzionaria, ogni sorta di adattamenti ed innovazioni, s’impone ai vertici del PCI la necessità di "incasermare" i propri militanti. A questi è dato solo di giurare sulla giustezza della linea del partito, quale che sia (e la demagogia classista, sparsa a piene mani, vale unicamente quale punto d’appoggio per lo sfruttamento dell’energia e della disponibilità alla lotta di cui il proletariato, e solo esso, è capace). Il regime di caserma deve servire a stroncare sul nascere i dubbi, poniamo, sulla "svolta di Salerno", sui pateracchi col conquistatore dell’Africa Imperiale Badoglio, sulla ricostituzione dall’alto dei partiti ciellenistici della CGIL pescando a piene mani dal funzionariato e dai programmi corporativi fascisti; deve servire a diffamare l’opera dei rivoluzionari additandoli a "spie della Gestapo", ad impedire che forze armate partigiane non immemori degli obiettivi proletari di classe agiscano localmente in difformità agli scopi della "concordia di classe" in vista del dopoguerra, che elementi proletari coscienti si diano da sé una vera CGL rossa -come avvenne nel Meridione, trovando subito contro il fuoco di sbarramento delle vecchie e nuove guardie bianche-, che altri proletari e "popolo" coscienti rifiutino l’arruolamento forzato sui "nuovi" fronti di guerra segnati dagli anglo-americani riconoscendo in essi dei nuovi padroni imperialisti -come si diede in Sicilia-.

Certo, con queste premesse, la disciplina ci fu, e quale disciplina! Amendola ha ben ragione di vantarsene. Ma non è la disciplina del comunista: è quella del furiere del capitale.

Il militante comunista

  La ripulsa della falsa disciplina (del falso partito che la impone) non serve, s’è detto, ad attenuare l’esigenza della disciplina e del partito autentici. Al contrario, ancor meglio la evidenzia collocandola sulle sue giuste coordinate. Noi non saremo meno ferrei dei vecchi militanti stalinisti e del loro centro; lo saremo di più, ma su altri ed opposti binari (e, di conseguenza, con ben altre modalità).

Un effettivo partito comunista non farà evidentemente a meno di gradini decisionali differenziati, dalla base al vertice; non farà a meno di impartire ordini tassativi ai suoi militanti. Ma non copierà in questo dalla società borghese presente: non si costruirà secondo un ordine di "gerarchie", di funzionari e tantomeno di capi a sé stanti, liberi di opinare e decidere a loro arbitrio. Vi è partito comunista quando questo vincoli tutti i suoi membri all’unità di teoria, di programma, di politica; quando, su questo terreno fondante, la dialettica base-vertice sia continua, fraterna. Il corpo militante dell’organizzazione è uno, è una collettività che fa del partito un "ambiente ferocemente antiborghese", il che significa esclusione organica da sé di tutte le caratteristiche proprie della società che siamo chiamati a combattere: la divisione del lavoro come dato istituzionale che relega di fatto il "semplice" proletario di base all’esclusiva funzione di sottoposto-esecutore, le gerarchie istituzionali dei posti di comando (casse comprese), il culto servilistico e cieco dei capi sovrani quale corrispettivo dell’impotenza della base dei "singoli".

Se si è capito questo, si può capire quello che il partito deve pretendere dal singolo militante che chiede di aderirvi e quello che quest’ultimo deve sentire di dover liberamente, spontaneamente (qui possiamo dirlo!) dare ad esso.

Nel momento in cui un compagno aderisce (come "tutto": vedi sopra Marx) al tutto-Partito, sa di aver già cancellato da sé le caratteristiche -ed i "diritti"- dell’individuo. Sa di voler entrare in un’organizzazione in cui non gli è concesso di pensare e decidere "di per sè", secondo una supposta sua propria testa o, peggio, secondo i propri interessi, materiali o "spirituali" che si vogliano. Sa che i suoi stessi modi di vita devono conformarsi non ad una legge esterna che gli verrà imposta da "qualcuno", ma alle esigenze del pensare e vivere da comunista.

Qualche esempio. Cominciando dalla parte materiale terra a terra -forse la più facile a trangugiarsi-, il militante comunista sa che la misura delle sue contribuzioni materiali al partito non verranno decise da lui, ma dall’organizzazione, secondo criteri di razionalità collettiva (ciascuno secondo le sue possibilità in rispondenza alle necessità collettive dell’organizzazione), il che è già l’anticipazione della società comunista che il partito può e deve dare.

  Non solo -e qui siamo alla parte forse più difficile-. Il militante comunista sa che il partito è chiamato a pianificare anche i suoi "tempi" di vita, richiedendo ad esso un analogo uso collettivo delle sue disponibilità in materia, e, soprattutto, che analoga sorte spetta ai suoi comportamenti "privati". Il partito non tollera militanti che anche si spendono in quattrini e tempo messo a disposizione per l’attività, ma si ritagliano poi degli spazi di vita privata in cui possano liberamente scimmiottare i costumi della società attuale.

E’ tesi fondamentale del marxismo che non esistono sfere private, che gli aspetti anche più "personali" della vita di ciascuno hanno una valenza sociale e che compete al partito battersi contro la "socialità" bestiale del capitale per affermarne una propria, antagonista. Il partito "s’intromette nei fatti privati"? Sì, per cancellare da essi il marchio della permanente intromissione borghese.

Farfalloni amorosi, frequentatori di bordelli o di chiese (per "vocazione" od interesse), consumatori di droghe, maschilisti pertinaci etc. etc. non possono entrare nell’organizzazione senza previo abbandono di simili tare, in quanto proprie della società attuale e, in forza di ciò, d’impedimento all’estrinsecarsi di una vera vita sociale di partito. Non è che vogliamo proporre un "modello", tipo falansterio, di puri e perfetti, che sarebbe una colossale sciocchezza, ma sottolineare che nel partito si entra tutti interi o se ne resta fuori; che è compito del partito controllare e liberare tutti i suoi membri dall’universale drogatura della società presente. Per chiarire meglio: non si chiedono ai candidati certificati aprioristici di... illibatezza, ma la disponibilità a voler essere sottoposti a quest’opera di controllo e di educazione generale da parte dell’organo collettivo, sociale del partito. (Se credessimo diversamente, ritorneremmo per altra via all’idealizzazione dell’individuo che decide ed agisce di per sé; al contrario, spetta al partito essere scuola di educazione collettiva nel campo delle idee, dell’azione politica, dei comportamenti "privati").

Tutto questo è "perdita della libertà individuale"? Per il piccolo-borghese sì. Il filosofo esistenzialista Karl Jaspers dice che l’individuo "nella massa non è più sé stesso", che ogni massa organizzata "è sempre un alcunché di aspirituale ed inumano" per la sua tendenza a "non sopportare alcun essere indipendente e alcuna grandezza, e ad allevare gli uomini come formiche". Noi diciamo che in quanto individuo l’uomo non è più sé stesso, ma una formica dipendente e gravida d’ogni bassezza dell’immondo termitaio borghese.

Nel partito il singolo individuo in quanto parte di una collettività impara a travalicare tale basso orizzonte, prende coscienza dei problemi, s’impadronisce della teoria (la teoria s’impadronisce di lui), si eleva alla capacità di conoscere e decidere come un tutto. Svellendosi dall’abbrutimento mentale e morale cui lo condanna -in quanto individuo- l’attuale società, il proletario anche più rozzo ed ignorante può giungere, nel partito, alla vera grandezza delle più alte vette teoriche che gli si vorrebbero negate (per riservarle all’"esistenzialismo" dei campioni di pensiero borghesi) e, con ciò, all’indipendenza antagonista nei confronti della disumana società attuale.

  In una lettera del ’52 Bordiga scrive: "Non ripetiamo la baggianata che gli operai non arrivano a capire. Voi non avete pratica degli intellettuali e non sapete abbastanza quanto sono vuoti fessi e vili e difficili a spostarsi di un millimetro dai pregiudizi dominanti. Da quarant’anni ho imparato a fondo quanto più facilmente un uditorio operaio afferra tesi audaci e radicali e in controsenso alle idee tradizionali, laddove i benpensanti magari con diverse lauree rispondono enunciando fesserie giganti e pietose. Ho quindi deposto per sempre la preoccupazione che gli operai non capiscono. Appunto perché liberi della via scolastica e con un metodo che tiene più dell’istinto che del raziocinio, essi si portano sul piano della loro dottrina di classe, e agiscono di conseguenza".

  La storia dei partiti comunisti offre copia sterminata di esempi di "semplici" militanti pervenuti alla dottrina, alla direzione del movimento. Lo sa bene anche l’esistenzialismo borghese, ed è ciò che esso più teme. Ognuno -si sottintende- deve rimanere al suo posto. Per i proletari deve valere quel che La Bruyère diceva dei contadini del suo tempo: "Essi risparmiano agli altri uomini (all’élite, n.) la pena di seminare, di lavorare e di raccogliere per vivere, e meritano così di non mancare del pane che essi han seminato". E’ sicuro che l’esercito collettivo delle nostre "formiche" saprà tagliare le ali a simili cicale...


(1) Citiamo dall'articolo Il Fascismo di Amadeo Bordiga (ne Il Comunista del 2 dicembre '21) per chiarire questo punto importantissimo di dottrina, che riguarda l'insieme delle posizioni "dottrinarie" della borghesia senescente. Dopo aver detto che il fascismo "manca di una sua ideologia programmatica", Bordiga così articola il discorso:

"La parola ideologia è un po' metafisica, ma noi la adoperiamo a significare il bagaglio programmatico di un movimento, la sua coscienza di una serie di termini da raggiungere con la sua azione. Naturalmente tutto ciò importa un metodo di interpretare e di concepire i fatti della vita sociale e della storia. E premettiamo questo per dire che la borghesia, nell'epoca attuale, appunto perché è una classe sul declino della sua vita storica, ha un'ideologia sdoppiata, ed i suoi programmi esteriori non corrispondono alla sua coscienza interiore dei suoi interessi e dell'azione da esplicare per tutelarli. Quando la borghesia era classe rivoluzionaria, allora essa aveva in tutto il suo vigore la "coscienza" della ideologia sociale e politica che le è propria (il liberalismo). La borghesia "credeva" e "voleva" secondo le tavole del programma liberale e democratico: i suoi interessi scottanti consistevano nel liberare la gestazione del suo sistema economico dalle pastoie delle legislazioni e costituzioni dell'ancien régime ed essa era convinta che la realizzazione di un massimo di libertà politica e la concessione di tutti i possibili diritti e facoltà fin all'ultimo cittadino coincidessero non solo colla universalità umanitaria della sua filosofia, ma col massimo sviluppo della vita economica.

"E infatti il liberalismo borghese se era ottima arma politica per fare dello Stato l'esecutore supremo della economia feudale e dei privilegi dei primi due "stati", era anche un non disprezzabile attrezzo perché la funzione "di classe" dello Stato parlamentare borghese si esplicasse non solo verso il passato e le sue restaurazioni, ma altresì contro le manifestazioni del "quarto stato" e gli attacchi del movimento proletario. Era la coscienza di questa seconda funzione della democrazia, di questo suo cambiamento di fronte storico, della trasformazione di essa da fattore rivoluzionario in fattore conservatore, che mancava nella prima fase di vita della borghesia. (..) Gli ideologi del liberalismo non solo "dicevano", ma "credevano" che questo metodo di costituzione dell'apparato politico era a benefizio di tutto "il popolo" e costituiva un terreno di parità di diritti per tutti i membri della società: essi non concepivano ancora che per salvare le istituzioni borghesi di cui erano gli esponenti potesse essere necessario stracciare le garanzie liberali scritte nella dottrina politica e nelle costituzioni borghesi. (..) Uno Stato liberale che per difendersi da attacchi deve lacerare le garanzie di libertà è una prova storica della fallacia della dottrina liberale come interpretazione della missione della borghesia e della natura del suo apparecchio di governo. Viene in luce la sua vera finalità: difendere gli interessi del capitalismo, con tutti i mezzi. (..) Ma questa è una dottrina «rivoluzionaria» della funzione dello Stato borghese e liberale. O meglio è rivoluzionario enunciarla, e perciò nella presente fase storica la classe borghese deve metterla in pratica e negarla in teoria. Perché lo Stato borghese esplichi questa sua naturale funzione repressiva e controrivoluzionaria si deve dunque avere una implicita demolizione della pretesa verità del liberalismo come dottrina". (Torna al testo)



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