Che fare n.80 maggio 2014 - ottobre 2014
L'Intervento della Ue e degli Usa in Ucraina è un'aggressione ai lavoratori dell'Ucraina e dell'Est! Ed esso è tutt'uno con la politica anti-proletaria della Bce nell'eurozona e di Renzi in Italia!
I mezzi di informazione democratici affermano che in Ucraina ci sarebbe stata un’insurrezione popolare, che la Russia starebbe manovrando per imporre sul paese il suo pugno di ferro e che l’Occidente sarebbe chiamato a intervenire per salvare la libertà appena conquistata dal popolo ucraino.
Ma quale insurrezione popolare! A prendere in mano il potere a Kiev è stata, in realtà, un’alleanza di gruppi politici e di milizie para-militari dalla ristretta base sociale sovvenzionati e cullati dall’Occidente. La dirigono finanzieri ligi alla dottrina del Fondo Monetario Internazionale e politici alfieri dei gruppi ucraini di estrema destra della seconda guerra mondiale, quelli che collaborarono con la Germania nazista sulla pelle degli operai e dei contadini poveri dell’Ucraina (russi, ucraini, ebrei e polacchi).
Le falsità raccontate dai mezzi di informazione democratici sui fatti di Ucraina servono per giustificare agli occhi dei lavoratori d’Italia e d’Occidente i piani (tra loro contrastanti) con cui gli Usa e l’Ue vogliono mettere le mani sul paese.
L’Occidente imperialista ha sempre considerato l’Ucraina un boccone appetitoso: per le risorse minerarie e agricole (1), e per la posizione geostrategica di cerniera tra l’Europa centrale, la Russia, l’Asia centrale e il Medioriente.
Il terzo tentativo
Le potenze capitalistiche occidentali ne tentarono la conquista all’indomani della prima guerra mondiale, approfittando del crollo della prigione in cui l’Ucraina era stata incapsulata per secoli, l’impero zarista. Il gran colpo non riuscì, perché la popolazione contadina e il proletariato locale assaggiarono il destino coloniale che sarebbe stato loro riservato dai "liberatori" occidentali e dai loro servi locali alla Denikin, e sostennero con entusiasmo la lotta rivoluzionaria guidata dai bolscevichi contro lo sfruttamento dei grandi proprietari terrieri (russi e polacchi), contro l’oppressione nazionale esercitata dallo zarismo, contro la dominazione capitalista.
L’Occidente ritentò il colpo durante la seconda guerra mondiale, quando la Germania nazista, con l’apporto (dimenticato!) delle truppe italiane (v. pag. 7), occupò l’Ucraina. L’occupazione nazista e fascista del paese fu agevolata dallo scontento generato tra le masse lavoratrici locali dalle conseguenze della distruzione ad opera dello stalinismo della politica leninista di fraternizzazione tra i popoli e i lavoratori delle diverse nazioni incluse nell’Unione Sovietica (2) e dell’involuzione della politica dell’Internazionale Comunista guidata da Stalin.
Anche questa volta i conquistatori dovettero mollare la presa. Anche questa volta la massa della popolazione contadina e il proletariato industriale furono protagonisti di un’autentica lotta di liberazione. A differenza di quella del primo dopoguerra, essa non era, però, inserita entro un moto rivoluzionario internazionalista.
Era, invece, inquadrata nel progetto stalinista di promuovere un moderno industrialismo capitalistico autonomo dalle grinfie imperialistiche nell’area compresa tra l’Europa orientale e Vladivostok. Il programma prometteva di realizzare questo obiettivo entro le maglie del mercato mondiale, in competizione e/o in collaborazione con gli altri paesi capitalistici, e di superare, su questa base, le oppressioni sociali e nazionali ereditate dall’epoca zarista.
Lo stalinismo ha effettivamente portato a compimento la rivoluzione borghese nel territorio della ex-Urss, con risultati rilevanti nello sviluppo economico e nella modernizzazione delle strutture sociali dell’immensa area. L’Ucraina offre un esempio significativo di questi risultati. (Basti pensare al livello di istruzione delle immigrate ucraine ridotte a serve nelle famiglie italiane.) Questa grandiosa trasformazione sociale non ha, però risolto i nodi dell’oppressione sociale,delle discriminazioni nazionali e della dipendenza dei popoli dell’area dall’imperialismo. Non poteva farlo, come denunciarono i pochi marxisti rivoluzionari rimasti in campo dopo il 1945, perché questi antagonismi non sono sanati ma solo riprodotti a scala allargata dallo sviluppo capitalistico, anche quando questo sviluppo avviene in assenza di un personale borghese classico, con l’appoggio del proletariato e in contrasto con le grinfie dell’imperialismo, come accaduto nella ex-Urss. Nel 1989-1990 arrivò l’ora della verità (3).
Il crollo dell’Urss non portò solo al dispiegamento degli antagonismi tra le classi e tra popoli fratelli incubati nel contenitore dell’ex-Unione Sovietica. Esso s’intrecciò anche con il ritorno del tentativo imperialista di stabilire il suo dominio neo-coloniale sugli stati est-europei aderenti all’ex-Comecon, sui territori dell’Europa orientale incorporati nella ex-Urss e sulla stessa Russia.
Alcuni paesi (Polonia, Cechia, Slovacchia, Ungheria, Romania, paesi baltici) sono stati incorporati nella sfera occidentale pacificamente e rapidamente. Altri (la Jugoslavia) a suon di bombe. Nell’uno e nell’altro caso l’apparato industriale è stato privatizzato, ristrutturato, centralizzatoalle esigenze delle multinazionali e la forza lavoro locale messa in concorrenza diretta con i lavoratori dell’Europa occidentale. A far da cinghia di trasmissione alla neo-colonizzazione democratica dell’Europa dell’Est è germogliato un ceto politico locale arraffone e mezzano, vezzeggiato e ricattato dagli oligarchi di Berlino, Roma, Parigi, Londra, Washington a suon di prestiti sborsati dalle rispettive banche.
Il destino dell’Ucraina è stato parzialmente diverso (4).
La "multivettorialità" ucraina
Fino al 1990, l’Ucraina ha messo a frutto le sue notevoli risorse agricole e minerarie entro lo sviluppo capitalistico della ex-Unione Sovietica: grazie a questo sviluppo, a cui ha contribuito con un apporto rilevante, è giunta a formare un ampio e articolato apparato industriale localizzato in tre zone principali: quella orientale compresa tra Donec’k, Luhns’k e Charkiv; quella centrale compresa tra Kryvy Rih, Nikopol’ e Dnipropetrovs’k; quella occidentale tra Leopoli e Cernivci. Alcuni esempi: l’Ucraina riforniva di cereali e carbone l’intero Comecon, era un centro di tecnologia avanzata nel settore petrolchimico e aeronautico, controllava il 30% dell’industria militare sovietica, compresi settori avanzati come quelli missilistici e della marina nucleare.
Una volta formato e consolidato, l’apparato industriale ucraino, al pari di quello di altre repubbliche dell’Urss, sentì il bisogno di passare dallo sviluppo estensivo a quello intensivo, fondato sullo sfruttamento intensivo del proletariato, sull’innovazione tecnologica e sull’ingresso completo nei mercati internazionali dei capitali e delle merci.
Poiché il passaggio allo sviluppo intensivo richiedeva capitali liquidi per l’acquisto delle tecnologie produttive possedute dalle potenze occidentali, crebbe la concorrenza tra le repubbliche dell’Urss nella spartizionedei fondi disponibili. Da quil’esigenza di maggiore autonomia da Mosca di una repubblica così capitalisticamente dotata come l’Ucraina.
L’indipendenza è stata l’inevitabile sbocco di questa dinamica una voltaverificato il fallimento del programmagorbacioviano per l’insufficiente forza centralizzatrice della rete capitalistica dell’ex-Urss rispetto a quella dell’imperialismo.
La nascita nel 1991 dello stato indipendente dell’Ucraina, le privatizzazioni in campo agricolo e industrial-finanziario varate dalla direzione delnuovo stato nel 1992-1996, la formazione dalla nomenclatura "comunista" di uno strato borghese ucraino accaparratore dei gioielli dell’industria e della finanza ucraine, l’avvio a Kiev di politiche economiche e di relazioni internazionali svincolate dal centralismo di Mosca non hanno, però,risolto i problemi, li hanno resi più acuti. L’Ucraina si è trovata improvvisamente a navigare senza la barriera protettiva del Comecon sui mercati internazionali dominati dai gangster occidentali, a confrontarsi con le merci sfornate dalle imprese occidentali più avanzate tecnologicamente e più efficienti capitalisticamente. Pur in presenza di un solido apparato industriale, l’Ucraina sarebbe stata spappolata e acquisita dagli avvoltoi occidentali, se, facendo leva sui ramificati legami economici con il mercato russo, non avesse ristabilito insieme alla Russia e alla Bielorussia un mercato comune protetto, se non avesse trovato la sponda del rilancio della potenza capitalistica della Russia sotto la guida di Putin dopo la deriva filo-occidentale di Mosca della prima "era" Eltsin, e se, parallelamente, non avesse potuto agganciarsi a un ciclo economico internazionale favorevole, che le ha permesso di tirare avanti con gli standard raggiunti in precedenza, di rintuzzare nel 2004-2005 il tentativo dell’Occidente (e soprattutto degli Usa) di conquistare Kiev attraverso la pedina della cosiddetta "rivoluzione arancione" (4 bis), di rallentare nel 2011-2012 i tagli al welfare chiesti dal Fmi e di avviare da posizioni di minore ricattabilità le trattative per la progressiva integrazione nel circuito economico dell’Ue mantenendo rapporti di buon vicinato con la Russia.
Questa integrazione non è respinta da nessun gruppo della classe dirigente ucraina. Essa è stata ed è, invece, considerata una vitale opportunità da tutti i gruppi della classe dirigente ucraina. Alcuni per tagliare completamente i legami con la Russia, altri (quelli di maggior peso) per consolidare tali legami e permettere al paese di trarre vantaggio dalla posizione strategica di ponte tra Est ed Ovest. Nel novembre 2013 si doveva arrivare alla firma di un primo accordo di associazione tra l’Ue e l’Ucraina.
Il testo predisposto dall’Ue non corrispondeva, però, alle attese della classe dirigente ucraina rappresenta da Yanukovitch. Esso prevedeva, tra le altre misure, la quasi totale eliminazione dei dazi commerciali esistenti negli scambi Ue-Ucraina e la drastica riduzione dei sussidi al prezzo del gas pagato dalle famiglie e dalle imprese.
I dirigenti delle maggiori imprese metallurgiche, chimiche e meccaniche ucraine, soprattutto quelle delle regioni orientali rappresentate dal partito delle regioni di Yanukovitch, hanno ritenuto pericolosa la firma immediata dell’accordo: hanno ritenuto che le misure previste avrebbero messo direttamente in concorrenza le merci ucraine (per di più penalizzate dall’aumento del costo dell’energia) con quelle Ue, gettando sul lastrico i conglomerati ucraini e esponendone i bocconi più appetitosi all’acquisizione europea. Qualcosa di analogo sarebbe valso per le imprese della Russia inevitabilmente investite dal ciclone europeo a causa dell’unione doganale esistente tra l’Ucraina e la Russia. Di qui il tentativo della frazione borghese rappresentata da Yanukovitch di rallentare l’attuazione del trattato, di spuntare condizioni migliori anche grazie alle offerte nel frattempo lanciate a Kiev dalla Russia di Putin (un aiuto di 15 miliardi di dollari e un supplementare sconto sulla bolletta energetica) e soprattutto dalla Cina Nel settembre 2013 la Cina e l’Ucraina avevano firmato un contratto che prevede l’affitto per 50 anni a un prezzo di 2,6 miliardi di dollari di 100 mila ettari di terreni agricoli di alta qualità (l’estensione di Hong Kong) nella regione di Dnipropetrovsk per la coltivazione e per l’allevamento di maiali. Il contratto prevede che l’area possa essere estesa fino a un’area grande quanto il Belgio. Il 5 dicembre 2013, nel corso di una visita di tre giorni, Yanukovitch firma a Pechino accordi che prevedono la concessione di 8 miliardi di dollari di aiuti nel settore dell’avionica, delle infrastrutture, dell’energia, del credito. Alla fine del 2013 la Cina è il secondo partner commerciale dell’Ucraina.
L’illusione della borghesia ucraina di poter vivacchiare e prosperare destreggiandosi tra Ue, Russia e Cina si è, però, infranta bruscamente alla fine del 2013 e all’inizio del 2014, quando a Kiev, con un colpo di mano promosso dagli Usa e dalla Nato, è entrata nella stanza di comando una coalizione filo-occidentale. Come mai questa "svolta"?
Le mani in pasta di Ue e Usa
Nell’apertura della crisi ucraina ha sicuramente pesato il malcontento, espresso in parte anche in piazza, di larghe fette della popolazione. Da un lato, di strati piccolo-medio borghesi, spinti da diversificate preoccupazioni: quella di far valere i propri titoli di studio nel mercato Ue oppure quella di liberarsi dall’asfissiante morsa degli elevati tassi di interesse ucraini oppure quella di trovare in Bruxelles una copertura per farla completamente finita con le tutele proletarie ancora in piedi. Dall’altro lato, anche larghi strati proletari hanno reagito con preoccupazione al congelamento delle relazioni con l’Ue. Pur rimanendo alla finestra, anche i lavoratori hanno visto e vedono (non solo nelle regioni occidentali a contatto diretto con il "miracolo polacco") nell’avvicinamento all’Ue (magari bilanciato dal mantenimento dei buoni rapporti con la Russia e dall’apertura alla Cina) la strada per far piazza pulita della corruzione della propria classe dirigente e per uscire dalle ristrettezze cresciute dopo l’indipendenza e all’origine dell’emigrazione di ben 5 milioni di ucraini (dai quali arrivano ben 9,3 miliardi di dollari di rimesse, il 5% del pil).
A far precipitare la crisi ucraina fino alla incipiente jugoslavizzazione del paese è stato, però, l’intervento della Ue e degli Usa nello scontro politico interno.
Bruxelles ha manovrato per forzare Yanukovitch ad approvare le riforme economiche chieste da tempo da Bruxelles. Queste riforme hanno l’obiettivo di favorire l’incorporazione dell’apparato industriale ucraino nelle maglie di quello europeo senza manomettere l’unità formale dell’Ucraina e di costringere i proletari ucraini, più di quanto non succeda oggi, ad offrirsi sul mercato del lavoro europeo alle condizioni richieste dai capitalisti occidentali. Da parte loro, gli Usa hanno manovrato per picconare non solo il programma di Yanukovitch, ma anche quello di Bruxelles, per mettere in crisi la soluzione di compromesso siglata il 20 febbraio 2014 tra l’Ue, Yanukovitch e la Russia, e per favorire la disgregazione del paese.
Per realizzare i loro (differenti) obiettivi, sia l’Ue che gli Usa non si sono limitati a paralizzare il sistema finanziario ucraino con il ritiro dei capitali offerti al governo e alle imprese ucraine e con la speculazione sulla moneta. Bruxelles ha accarezzato le manifestazioni di Kiev, soprattutto lo strato sociale borghese che ne ha costituito il nerbo. Washington ha trovato i suoi burattini nelle milizie di destra coltivate da anni con l’aiuto della forte comunità ucraina degli Usa e del Canada, addestrate in campi para-militari in Polonia e altri paesi dell’Est, reclutate con l’apporto di disoccupati e sotto-proletari ucraini.
Tali gruppi sono stati fatti entrare in campo a Kiev al momento opportuno per far saltare ogni soluzione di compromesso e spingere, comprensibilmente, la parte russofona della popolazione alla secessione, come del resto accaduto a volo in Crimea.
La politica del premio Nobel per la pace Obama-Obomba non è dettata solo dal tradizionale (e ancora ben vivo) interesse di dividere l’area per meglio acquisirne le risorse (il sottosuolo dell’Ucraina è una delle aree europee ricche in shale gas!) e indebolire la potenza capitalistica russa. C’è qualcosa di più, legato all’andamento delle relazioni economiche e diplomatiche mondiali, ben oltre l’Europa dell’Est.
Gli Usa e l’ascesa della Cina capitalistica
Negli ultimissimi anni la Russia di Putin ha avviato alcuni progetti per fare della Russia e dei paesi ad essa strettamente legati dell’ex-Urss (Bielorussa, Kazakhstan, Ucraina) un ponte di collegamento tra la Germania e la Cina. Alle floride relazioni di affari di Mosca con Berlino e con Pechino, lo scorso anno Putin ha aggiunto l’avvio dell’ammodernamento della rete ferroviaria esistente tra l’Europa e il Pacifico. Il progetto non sarà completato in breve tempo, ma porterà alla riduzione di ben sette giorni del tempo di transito delle merci rispetto all’odierno circuito transitante per lo stretto di Suez.
Il consolidamento di questo gigantesco circuito capitalistico unitario euro-asiatico è, poi, intrecciato con altri due processi altamente pericolosi per la superpotenza Usa.
1) Entro questo circuito sta crescendo la quota degli scambi commerciali e finanziari gestita direttamente in euro, rubli e renmimbi, senza passare per la mediazione del dollaro. Nel 2013 la Cina e la Russia hanno, ad esempio, avviato il libero scambio delle rispettive monete nelle piazze di Mosca e di Shanghai.
2) La piattaforma capitalistica euro-asiatica sta, infine, favorendo il tentativo della classe dirigente cinese di garantirsi il rifornimento delle materie prime di cui ha bisogno lo sviluppo capitalistico cinese, soprattutto in campo agricolo ed energetico. Nel 2013 ci sono state due importanti iniziative.
La prima è l’accordo agricolo tra il fondo sovrano cinese Cic e l’Ucraina già ricordato (accompagnato da accordi analoghi e investimenti per 11 miliardi di dollari con la Romania). La seconda è l’acquisizione da parte del fondo sovrano cinese di una partecipazione del 12,5% della Urakali, uno dei maggiori produttori mondiali di fertilizzanti (controlla il 20% della produzione mondiale di potassa). Con tali iniziative la Cina cerca di ridurre la sua dipendenza dalle importazioni agricole dagli Usa e dalle vie marittime di collegamento con l’Europa occidentale presidiate dalle flotte nucleari statunitensi.
L’infittirsi e il consolidamento delle relazioni d’affari tra la Germania, la Russia e la Cina è, a sua volta, un aspetto di un cambiamento ancora più ampio e profondo: quello legato all’ascesa capitalistica della Cina e di una rilevante fascia dell’ex-Terzo Mondo avvenuta negli ultimi 25 anni, al grandioso processo di industrializzazione non totalmente subordinata alle centrali imperialistiche che è alla base di questa ascesa, all’inserimento di un miliardo di persone nella moderna vita urbana e industriale. La classe dirigente degli Usa sa bene che questo processo è destinato a terremotare l’ordine internazionale dominato da Washington e da Wall Street. Washington e Wall Street devono sbarrare la strada a questo processo di sviluppo capitalistico.
Non per azzerarlo, ma "solo" per spezzarne l’autonomia e funzionalizzare l’avvenuta industrializzazione dei paesi emergenti alla conservazione del proprio dominio economico e militare sul mondo A tal fine devono-vogliono tagliare le gambe alla lunga marcia capitalistica della Cina e convincere le potenze europee che esse hanno interesse ad associarsi (per condividerne i tornaconti) al programma statunitense.
Lo scontro all’interno dell’Ucraina e il delicato passaggio nel complesso gioco di interessi tra la Germania, la Russia e la classe dirigente ucraina hanno offerto l’occasione agli Usa per trasformare l’Ucraina da ponte delle relazioni euroasiatiche in un muro, per convincere l’Ue (o una parte di essa) che le conviene consolidare l’alleanza tradizionale con gli Usa, per isolare la Cina entro l’Estremo Oriente e per costringere alla scelta di campo la Russia di Putin. Con il colpo di mano del 26 febbraio 2014 a Kiev gli Usa hanno portato a casa un rilevante risultato. E sono decisi a consolidarlo sostenendo l’inserimento nelle forze armate di Kiev di 60 mila militanti delle organizzazioni di estrema destra che hanno compiuto il golpe, incoraggiando l’intervento di queste formazioni nell’Ucraina orientale per seminare odi e diffidenze tra ucraini e russi, perorando la vendita alla statunitense Chevron della rete gasifera ucraina (anello di congiunzione tra quella russa e quella europea) e offrendo il combustibile nucleare che attualmente Kiev compra da Mosca per alimentare le 15 centrali nucleari già esistenti (da cui scaturisce il 50% dell’energia elettrica del paese) e le almeno 2 in costruzione.
Gli Usa si aspettano, poi, che le mine piazzate in Ucraina abbiano ripercussioni a catena nella politica della Cina e dei paesi emergenti. Questo augurio si basa sul delicato momento che stanno attraversando i paesi emergenti e sul parziale tamponamento del declino statunitense favorito dalla politica di Obama dal 2008 ad oggi.
Le borghesie europee e il programma di Obama
Dal 2012 il tasso di accumulazione capitalistica nei paesi emergenti sta rallentando (5). La frenata ha caratteristiche diverse in Cina, in Sudafrica e in Brasile. In tutti e tre i casi, però, sta intervenendo (combinandosi con i caratteri specifici dello sviluppo capitalistico del paese) una medesima causa: la riduzione dell’esercito di diseredati (urbani e rurali) a disposizione delle imprese e/o la crescita delle lotte rivendicative dei lavoratori occupati per ampliare la fetta della ricchezza nazionale distribuita al lavoro salariato. Gli Usa, le potenze europee e i giganti della finanza mondiale stanno facendo leva sullo scontro sociale e politico apertosi in questi paesi per indebolirne le compagini economiche, soprattutto l’autonomia in campo finanziario.
Nello stesso tempo, gli Usa hanno parzialmente tamponato le crepe economiche e sociali che si erano aperte entro i propri confini nel primo decennio del XXI secolo. Grazie al calo dei prezzi dell’energia reso possibile dallo sfruttamento dello shale gas (6) e al taglio dei salari e dei diritti dei lavoratori avvenuti nel 2008-2009 (Chrysler-Marchionne insegna), le multinazionali occidentali hanno ripreso a impiantare fabbriche negli Usa e ciò ha contribuito a rafforzare il consenso interno di Obama e la sua capacità di proiezione sulla scena internazionale. Prima nell’Africa settentrionale e in Medioriente, e ora in Europa orientale. Nell’annuale vertice di Davos dei re della finanza e dell’industria dell’Occidente sono risuonate grida di giubilo per questa doppia dinamica internazionale.
Il quotidiano la Repubblica è arrivato a titolare "L’Occidente risorge a Davos", Facendo leva su questo quadro, dal 2013 Obama e il suo staff sono impegnati a convincere i loro alleati europei a rinunciare alle velleità autonomistiche legate alla formazione degli Stati Uniti d’Europa, a illimunarli sui rischi sociali e politici per la stabilità dei rapporti sociali capitalistici (negli Usa, in Europa e nel mondo) derivanti dalla realizzazione del progetto degli Stati Uniti d’Europa, a causa degli spazi che questo progetto lascerebbe al mondo capitalistico emergente.
Una parte delle borghesie europee è tentata da questa sirena. L’altra, avente il suo centro nel capitale tedesco, è indecisa, ritiene che possa giovarsi dell’ascesa capitalistica del Sud del mondo e funzionalizzarla a sé flirtandovi, sente che l’offerta del trattato di libero scambio transatlantico con gli Usa può essere vantaggiosa per sé solo se, parallelamente, Berlino e Bruxelles rafforzano la propria autonomia imperialistica. Questa frazione delle borghesie europee non è, tuttavia, coerentemente impegnata a sostenere la propria unificazione economica con una politica estera, anche militare, imperialisticamente autonoma. Il che richiederebbe, come hanno sostenuto nei mesi scorsi significativi editoriali sulla stampa tedesca, la collaborazione e non lo scontro con la Russia di Putin (7). La crisi ucraina è un esempio illuminante di questa insufficienza: la reazione a catena innescata dalla proposta presentatadalla Ue a Vilnius ha indebolito Yanukovitch, ma questo, anziché andare a vantaggio del piano di Bruxelles come ingenuamente ci si aspettava a Berlino, ha lasciato campo libero all’iniziativa degli Usa e della Nato.
Dopo il cambio della guardia a Kiev, il ricongiungimento della Crimea alla Russia, l’avvio di trattative dirette sulla crisi ucraina tra Obama e Putin (senza la presenza della Ue), le pressioni degli Usa e della Nato per varare sanzioni contro la Russia inevitabilmente rivolte anche contro le imprese tedesche (8), la Germania e l’Ue hanno tentato di correre ai ripari per rientrare in gioco. Bruxelles ha rapidamente aperto i cordoni della borsa, concedendo un prestito di 15 miliardi di euro per favorire la vittoria nelle elezioni presidenziali ucraine del 25 maggio 2014 dell’ala filo-europeista della coalizione che ha assunto il potere a Kiev, far trangugiare le riforme economiche chieste da tempo e far firmare, completamente o in parte, il trattato di associazione sospeso.
Qualunque sia l’esito immediato dello scontro in corso in Ucraina, riescano o meno gli Usa a rendere permanente il cuneo tra Est e Ovest che hanno piantato in Ucraina, riesca o meno Berlino a legare a sé il governo che uscirà dalle elezioni ucraine del 25 maggio 2014 e a riprendere la tessitura capitalistica euro-asiatica prosegua o si arresti la frantumazione del paese secondo vecchie e nuove linee di frattura, tre cose sono sicure.
1) L’ascesa dei paesi emergenti e in particolare della Cina non sarà fermata facilmente. Non lo sarà perché essa è l’espressione non soltanto delle borghesie emergenti ma anche della lunga marcia di miliardi di sfruttati, e questi ultimi non si lasceranno ricacciare indietro senza un corpo acorpo per la vita e per la morte.
2) Proprio per questo, la politica degli Usa e quella dell’Ue in Ucraina (come in altri teatri di crisi) non porteranno all’appianamento dei contrasti, al ripristino dell’ordine imperialista in disfacimento, ma alla proliferazione degli antagonismi, tra le classi, tra i popoli, tra gli stati, come sta emergendo dalla stessa vicenda ucraina.
3) Questi contrasti tra le potenze capitalistiche e le divisioni in seno alle borghesie locali dietro questo o quel gigante non potranno che indurre, se accettate, divisioni su divisioni in seno al proletariato. Anche in questo caso, l’esperienza ucraina è istruttiva.
La lotta cui è chiamato il proletariato, "là" e "qua".
La classe dirigente ucraina si è frantumata in tre spezzoni, quello filo-Usa, quello filo-Ue e quello filo-russo. Queste divisioni si sono trasmesse nel mondo proletario. È vero che i lavoratori che avevano partecipato o guardato con favore alle manifestazioni di Kiev, sono diffidenti verso i personaggi che sono entrati nella stanza dei bottoni di Kiev, eredi dei collaborazionisti nazisti della seconda guerra mondiale. L’arrivo dell’aumento del prezzo del gas voluto dal Fmi e dai creditori europei sta gettando altra acqua fredda negli animi proletari. Ora, però, i lavoratori di Kiev e dell’Ucraina occidentale si trovano ad affrontare questa situazione confinati entro un recinto borghese più ristretto, separati da quelli della Crimea e dell’Ucraina orientale. I loro destini sembrano essersi differenziati, mentre, nella sostanza, sono più che mai dipendenti da un medesimo meccanismo sfruttatore i cui fili sono retti nelle capitali occidentali.
I lavoratori dell’Ucraina orientale, a loro volta, ritengono che possano difendersi con l’aiuto della Russia e attraverso l’alleanza con i capitalisti locali proprietari delle miniere e dei complessi industriale della regione. Anche questa prospettiva è controproducente.
È vero che essa, provvisoriamente, potrebbe evitare un brutto arretramento nelle condizionidi vita e di lavoro. Questa prospettiva, però, mette i lavoratori alla coda di un blocco sociale e statale che non vuole e non può promuovere l’unica arma in grado di arginare l’offensiva imperialista: la lotta di massa dei lavoratori, l’unità di lotta tra tutti i lavoratori ucraini e la proiezione di essa oltre i confini degli stati e delle religioni. È questa, invece, l’unica strada capace di tutelare, in prospettiva, gli interessi dei lavoratori. È la vecchia "strada" del 1917, su cui allora si incamminò un reparto, minoritario, della classe proletaria all’indomani della prima guerra mondiale e che trovò in Ucraina uno dei suoi campi di battaglia. È la strada che, al fondo, emerge, oggettivamente, da un teatro che ha già sperimentato le conseguenze dei programmi imperialisti e sotto-borghesi in campo in Ucraina: la Jugoslavia (v. riquadro).
La risposta proletaria di classe all’aggressione imperialista può, ovviamente, muovere i primi passi anche sotto la forma di un’azione di autodifesa appoggiata alla Russia e/o basata sulla costruzione di entità statali o semi-statali separate dall’Ucraina, come accaduto in Crimea e, forse, nelle cosiddette repubbliche popolari proclamate in alcune città dell’Ucraina orientale. Per rendere efficaci queste azioni di autodifesa, i lavoratori coinvoltivi sono chiamati a non delegare l’iniziativa alle borghesie locali e a Mosca, a farvi pesare i propri interessi di classe, a respingere e superare ogni forma di contrapposizione con i lavoratori rimasti in Ucraina o in altre enclaves, a cercare la forza per contrastare il rullo compressore nel proletariato internazionale, a partire dai lavoratori della Russia e dei paesi dell’euro-zona.
La maggiore difficoltà che al momento ostacola la maturazione in questo senso dello scontro politico in Ucraina, è la passività dei lavoratori occidentali, è la loro indifferenza di fronte a quello che i loro governi e i loro padroni stanno facendo in Ucraina. Una passività e un’indifferenza che si ritorcono contro gli stessi lavoratori occidentali. Chiediamoci: l’imposizione dei piani imperialisti in Ucraina, nella versione tedescoeuropea o nella versione statunitense, non renderà, forse, più agevole alle multinazionali di presentare ai lavoratori dell’euro-zona il ricatto con cui l’Electrolux e l’Indesit stanno mettendo alle strette i loro dipendenti in Italia con la minaccia della delocalizzazione in paesi, come la Polonia, con un costo del lavoro sensibilmente inferiore a quello italiano?
Abbiamo provato a sollevare il problema in alcune assemblee sindacali e in alcuni nostri interventi esterni. Non abbiamo certo riscontrato consenso o adesioni militanti alla nostra prospettiva.
Più di un lavoratore ha, però, ammesso che è la concorrenza tra i lavoratori di regioni e paesi diversi l’arma con cui le direzioni aziendali paralizzano oggi l’iniziativa dei lavoratori. Non pensiamo che da questa ammissione isolata si possa passare alla formazione anche di un piccolo nucleo proletario internazionalista senza che la massa proletaria senta i morsi dell’apocalisse incubata dal sistema capitalistico e avvicinata dalla vicenda ucraina. Siamo altresì convinti che un’iniziativa militante internazionalista, pur microscopica, anche nell’attuale situazione di depressione politica proletaria, possa favorire le pre-condizioni per la formazione dell’esercito di classe proletario. Ed è con questa prospettiva che siamo intervenuti nei mesi scorsi tra i lavoratori sulla crisi ucraina, che abbiamo denunciato le politiche dell’Ue e degli Usa, evidenziato l’unica prospettiva (classista e internazionalista) in grado di permettere ai lavoratori ucraini di difendersi dalla nuova aggressione dell’Occidente imperialista dopo quelle del XX secolo, chiamato i lavoratori occidentali ad appoggiare incondizionatamente ogni tentativo dei proletari dell’Ucraina di sbarrare la strada ai predoni occidentali.
Note
(1) Il sottosuolo ucraino è ricco di carbone nelle regioni di Donec’k e Luhans’k, di ferro e manganese nella regione del medio Dnipro, di petrolio e gas naturale nella regione dei pre-Carpazi. Il suolo ucraino è ricoperto della fertilissima "terra nera" e si presta alla coltivazione intensiva dei cereali, dei girasoli, della vite, della barbabietola, delle patate.
(2) Sulla politica di Lenin sulla questione nazionale e sui contrasti esistenti già prima della sua scomparsa nel gruppo dirigente bolscevico vedi gli articoli pubblicati nel numero 13 del che fare in occasione della crisi in Azerbaigian-Armenia nel 1988 e in particolare l’articolo "La questione nazionale in Urss e le discussionni nel partito bolscevico".
(3) Sull’Urss e sulla perestrojka di Gorbaciov vedi i materiali raccolti nel nostro opuscolo del maggio 1990 "Dove va l’Urss. Perestrojka e marxismo".
(4) e (4 bis) Sulla storia dell’Ucraina fino alla cosiddetta "rivoluzione arancione" del 2004-2005 v. gli articoli pubblicati sul n. 64 del che fare.
(5) Per il caso specifico della Cina vedi l’articolo pubblicato sul n. 79 del
che fare.(6) Vedi, ad esempio, le notizie riportate nell’articolo "2013: la nuova carta geopolitica del petrolio" pubblicato dal
Corriere della Sera del 4 dicembre 2014 o il commento sul reshoring industriale negli Usa di Vittorio Da Rold sul Sole24Ore del 25 marzo 2014.(7) Indicativo anche l’appello di un gruppo di intellettuali tedeschi dopo l’intervento con cui il 18 marzo 2014 Putin ha proposto al parlamento russo di accogliere la richiesta della Crimea di congiungersi con la Federarazione Russia. La lettera degli intellettuali tedeschi denuncia il tentativo degli Usa di colpire la Russia e l’Ue, e auspica il consolidamento dell’Ucraina come ponte della collaborazione euro-asiatica.
(8) L’interscambio commerciale tra la Germania e la Russia ammonta a 75 miliardi di euro. La Germania esposta in Russia macchinari, automobili, prodotti elettronici. Nel 2013 le vendite delle imprese automobilistiche tedesche in Russia sono cresciute del 22%. Le vendite di macchinari giungono a quasi 10 miliardi di euro. In questo campo la Russia, dopo la Cina, è il secondo mercato di esportazione per le imprese tedesche. Anche la grande distribuzione tedesca (Metro) e ben presente sul mercato russo (le vendite superano 5 miliardi di euro). Ben 6200 imprese tedesche hanno stabilimenti in Russia per un investimento complessivo di 20 miliardi di dollari (v. The Economist, 15 marzo 2014).
Che fare n.80 maggio 2014 - ottobre 2014
ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA