La "riscossa dei ceti medi"

TUTTI MARCIANO. 
E SE MARCIASSE IL PROLETARIATO?

E’ da alcuni anni che nel nostro paese si stanno moltiplicando i segni di un'attiva ed aggressiva organizzazione sul terreno sia economico-sociale che politico. Ciò pone dei problemi aggiuntivi e particolari per il proletariato, i cui destini dipendono dalla capacità o meno di mettersi in lotta non solo per affermare i propri interessi di classe, ma, attraverso la prova pratica della propria forza, di neutralizzare ed attrarre dalla propria parte settori decisivi di questi ceti se ed in quanto minacciati di proletarizzazione da parte del capitale.

Se è ben chiaro e definito, infatti, che i ceti intermedi sono incapaci di una loro politica indipendente, nel senso di una prospettiva generale che riesca a sottrarsi al dissidio fondamentale capitale-forza lavoro salariata, è anche chiaro che essi sono capaci di mobilitarsi e che una tale mobilitazione, in assenza di una forte iniziativa operaia, non può che indirizzarsi verso la salvaguardia di propri interessi di "corporazione" scaricandone i costi in senso puramente antiproletario ed a tutto vantaggio della conservazione e reazione borghesi. L'esempio storico del fascismo lo prova ad abundantiam e se oggi, all'immediato, il pericolo della costituzione di "guardie bianche" non è - per i motivi che diremo - ancora attuale, non per questo è ipotizzabile una posizione di indifferentistica attesa verso il fenomeno in oggetto.

Per comprendere il come e il perché di quest'emergenza sociale e politica dei ceti medi occorre rifarsi da un lato alle vicende del ciclo economico, dall'altro a quelle politiche. Diamo per assodato il primo, da un decennio attraversato dalle prime vistose manifestazioni di una crisi strutturale del capitalismo, ed andiamo direttamente alle seconde.

Tutti per l’economia nazionale e… contro i proletari

E’ dal '60 almeno che la situazione politica italiana è stata contrassegnata da un corso continuo, anche se non rettilineo, nel senso dell'attrazione dei partiti e dei sindacati "operai" nel coinvolgimento sempre più diretto nei meccanismi "interclassisti" del potere statale. Economia nazionale, Stato di tutti: il "boom" capitalista presentava su un piatto d'argento alle organizzazioni "operaie" i frutti dei loro stessi postulati teorici e politici. Si cominciava coi "centro-sinistra" a partecipazione socialista ed il progressivo svuotamento nel PSI di ogni residuo connotato, anche solo sociologico, d'intonazione proletaria per finire coi "compromesso storico" messo a disposizione del PCI in quanto partito "nazionale", "di tutto il popolo". Il ‘76 segnò l'apice e, insieme, il momento di declino di questa convergenza universale (di tutti i partiti dell’"arco costituzionale", di tutte le classi") in un "unico" blocco nazional-statuale. Non a caso e non per resipiscenze del personale politico "operaio"-borghese (più che mai risospinto, anzi, alla ricerca del buon tempo perduto), ma per i fattori materiali messi in moto dalla crisi: è il blocco dell'ascesa lineare dello "sviluppo" capitalista che rende oggettivamente impraticabile uno stabile compromesso tra classi e partiti di diversa origine e diverso referente sociale. Con le elezioni del '79 constatavamo come il "compromesso storico" veniva ad essere musica d'altri tempi e l'atmosfera sociale si surriscaldasse, ad onta di tutti gli sforzi picisti per "raffreddare" la situazione così deterioratasi.

Nell'80 la marcia dei 40.000 quadri torinesi capeggiati da Arisio fu di già la testimonianza di questo scollamento. I quadri avanzavano le loro ragioni contrapponendosi non al padronato, non al capitale, ma al proletariato, ai "suoi" partiti, ai "suoi" sindacati, con tanta maggior energia quanto poca ne dimostravano questi ultimi nel mobilitare la classe operaia attorno ai suoi obiettivi autonomi di classe. Frantumandosi le basi del "patto sociale", questo strato di ceto medio correva a rivendicare la sua parte di una torta fattasi via via più ridotta e lo faceva, di necessità, scaricandone i costi sulla controparte operaia. Persino il socialista Biffi Gentile doveva essere apostrofato da questa canea reazionaria come un "cripto-bolscevico" da Il mandare in Russia", a dimostrazione del grado di incanaglimento cui possa giungere la piccola-borghesia incazzata.

Le punte più avvertite della borghesia seppero cogliere tempestivamente ed appieno il valore sintomatico di questa manifestazione per ricattare ulteriormente le organizzazioni "operaie". (Si vedano, al proposito, le bordate polemiche di uno Scalfari contro la "vetero" cultura "operaista" del PCI a pro' del "gusto" della mobilità, della professionalità, dello spirito imprenditoriale). Ed, ovviamente, le organizzazioni "operaie" non trovarono di meglio che ripiegare in ritirata, affidando la riverniciatura delle loro compromesse fortune ad un "democratico" dialogo con gli Arisio e soci. Si scoprì così che c'era stato un "ritardo"... culturale da parte "operaia" e che bisognava davvero premiare le "legittime" istanze dei ceti emergenti messisi in marcia quale condizione prima per non compromettere le sorti del "patto sociale" e per poter rilanciare su queste basi un rinnovato Il "compromesso storico". Con un unico inconveniente: che il blocco non era più ricomponibile, perché oggettivamente fatto saltare dalla crisi, e che l'inseguimento a ritroso di questi ceti non avrebbe portato fortuna ai partiti e sindacati "operai" neppure sul piano contrattuale ed elettoralesco. Non era difficile intuire, infatti, che mai gli Arisio si sarebbero fatti allettare dalle sirene riformiste, ad onta di tutti i loro contorsionismi e di tutte le loro buone disposizioni al patteggiamento al ribasso (nei confronti della classe operaia).

Nell'84, con la rivolta dei commercianti, i ceti medi parvero rivolgere le loro armi contro il governo. In realtà, i contenuti della protesta erano di pressione sui partiti borghesi "di rispetto" e di contestazione aperta al movimento operaio. "La sinistra è contro la libertà di commercio, nei paesi dove governa c'è miseria e Ia gente non ride mai", afferma il capo dei commercianti romani. Tanto più che, con Ottaviano Del Turco, la CGIL parla di "gravissimo atto di poujadismo" e minaccia la scesa in piazza degli operai... a sostegno di Visentini come suprema dimostrazione di "forza". Rispetto all’ ’80 ci fu un "salto di qualità": teatro della protesta non fu una singola città, per quanto emblematica, ma tutta l’Italia e all'organizzazione "spontanea" subentrava una struttura sindacale, stabile e centralizzata, e, soprattutto, gli obiettivi si spostavano in alto in termini di rivendicazioni politiche contrattate col governo "da pari a pari".

In questo contesto, che prepotentemente richiamava la necessità per i proletari di far sentire la propria voce e la propria forza per sé, tagliando le unghie tanto al "poujadismo" dei commercianti che alla politica fiscale del governo, punitiva in primo luogo nei confronti del salario, si dovette invece assistere ad un totale immobilismo sindacale (salvo la prova di lealismo visentiniano di Del Turco) e ad un ridicolo e vergognoso ripiegamento del PCI. Quest'ultimo si convertiva, nel giro di pochi giorni, dalla condanna della protesta dei commercianti ad una sempre meno cauta "comprensione" ed assunzione delle loro "ragioni", con l'impegno a farsi portatore di una "giusta revisione" dei meccanismi fiscali, da far gravare meno sui poveri commercianti (e di più a chi, nel concreto?).

Non si trattò di una semplice rincorsa all'indietro verso la ricomposizione di un impossibile, perché già frantumato, "blocco sociale". L'azione dei commercianti introdusse per la prima volta nel corpo stesso del PCI una spaccatura sociale e politica: al redde rationem della crisi, molti settori del commercio di fede e tessera picista non ebbero esitazione a schierarsi sin dall'inizio dalla parte "giusta" della propria categoria opponendo alla confusa "linea" del partito la loro linea. In breve: anche conservando, al momento, la tessera del PCI in tasca, essi andavano concretamente a piazzarsi nella prospettiva di un altro partito, il partito in gestazione della piccola-borghesia incazzata in senso antiproletario a servizio della grande borghesia.

Il referendum sulla scala mobile del giugno '85 ha rappresentato il primo significativo test politico di questo movimento sociale. Di fronte ad un sindacato incredibilmente "agnostico" e ad un PCI chiamante a raccolta elettorale l’ "opinione pubblica" e mai e poi mai la mobilitazione di fabbrica e di piazza dei proletari, questi ceti medi entrarono decisamente nell'agone come "partito tra gli altri partiti" dell'ordine borghese e segnando così un ulteriore passaggio nella definitiva deflagrazione del "blocco sociale" vagheggiato dai riformisti.

Non è stata una sorpresa, perciò, se nell'86 abbiamo dovuto assistere ad un'ulteriore mobilitazione di un'infinità di categorie del ceto medio mentre il fronte proletario è stato mantenuto dal riformismo in una peggiorata posizione di attesa e passività. Il peso delle prime è inversamente proporzionale a quello dei secondi, e non v'ha dubbio che, in presenza di nuovi approfondimenti della crisi, esse tenderanno a mobilitarsi in maniera ancor più aggressiva: se l'ora decisiva della resa dei conti non è ancora venuta è solo perché l'attuale situazione economica italiana non si presenta per questi ceti con caratteri di immediata gravità (ché, anzi, essi hanno recuperato nuovi spazi in più d'un settore portante in questi ultimi tempi) e perché vai meglio, al presente, la tattica del logoramento (o dell’autoregolamento) del movimento operaio.

Noi non diciamo, si badi bene, che tra i marciatori contro le tasse (escluse quelle sul salario), i quadri, i medici, i padroncini dell'autotrasporto ecc. corra un collegamento di programma ed azione capace di concretizzarsi in un progetto politico comune. In linea storica generale, la piccola-borghesia non è mai capace di un tale progetto. Sono però le spinte obiettive della situazione che fanno convergere le diverse e diversamente motivate proteste verso una data risultante comune. Nello stesso "movimento" fascista (quel "movimento" che i De Felice presentano come "rivoluzionario" rispetto al successivo "regime") c'era di tutto e il contrario di tutto, dalle istanze "operaiste" dei sindacalisti rivoluzionari "nazionali" agli agrari* (tanto per richiamare due estremi sociali). Ciò non ha impedito che il "movimento" costituisse un blocco unitario compatto sulla base di partenza dell'unitario attacco ad un fronte proletario minacciante quotidianamente la rivoluzione, ma incapace e non intenzionato - nella sua direzione - a farla. Lo sbocco nel regime, nello Stato d'ordine ne era la risultante obbligata che solo una decisa inversione del proletariato in senso effettivamente rivoluzionario avrebbe potuto scongiurare, presentandosi di fronte ai ceti medi proletarizzati quale forza capace di risolvere il problema sociale alla radice.

Ripetiamo, perciò, che per il partito rivoluzionario il pericolo non sta nei ceti medi in quanto tali né nella loro protesta, ma nell'assenza di un'iniziativa proletaria su tuta a linea. La precisazione trova un'immediata applicazione pratica di fronte alle posizioni dei riformisti che, con un occhio sempre attento alle "buone ragioni" delle varie corporazioni, vorrebbe poi contrapporsi al "corporativismo selvaggio" ponendosi, e ponendo il proletariato, a difesa delle "superiori esigenze dello Stato" e dei suoi relativi strumenti d'azione. Il lealismo statalista presuppone quel che non è: uno Stato "al di sopra delle parti", mentre esso sta interamente ed integralmente da una parte sola, contro il lavoro salariato; uno Stato "immobile", capace di garantire il perpetuarsi del precedente Il compromesso sociale", mentre esso va crescentemente a plasmarsi secondo le esigenze di blindatura senza compromessi nei confronti del proletariato. Il terreno difeso dai riformisti varrà poco anche solo a difendere le loro posizioni all'interno della società borghese (come dimostrano ad abundantiam i casi inglese, statunitense, ecc.). Non è di questo che ci rammarichiamo. Il guaio è che esso è distruttivo per il proletariato. Esso deve, pertanto, essere decisamente superato e spazzato via.

Se c'è una cosa che la mobilitazione dei ceti medi deve insegnare ai proletari è che è giunta la nostra ora di mobilitarci, di marciare, di darci delle strutture di lotta economica e politica all'altezza della situazione presente e, soprattutto, di quella che va profilandosi all'orizzonte. Tutti i temi sollevati dagli "incazzati" del ceto medio vanno fatti propri - rivoltati nei loro contenuti - dal proletariato. Forse che non abbiamo qualcosa da dire sull'organizzazione del lavoro, sulla sua distribuzione, sullo stato sociale, sul sistema fiscale e chi più ne ha più ne metta? La sola classe produttrice di ricchezza sociale non ha solo il diritto, ma il dovere storico di rivendicare, per sé e con ciò per l'insieme della società, TUTTO il potere. Strada lunga e difficile, ma non eludibile.

E’ ora che a "marciare" sia il proletariato!