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Che fare n.76 Giugno Ottobre  2012

Giù le mani assassine dell’Occidente imperialista dalla Siria e dall’Iran !

Le potenze occidentali e i loro alleati mediorientali (Qatar e Arabia Saudita in testa) si stanno presentando come i protettori del popolo siriano. Vogliono che il presidente della repubblica siriana, Bashar al Assad, se ne vada. Dicono di voler aiutare i siriani ad aprirsi la strada verso un futuro migliore, svincolato dalle pene materiali presenti e illuminato dal faro della democrazia. I partiti della sinistra europea ripetono lo stesso ritornello: sostengono le sanzioni varate dai governi occidentali e dall’Onu, e in qualche caso giungono ad affermare che questo moto di “solidarietà internazionale” può aiutare i lavoratori siriani a difendersi dalle politiche liberalizzatrici compiute negli ultimi anni dal governo siriano.

Lasciamo stare, per ora, quello che veramente sta succedendo in Siria, e quali siano l’estensione e le caratteristiche dell’opposizione siriana contro il presidente Bashar al Assad. Chiediamoci: ma come si fa a credere alle promesse delle potenze occidentali? come si fa a credere che il loro obiettivo sia quello di tornare a garantire il diritto dei lavoratori a manifestare e ad avere una piena attività sindacale in Siria, quando le potenze occidentali, l’Arabia Saudita e il Qatar hanno represso nel sangue la lotta che nel Bahrein rivendicava nelle piazze e nei posti di lavoro cambiamenti simili? come si fa a credere alle loro promesse se, finora, ogni qual volta sono intervenute direttamente in Medioriente lo hanno fatto per saccheggiare la regione e schiacciare la popolazione lavoratrice dell’area sotto la cappa di dittature spietate? se in Medioriente si sono sempre mosse per mettere il bastone tra le ruote a ogni serio tentativo di modernizzare in senso borghese l’area e per reprimere ogni spinta classista proletaria?

Solito pregiudizio anti-occidentale dei comunisti internazionalisti? Ripercorriamo allora, anche per sommi capi, la storia della Siria e del mondo sociale-politico in cui essa fu ed è inserita.

L’aiuto delle potenze capitalistiche europee: atto primo

 Nella prima metà dell’ottocento la Siria partecipò al tentativo guidato da Mohammed Alì di creare in Egitto, sull’onda dell’invasione napoleonica dell’Egitto, uno stato moderno inglobante il vasto territorio compreso tra il Sudan e le province ottomane della Palestina, del Libano e della Siria.

Quel progetto fu stroncato dall’intervento delle potenze capitaliste europee e dalla loro alleanza con le classi sociali più arretrate dell’area colpite dalle riforme economiche e istituzionali di Mohammed Alì. Una delle armi che le potenze europee usarono fu la presenza e la diffusione di missioni religiose cristiane in Libano e in Siria. Il fallimento della politica di Mohammed Alì, sul quale influirono anche fattori di debolezza sociale e politica interna al fronte rivoluzionario stesso, aprì la strada a una catena di conseguenze tragiche: l’area, formalmente compresa entro i confini dell’Impero Ottomano, fu frantumata in regioni che vennero sottomesse al controllo (diretto o indiretto) delle potenze europee (l’Egitto e il Sudan alla Gran Bretagna, la Siria, il Libano, l’Algeria, la Tunisia e il Marocco alla Francia); essa fu inserita con un ruolo subordinato sul mercato capitalistico mondiale nel ruolo di fornitrice di materie prime (cotone, prodotti alimentari, fosfati, ecc.) e di mercato di vendita delle merci europee; la Turchia, rimasta amputata delle regioni mediorientali e nordafricane, cadde preda dei ricatti finanziari europei e divenne la cinghia di trasmissione del saccheggio operato dalle banche e dalle diplomazie europee sui contadini dell’area fino a Baghdad.

Atto secondo

 All’inizio del XX secolo fu intrapreso un nuovo tentativo di compiere in Siria una rivoluzione democratico-borghese. Ancora una volta esso era interno a un più ampio sommovimento sociale e politico, al moto diretto dai Giovani Turchi, al quale, in un primo momento, i nazionalisti e i progressisti siriani, insieme a quelli libanesi, palestinesi e iracheni, parteciparono con entusiasmo. L’obiettivo, ancora una volta, era quello di creare un’unica entità statale che permettesse ai popoli dell’area di cooperare per tirarsi fuori dall’arretratezza economica tradizionale e dall’asservimento crescente al colonialismo europeo.

Anche stavolta le potenze europee diedero immediatamente prova della loro benevolenza verso i popoli dell’area. L’Italia fu in prima fila: per “aiutare” la rivoluzione dei Giovani Turchi, li aggredì militarmente per papparsi la Libia e le aree dotate di rilevanti ricchezze minerarie in Asia minore e nel Mediterraneo orientale. L’aiuto raggiunse il culmine all’indomani della prima guerra mondiale, quando le potenze europee e gli Usa, sotto il vessillo del wilsonismo, divisero l’impero ottomano con la riga e la squadra, stabilirono il loro dominio (diretto o indiretto) sui vari bocconi, incentivarono l’insediamento di colonie sioniste come diramazioni del proprio sistema di controllo dell’area, repressero, anche con l’aviazione, i moti che a Damasco e a Baghdad si opponevano alla realizzazione di questi piani. La “comunità internazionale” affidò la Siria e il Libano alla Francia, alle sue banche e alle sue forze armate. 

Atto terzo

 Negli anni cinquanta del XX secolo c’è il terzo atto del moto risorgimentale dei popoli del Medioriente. Anche questa volta la piazza di Damasco è tra i centri principali del moto sociale e politico. Ad animarlo non ci sono solo commercianti, industriali nazionalisti e professionisti, come in passato, ma anche e soprattutto contadini poveri e piccoli ma determinati nuclei di ferrovieri, di operai petroliferi, di lavoratori tessili.

Anche questa volta le direzioni borghesi nazionali cercarono di costituire un’unica entità statale come muro protettivo per rendere possibile lo sviluppo di una moderna economia capitalistica nella regione. Nel 1958 venne creata la Repubblica Araba Unita tra l’Egitto e la Siria, a cui seguì quella tra questi due paesi e l’Iraq.

Anche questa volta le potenze occidentali si precipitano in “aiuto” di questo moto. Invadono il Libano con i marines per impedire che la rivoluzione antimperialista arrivi in quella che chiamano la Svizzera del Medioriente, la cassaforte da cui muovono i fili delle finanze della regione. Promuovono la secessione della provincia meridionale dell’Iraq e creano lo staterello fantoccio del Kuwait (v. che fare n. 19). Armano e spalleggiano l’aggressione condotta da Israele nel 1967 contro la rivoluzione araba.

Le potenze occidentali portarono a casa un primo risultato sostanzioso a metà degli anni settanta con la repressione in Libano e in Giordania della lotta antimperialista palestinese (soprattutto delle sue tendenze classiste) e poi con l’instaurazione della dittatura di Mubarak in Egitto. Un secondo risultato, far fuori l’Iraq di Saddam Hussein, ha richiesto qualche “scaramuccia” in più: una guerra quasi ventennale combattuta a colpi di sanzioni, embarghi, uranio impoverito e al prezzo di milioni di morti e di milioni di emigrati (alcuni dei quali stabilitisi proprio in Siria).

Anche in questo terzo atto della sua guerra ininterrotta contro la rivoluzione antimperialista e democratica del mondo arabo-islamico, l’Occidente si alleò e fece leva sulle classi reazionarie locali e colpì senza tregua le punte più radicali del moto popolare.

Adesso, 2011-2012, è la Siria ad essere entrata nella “benevolenza” dell’Occidente. Per quale ragione? Vediamo. 

La Siria, paese-ponte

 Da anni la Siria è un paese alleato dell’Iran, degli Hezbollah libanesi e di Hamas. Costituisce il ponte di collegamento tra Teheran, Beirut e i territori palestinesi. Questo fronte di stati e di movimenti politici porta avanti nella regione una politica che cerca di realizzare uno sviluppo capitalistico non del tutto sottomesso all’Occidente. L’imperialismo può concedersi il lusso di lasciar fare?

L’aggressione all’Iraq ha sicuramente permesso ai gangster delle potenze capitalistiche occidentali di tornare ad affondare i loro artigli nella regione. Ma quello che hanno ottenuto non poteva bastare. Dovevano riprendere appieno il controllo del petrolio mediorientale: non bastava aver ripreso i pozzi iracheni e averli spartiti tra l’Eni, la Shell, la British Petroleum. Dovevano regolare i conti definitivamente, oltre che con le borghesie nazionali dell’area, con la massa di sfruttati in piedi da decenni contro l’imperialismo nei campi profughi palestinesi, a Damasco, a Teheran e persino nell’Iraq ri-colonizzato.

Gli Usa diedero il via a questa operazione all’indomani della conquista di Baghdad nel 2003. Pochi mesi dopo l’occupazione dell’Iraq, gli Usa imposero le prime sanzioni contro la Siria. Quale fantomatica opposizione siriana si intendeva sostenere nel 2004? Non è che gli Usa si preparavano a regolare i conti con un paese che s’era macchiato della colpa di non aver sostenuto la “coalizione dei volenterosi” nell’attacco all’Iraq del 2003? Un paese la cui popolazione stava offrendo solidarietà alla resistenza irachena e ai milioni di iracheni fuggiti a Damasco?

Altri due anni ed entra in gioco un altro benefattore dei lavoratori e dei popoli oppressi, il Fondo Monetario Internazionale: nel 2006, il Fmi impone al governo siriano un piano di austerità comprendente il congelamento dei salari, la deregolamentazione del sistema finanziario del paese, la liberalizzazione del commercio e le privatizzazioni. Passa un anno e arriva sulla scena un altro benefattore: nel 2007 Israele bombarda un sito militare siriano. In aiuto di quale fantomatica opposizione siriana?

Negli anni successivi, però, anziché consolidarsi, la trama degli interessi delle potenze occidentali e dei loro alleati locali si indebolisce: la Cina consolida le sue alleanze nella regione, soprattutto con l’Iran e il Sudan; grazie all’alleanza con l’Iran e all’ascesa politica di Hezbollah in Libano, la Siria riesce a evitare la totale sottomissione della sua politica economica ai piani del Fmi e la consegna della stanza dei bottoni del paese ai ceti affaristici desiderosi della dismissione del controllo dell’economia e della vita politica del paese da parte del principale partito siriano, il Baath, e delle forze armate; nei primi mesi del 2011 l’Egitto e la Tunisia, due fedeli alleati e servitori dell’Occidente, sono scossi da un sommovimento sociale che caccia via Mubarak e Ben Ali. E proprio nel 2011, come da manuale, l’aggressione imperialista ai popoli e ai lavoratori dell’area fa un salto di qualità, con una manovra a tenaglia che coinvolge anche l’Ue e le petro-monarchie del Golfo. Gli Usa e l’Ue organizzano e poi scatenano l’aggressione militare alla Libia (v. che fare n. 74 e che fare n. 75). Portano a termine la secessione del Sudan meridionale. Inviano in Qatar e Arabia Saudita i propri consiglieri per dirigere le operazioni di repressione contro centinaia di migliaia di manifestanti nel Bahrein. Imprimono un’accelerazione all’aggressione alla Siria.

Nel maggio 2011 gli Usa induriscono le sanzioni varate contro la Siria nel 2004; qualche settimana dopo anche l’Ue vara sanzioni simili; in parallelo, il Qatar e l’Arabia Saudita, freschi della repressione nel sangue del movimento popolare in Bahrein, inviano aiuti alla cosiddetta opposizione siriana e spingono la Lega Araba a mettere nel mirino uno dei suoi membri, la Siria di Assad. Anche in questo caso l’operazione è accompagnata dal fuoco di copertura del porno giornalismo “nostrano”, di tutte le tinte politiche, con l’obiettivo di preparare l’“opinione pubblica” occidentale all’ennesimo intervento militare. Che intanto si realizza sotto forma di invio in Siria di unità speciali della Nato e del Qatar per armare, reclutare e addestrare brigate paramilitari locali.

Ci vuole molto a comprendere che l’obiettivo degli Usa, dell’Ue, della Lega Araba è quello di piegare la politica del governo di Damasco non del tutto allineata ai voleri dei grandi dittatori del mondo e sopratutto di piegare i lavoratori del paese, di scaraventarli in una situazione di miseria tale da spingerli alla rivolta contro il proprio governo? È una politica diversa da quella che da decenni l’imperialismo sta portando avanti verso il popolo cubano e con il governo di Fidel Castro? Cosa ha a che fare tutto questo con il progresso del popolo e dei lavoratori siriani?

 

La lotta all’imperialismo polarizza le classi sociali del popolo aggredito.

 

Per noi del che fare il compito principale dei lavoratori, degli sfruttati e dei militanti antimperialisti in Siria è quello di denunciare e combattere l’accerchiamento che l’imperialismo e i suoi alleati locali stanno tessendo. È quello di battersi per organizzare una resistenza agli avvoltoi che volano sopra e intorno ai propri confini basata sul protagonismo delle masse lavoratrici.

In alcune assemblee abbiamo sentito dei giovani europei obiettarci che questo indirizzo politico puntella un governo, quello di Assad, che ha portato avanti negli ultimi anni una politica liberista dalle conseguenze disastrose per i lavoratori della Siria.

Ora, è vero che la repubblica siriana non ha saputo respingere i “consigli” che il Fmi e il capitale occidentale le hanno rivolto negli anni scorsi per azzerare le tutele sociali portate a casa dai lavoratori siriani nei decenni passati. Di più: noi aggiungiamo che non c’è solo questo. È da decenni che la politica della repubblica siriana sta indietreggiando nello scontro con l’imperialismo rispetto ai suoi stessi programmi iniziali. E non solo sul semplice terreno della spesa sociale e delle riforme economiche.

Fallito (anche per responsabilità interne al movimento antimperialista arabo) il tentativo di costituire un unico stato arabo (2), in Siria (come in Iraq e in Egitto) la riforma agraria, i piani di industrializzazione, il varo di sistemi scolastici e sanitari moderni, lo sviluppo, in una parola, di un moderno stato capitalistico si trovarono alle strette. Contro l’ipertrofia imperialista, la classe dirigente siriana (parallelamente a quanto faceva quella irachena e quella egiziana) cercò di portare avanti questo obiettivo, pur se in modo rachitico, contando sull’alleanza con l’Urss e sulla militarizzazione della vita politica nazionale.

Grazie a una congiuntura economica internazionale favorevole, a “furbi” posizionamenti nello scacchiere internazionale, a riuscite misure di nazionalizzazione che hanno colpito grandi proprietari terrieri e commercianti locali, la repubblica siriana ha compiuto non disprezzabili passi in avanti in questa direzione. Ne sono una testimonianza il netto aumento della vita media e del livello di istruzione della popolazione lavoratrice in Siria rispetto ai tempi in cui dominavano i benefattori occidentali e i loro reazionari alleati locali.

Questa politica modernizzatrice, che, in coerenza con la sua natura borghese, è stata accompagnata da atti mirati di repressione delle spinte radicali classiste interne al movimento antimperialista in Siria e al movimento palestinese, ha costantemente incontrato l’opposizione dell’imperialismo e dei grandi proprietari terrieri, dei commercianti e dei professionisti siriani che non volevano cedere il potere economico concentrato nelle loro mani. Dopo la caduta dell’Urss, alleato storico e vitale spalla economica di Damasco, la direzione del Baath si illuse di poter continuare lo sviluppo capitalistico intrapreso nei decenni precedenti legandosi all’Occidente e ai suoi reazionari alleati locali. Nel 1990-1991 la Siria di Assad partecipò alla coalizione Onu-Nato contro l’Iraq di Saddam. Nello stesso periodo varò la legge n.10 con cui si aprì il paese agli investimenti esteri e ci si propose di attrarli con agevolazioni fiscali, zone economiche speciali e riduzione dei controlli centralistici sul commercio estero. L’economia siriana, anziché fiorire, cominciò ad accartocciarsi su se stessa. A fiorire fu un ceto affaristico indigeno nel campo delle costruzioni, del turismo, dell’intermediazione finanziaria e commerciale che divenne il cavallo di Troia della crescente influenza dei capitali occidentali e delle petro-monarchie arabe e del tentativo perseguito da questi ultimi di smantellare il controllo delle attività economiche ancora esercitato dalle forze armate e dall’ala del partito Baath legato ad esse.

Dopo qualche anno di ubriacatura occidentalista, un’ala della classe dirigente siriana, anche sotto la pressione del malcontento popolare per l’aumento della disoccupazione e gli aumenti dei prezzi e l’impoverimento dei contadini, tentò una frenata del processo di liberalizzazione. Nella seconda guerra all’Iraq del 2003 la Siria si schierò contro l’aggressione occidentale. Puntuali arrivarono qualche mese dopo le sanzioni Usa, l’isolamento finanziario, i ricatti del Fmi, a cui il presidente Assad figlio ha tentato di far fronte consolidando le alleanze con l’Iran e Hezbollah, negoziando compromessi al ribasso con le potenze imperialiste, contando sull’aiuto di Mosca per un veto nel consiglio  di sicurezza dell’Onu. Tutto meno che chiamare in campo l’unica forza sociale capace di fronteggiare, con il suo armamento e il suo controllo sovietico sulla produzione e sul consumo, la morsa dell’imperialismo e dei ceti borghesi affittati siriani: le masse proletarie e contadine povere del paese e dell’area.

C’è una ragione sociale profonda dietro questa refrattarietà. Pertanto la direzione della lotta contro l’imperialismo non va lasciata nelle mani della borghesia nazionale. Da qui, però, non deve conseguire che i lavoratori siriani e arabi debbano voltare le spalle al fuoco imperialista, regolare i conti preliminarmente con la propria borghesia e passare solo dopo a rispondere alle potenze occidentali. Sostenere questo indirizzo conduce, al di là delle intenzioni, a oliare l’aggressione imperialista, a farsene veicolo, anche se poi si rifiuta, a parole, l’aiuto degli aerei della Nato.

Il funzionamento dell’imperialismo e i rapporti che entro le relazioni capitalistiche internazionali si stabiliscono tra stati tra popoli e tra classi impongono che l’organizzazione della lotta contro questa aggressione sia al primo posto. È nelle modalità con cui condurre tale lotta che ci si separa dalla politica del presidente Assad ed è nel fuoco di questa lotta contro l’imperialismo che le masse lavoratrici possono giungere a regolare i conti con la prospettiva baathista quale ostacolo per una coerente lotta contro l’imperialismo. 

Con le masse lavoratrici della Siria, dell’Iran e del mondo arabo-islamico!

 Questa è la prospettiva che un’eventuale opposizione proletaria al governo di Assad dovrebbe portare avanti nell’interesse dei lavoratori siriani e arabi e del mondo intero.

Diciamo eventuale perché se è ben chiaro che una componente sostanziosa dell’opposizione siriana è composta dai ceti conservatori che si sono da decenni opposti alle riforme nazionali del Baath, da arricchiti dalle parziali liberalizzazioni degli ultimi anni smaniosi di un più deciso regolamento di conti con le “conquiste della rivoluzione nazionale”, da mercenari al soldo dell’imperialismo, da agenti speciali delle potenze occidentali, se questo è evidente, è più difficile comprendere, a distanza e nella nebbia della disinformazione sistematica, cosa stia succedendo nel mondo proletario in Siria, in Libano e in Iran.

Non che manchino motivi di malcontento e di rabbia per una situazione che si va facendo difficile. Per questo, e per i misfatti che in passato la direzione del Baath in Siria ha compiuto contro la lotta antimperialista (tra cui ad esempio la repressione contro il campo palestinese di Tell Al Zaatar in Libano), non escludiamo che strati di lavoratori possano abboccare alle fasulle promesse dell’imperialismo. Non ci sembra, però, che questo sentimento sia quello predominante nel mondo proletario della Siria, come suggeriscono l’estensione delle manifestazioni di piazza a Damasco contro la politica della Nato e della Lega Araba e la bruciante esperienza veicolata dai tanti emigrati iracheni a Damasco.

In ogni caso, se, ragionando per ipotesi, fossimo là, noi ci batteremmo per lo sviluppo di una resistenza proletaria e popolare coerente e di massa all’imperialismo. Lavorare affinché le masse lavoratrici in Siria e nell’area si battano contro l’aggressione dell’imperialismo alla Siria (e all’Iran) non significa far blocco con il governo di Assad o con quello di Ahmedinejad. Significa impostare sul giusto terreno la divaricazione dall’uno e dall’altro, come ben spiega Trotzkij nel brano che riportiamo relativo alla Cina del 1927.

Che non si ripeta con la Siria quello che è accaduto nei mesi scorsi con la Libia, quando Hezbollah e la gran parte del movimento di piazza in Tunisia e in Egitto sono rimasti indifferenti all’aggressione imperialista o l’hanno addirittura caldeggiata. Che sia contrastata tra i palestinesi l’illusione diffusa dai vertici di Hamas a Gaza di poter trarre vantaggio dalla separazione delle proprie sorti da quelle del popolo siriano. La tenaglia che si sta chiudendo sulla Siria ha di mira anche Gaza, ha di mira le piazze egiziane e tunisine, ha di mira le piazze afghane dove (giustamente!) cresce l’odio verso i conquistatori occidentali e dove la resistenza popolare (non importa da quale bandiera al momento rappresentata) riesce ad assediare le basi delle truppe di occupazione occidentali. Ed ha di mira anche i lavoratori italiani ed occidentali, che noi chiamiamo ad appoggiare incondizionatamente le lotte di resistenza delle masse lavoratrici e oppresse del mondo arabo-islamico e a portare avanti la denuncia e la battaglia politica disfattista contro il proprio imperialismo. In Italia e negli altri paesi imperialisti sì che la consegna è: il nemico principale è in casa nostra!

Note

(1) Vedi FMI, Repubblica Araba di Siria - Dichiarazione conclusiva sulla missione di consultazione IV reperibile all’indirizzo http://www.imf.org/external/np/ms/2006/051406.htm.

(2) Oltre che dall’aggressione imperialista, questo fallimento dipese anche da responsabilità sociali e politiche interne al movimento antimperialista arabo. V. gli articoli sul n. 56 del  che fare “L’ininterrotta guerra dell’imperialismo all’Islam e l’indomito moto rivoluzionario delle masse islamiche”, “Il panarabismo: un punto di partenza...” e “L’anti-imperialismo islamico e quello comunista”. Un organico inquadramento della nostra concezione della rivoluzione ininterrotta nei paesi dominati/controllati dall’imperialismo è contenuta nella seconda parte del nostro quaderno sull’Iran del 1985 intitolata: “La rivoluzione in Iran e la rivoluzione proletaria mondiale”.

Che fare n.76 Giugno Ottobre  2012

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