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Che fare n.75 Dicembre 2011 - Marzo 2012

Com’era bello il colonialismo italiano !

L’aggressione italiana alla Libia viene lanciata nell’ottobre 1911. L’Italia impiega 21 anni per conquistare il paese e piegare la resistenza della popolazione che lo abita. La propaganda dell’Italia liberale aveva proclamato che "noi italiani giungiamo come amici lungamente aspettati e inutilmente chiamati" (L. Barzini sul Corriere della Sera del 7 ottobre 1911).

Bastano alcune settimane per far crollare questa lurida canea: il 23 ottobre i battaglioni italiani sono attaccati da un’insurrezione popolare a Sciara Sciat e a Tripoli: rimangono a terra 400 militari italiani. La rappresaglia è feroce. D’Annunzio la incoraggia sul Corriere della Sera definendo i libici "non uomini ma cani" e invocandone lo sterminio. La caccia all’arabo dura per giorni e giorni.

Vengono massacrate 4500 persone. Molti, nell’ordine delle migliaia, sono deportati per ordine di Giolitti a Ustica, Ponza, Caserta, Gaeta, Favignana, dove moriranno quasi tutti di stenti e malattie.

Nella lettera di un soldato italiano ai famigliari si legge: "Gli arabi opposero resistenza fierissima, tutti erano armati, anche le donne e i fanciulli. Si facevano fracassare dalle artiglierie, si trovarono soldati sventrati, sgozzati, senza gambe e morenti, che non volevano cedere le armi e per strappargliele si durava fatica" (in S. Bono, Morire per questi deserti. Lettere di soldati italiani dal fronte libico 1911-1912, Catanzaro, Abramo, 1992, p. 143).

"Nel 1911 gli aerei italiani sganciarono granate contro alcune popolazioni del deserto libico. Quella prova dimostrò che dal cielo gli attacchi erano più devastanti, più rapidi e più economici delle offensive terrestri. Il comando della forza aerea avvertì: «Il bombardamento ha avuto un effetto meraviglioso per demoralizzare il nemico ».

Anche le esperienze successive furono stragi europee contro civili arabi. Nel 1912 gli aerei francesi attaccarono il Marocco e scelsero luoghi con molta gente, per non sbagliare l’obiettivo. E l’anno dopo, l’aviazione spagnaola inaugurò, pure in Marocco, la novità appena giunta dalla Germania: alcune efficaci bombe a frammentazione che sparsero dappertutto mortifere schegge di acciaio.

Poi..." (da E. Galeano, Specchi. Una storia quasi universale, Sperling&Kupfer, 2008, pp. 252-253)

La resistenza della popolazione, guidata da Omar al-Mukhtàr, continua per anni e anni. Nel 1930 il fascismo, che nel frattempo ha preso in carico le colonie africane dall’Italia liberale, lancia l’offensiva per completare la conquista del paese fino al Fezzan.

Per isolare le formazioni armate della resistenza libica, Mussolini, Graziani e Badoglio (si proprio lui, l’anti-fascista con cui il Cln si sarebbe alleato nel 1943 per voltare pagina!) decidono di deportare la popolazione dell’altopiano della Cirenaica in alcuni campi di concentramento collocati sulla costa, nella Sirtica e a sud di Bengasi. Le truppe italiane (composte in misura consistente da mercenari eritrei, etiopi, somali, sudanesi) deportano almeno 100mila persone.

Migliaia e migliaia muoiono e sono fucilati durante la marcia di trasferimento. In una delle relazioni militari ufficiali è scritto: "Non furono ammessi ritardi durante le tappe. Chi indugiava, veniva immediatamente passato per armi. Un provvedimento così draconiano fu preso per necessità di cose, restie come erano le popolazioni ad abbandonare le loro terre e i loro beni. Anche il bestiame che, per le condizioni fisiche, non era in grado di proseguire la marcia, veniva immediatamente abbattuto" ( Del Boca, Gli italiani in Libia. Dal fascismo a Gheddafi, Laterza, Bari, 1988, p. 181). "Il paese di el Magrun [dove fu costruito uno dei campi], riferisce il giornalisti Os. Felici, è sorto sulla terribile piana riarsa, senza una mica di ombra, appunto per accogliere i nomadi. Graziani ha pensato che, a cominciare dal luogo, essi debbono avere la sensazione del castigo" (ib., p. 180). Le condizioni nei campi di concentramento sono bestiali. Gli uomini sono costretti a lavorare nella costruzione di strade, le donne nella coltivazione dei campi. Racconta Reth Belgassem, recluso in uno dei lager: "Le nostre donne dovevano tenere un recipiente nella tenda per fare i loro bisogni. Avevano paura di uscire. Fuori rischiavano di essere prese dagli italiani o dagli etiopi".

Un tentativo di fuga, un atto di ribellione, un rientro tardivo sono puniti con la morte. "Le esecuzioni, racconta ancora Reth Belgassem, avvenivano sempre verso mezzogiorno in uno spiazzo al centro del campo e gli italiani portavano tutta la gente a guardare. Ci costringevano a guardare mentre morivano i nostri fratelli." (ib., p. 185).

Per tagliare i rifornimenti della resistenza dall’Egitto, nel 1931 i vertici fascisti decidono di costruire un reticolato di 270 di chilometri sul confine tra la Cirenaica e l’Egitto. Il "muro" è costruito in pochi mesi, rimane sorvegliato giorno e notte e pattugliato con gli aerei.

L’11 settembre 1932 è catturato Omar al-Mukhtàr. Il lottatore libico rifiuta ogni collaborazione. Viene impiccato il 16 settembre 1932 nel lager di Soluch davanti a 20mila compatrioti. Nei mesi successivi gli ultimi gruppi della resistenza libica sono sterminati o catturati. La Libia è "pacificata".

L’anno successivo la popolazione rinchiusa nei lager è liberata: tra quelle che vi erano giunte mancano all’appello 40 mila persone, eliminate con le esecuzioni, le malattie e gli stenti nei due anni di reclusione. Si dispiega la completa appropriazione economica del paese, che vede l’arrivo di decine e decine di migliaia di italiani fino alla seconda guerra mondiale.

Nel 1970 la repubblica libica nata dalla rivoluzione del 1969 espropria e espelle gli eredi dei colonizzatori italiani ancora installati nel paese, una comunità di almeno ventimila persone che detiene aziende agricole e industrie e banche. Nella conferenza stampa del 30 luglio 1970 convocata sulla storica decisione, il ministro degli esteri libico afferma: "I famosi lager nazisti non sono per noi cose estranee, perché ne avevamo di ben peggiori in Libia" (ib., p. 471)

Alla fine della seconda guerra mondiale, "la Libia appariva priva di quadri, il 94% del suo popolo era analfabeta (vi erano in tutto 13 laureati, ma tra questi neppure un dottore in medicina), la condizione igienica era allarmante, la mortalità infantile si elevava al 40%, non vi era la benché minima base economica (la rendita pro-capite raggiungeva a malapena le 15-16 sterline l’anno), la struttura sociale appariva arretrata di almeno 300 anni" (G. Assan, La Libia e il mondo arabo, Editori Riuniti, Roma, 1959, p. 13 citato in A. Del Boca, Gli italiani in Libia. Dal fascismo a Gheddafi, Laterza, Bari, 1991, p. 374).

Uno studio dell’amministrazione statunitense (Library of Congress, Federal Research Division, Country Profile: Libya) del 2005 valuta al 20% il tasso di analfabetismo: "L’educazione primaria è libera e obbligatoria. (...) Secondo le cifre valide per l’anno 2000, circa 766807 studenti frequentavano la scuola primaria con 97334 insegnanti, circa 717mila studenti sono iscritti nelle scuole secondarie e circa 287172 studenti nelle università libiche. (...) L’assistenza sanitaria di base è fornita a tutti i cittadini. (...) In rapporto agli altri paesi del Medioriente, le condizioni di salute della popolazione sono relativamente buone. La vaccinazione dei bambini è generalizzata. La fornitura di acqua potabile è aumentata e le misure igieniche perfezionate.

(...) Il numero di medici e dentisti è aumentato del 700% tra il 1970 e il 1985, con un rapporto di 1 medico ogni 673 cittadini. (...) Il numero di posti letto negli ospedali è, nello stesso periodo, triplicato. (...) Nel 1985 la mortalità infantile era dell’8.4%, nel 2004 era del 2%. La Libia si colloca al 58° posto su 177 secondo l’indice delle Nazioni Uniti sulla qualità della vita. (...) La legislazione sul lavoro prevede assistenza pensionistica, ferie e tetto al numero massimo di ore di lavoro settimanali. Il governo sussidia in misura consistente i prezzi della benzina, dei beni principali e il costo degli affitti".

Secondo l’Indice di Sviluppo Umano della Banca Mondiale (un indicatore della qualità della vita in un paese costruito tenendo conto dell’aspettativa di vita (in Libia giunta a 74 anni), dell’istruzione e del reddito) la Libia è l’unico paese dell’Africa che si colloca nel livello alto (prima di ben nove paesi europei). La popolazione della Libia sotto la soglia della povertà agli inizi del nuovo millennio era valutata al 3,1%: la Francia e gli Usa erano al 12%. Pur ancora in presenza di discriminazioni e di un’ideologia ufficiale che ritiene le donne inadatte ad alcune mansioni lavorative, la condizione della donna in Libia è tra le più avanzate del mondo arabo e islamico. Nessun confronto con le catene del patriarcato e della poligamia vigenti al tempo dell’occupazione della Libia da parte degli italiani, per i quali le donne libiche (come quelle delle altre colonie in Corno d’Africa e nei Balcani) erano prede da usare, stuprare, rinchiudere in bordelli, trasformare in proprie concubine e schiave domestiche. Nessun confronto con la condizione femminile nei paesi dell’area alleati dell’Occidente, a partire dalle petro-monarchie del golfo Persico e dello stesso Israele. La legislazione introdotta dalla repubblica nata in Libia nel 1969 proibisce il matrimonio delle ragazze al di sotto dei 20 anni, obbliga a registrare le nozze, esige il consenso scritto della prima moglie affinché un uomo possa risposarsi e per rendere effettivo il divorzio deve intervenire il giudice. Le donne hanno libero accesso all’istruzione e al lavoro extra-domestico anche se non in tutti i campi.

Che fare n.75 Dicembre 2011 - Marzo 2012

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