Che fare n.76 Giugno - Ottobre 2012
Crisi in Italia, crisi in Europa
Il vecchio compromesso sociale europeo sta saltando.
In pochi mesi, i governi di Atene, Roma, Madrid e Lisbona, in sintonia con quelli degli altri paesi europei, hanno spazzato via alcune conquiste dei lavoratori che sembravano acquisite per sempre.
L’uragano non è finito. Non è finito nei paesi dell’Europa mediterranea. È destinato a risalire verso l’Europa settentrionale, verso la stessa Germania. I lavoratori possono difendersene solo con la lotta di massa ben organizzata attorno a una coerente politica difensiva. Una delle cose da fare per favorire lo sviluppo di questa lotta, è quella di ragionare sulle radici di un’aggressione che travalica i singoli confini nazionali.
Come mai l’Europa, considerata la patria del welfare e del “compromesso sociale”, è investita da un simile uragano? Perché i ministri, gli uomini d’affari e gli “esperti” dell’Europa fanno a gara nel ripetere, con Marchionne, che lo “stato sociale” deve essere “riformato” e sottoposto a un drastica cura dimagrante? La causa sta semplicemente nella indubbia politica speculativa delle banche e delle istituzioni finanziarie oppure c’è anche qualcosa di più profondo?
Al vertice della piramide
Sin dalla fine del medioevo, l’Europa occidentale fu il centro di quel processo (e progresso) storico che nel giro di qualche secolo avrebbe portato alla nascita della grande industria in Gran Bretagna (fine del XVIII secolo) e all’affermazione a scala planetaria del sistema sociale capitalistico. Per la prima volta nella sua storia, l’umanità cominciò a organizzare la sua vita e la sua riproduzione entro un sistema sociale e produttivo che per sua natura tende a integrare in un’unità organica i cinque continenti e le loro aree geografiche interne. Un sistema che, però, dimostrò di fare questo solo gerarchizzando e stratificando ferreamente, oltre che le classi sociali e i sessi, anche le nazioni, le razze e i continenti. Il sistema sociale capitalistico si strutturò così come una piramide ai cui vertici sedeva l’Europa forte del suo predominio economico e militare.
Questa piramide traeva la sua linfa vitale da due fonti. La prima fonte era lo sfruttamento del lavoro salariato dei proletari europei, ex-contadini ed ex-artigiani scaraventati (donne e bambini inclusi) per quattordici e passa ore al giorno a consumare la loro esistenza nei gironi danteschi delle nascenti grandi fabbriche. Per nascere e crescere la piramide capitalistica con centro in Europa si alimentò anche di un’altra fonte vitale: il lavoro dei popoli nativi dell’America centrale e meridionale, consumati nelle miniere di argento, rame e stagno che rifornivano le casse europee; il sangue e il sudore degli schiavi d’Africa che a centinaia di milioni furono deportati nel “nuovo mondo”, nelle piantagioni dove venivano prodotti i materiali (ad esempio il cotone) indispensabili all’industria inglese; il saccheggio, diretto e indiretto, dei popoli dell’Asia, ai quali i civilizzatori europei giunsero a spacciare l’oppio come mezzo per sottometterli e per depredarli. Il bottino tratto da questa seconda fonte vitale fu così consistente che, dalla fine del XIX secolo, i capitalisti e i governi europei trassero da esso le risorse per contenere il conflitto di classe che si stava sviluppando in Europa tra loro e i lavoratori europei.
La nascita del compromesso sociale in Europa
Forti del loro numero e del loro addensamento nelle grandi fabbriche e nelle città, i proletari europei avevano, infatti, cominciato a organizzarsi sindacalmente e politicamente, e a rivendicare con la lotta la limitazione della giornata di lavoro, la tutela del lavoro dei fanciulli, il diritto di sciopero, l’assistenza in caso di malattia e nella vecchiaia, ecc.
Anche se la lotta dei lavoratori europei diceva di ispirarsi al comunismo di Marx e di Engels, aveva l’obiettivo di umanizzare il sistema capitalistico e non di distruggerlo, di allargare gli spazi di democrazia e non di distruggere la democrazia stessa a favore della dittatura del proletariato per il comunismo. Le lotte per gli obiettivi riformistici, davanti ai “no” dei capitalisti e dei loro governi, potevano sospingere i lavoratori alla coscienza che la difesa coerente dei loro interessi è irrealizzabile entro i confini dei rapporti sociali capitalistici e che richiede la rivoluzione comunista. È quello per cui si batterono le minoranze comuniste internazionaliste di quel periodo. È quello che tentarono di evitare i capitalisti attraverso la politica esplicitata nel 1895 con le parole seguenti da Cecil Rodhes, il re dei diamanti e dell’oro sudafricano: “Sono andato ieri nell’Est End (quartiere operaio di Londra) ad un comizio di disoccupati. Vi ho udito discorsi forsennati. Era un solo grido: pane! pane! Ci pensavo ritornando a casa, e più che mai mi convincevo dell’importanza dell’imperialismo... La mia grande idea è quella di risolvere la questione sociale, cioè di salvare i quaranta milioni di abitanti del Regno Unito da una micidiale guerra civile. Noi, politici colonialisti, dobbiamo perciò conquistare nuove terre, dove dare sfogo all’eccesso di popolazione e creare nuovi sbocchi alle merci che gli operai inglesi producono nelle fabbriche e nelle miniere. L’impero – io l’ho sempre detto – è una questione di stomaco. Se non si vuole la guerra civile [in Inghilterra, n.], occorre diventare imperialisti.”
Alla fine dell’ottocento, quindi, l’estensione e il consolidamento degli imperi coloniali non fu più dettata, come nei secoli precedenti, solo dall’esigenza delle potenze capitalistiche europee di far carburare il vortice dell’accumulazione dei profitti. Divenne anche un’esigenza politica per il mantenimento nelle metropoli dell’ordine sociale borghese. Dall’intensificazione del saccheggio dei paesi colonizzati o semi-colonizzati i capitalisti occidentali si proposero di ricavare un bottino così gigantesco da poter trarre da esso quanto bastava per realizzare, almeno in parte, quel tanto di “promozione” delle classi lavoratrici metropolitane che potesse rendere innocua la crescita del “giovane robusto, ma pericoloso” proletariato.
Fu questa la base materiale che all’inizio del XX secolo rese possibile la nascita e successivamente lo sviluppo di quel “compromesso sociale” tra capitale e lavoro che spesso è citato come tratto peculiare del capitale europeo e che fu uno degli elementi principali che consentirono alla borghesia europea di superare la crisi rivoluzionaria seguita al primo conflitto mondiale. Il patto sociale così stretto permise alle borghesie europee di conquistare il consenso dei lavoratori al consolidamento del dominio dell’Europa sul mondo, alle imprese coloniali, alle “missioni di pace” (da sempre le chiamano così) intraprese per schiacciare le ribellioni dei popoli dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina. Si pensi all’Italia: le prime riforme sociali e il primo allargamento del diritto di voto non si ebbero in coincidenza con la guerra di aggressione alla Libia nel 1911? Il governo di Giolitti, in rappresentanza dei capitalisti italiani, non fece intendere che i lavoratori avevano interesse a sostenere la conquista del posto al sole per il capitale nazionale?
Sul riformismo spontaneo della classe operaia connesso alla sua volontà di migliorare la propria condizione all’interno del sistema capitalistico, si sedimentò, grazie anche all'azione delle dirigenze dei partiti di sinistra dell’epoca, un riformismo di altro tipo, un riformismo colonialistico. Con tempi e modalità diverse da paese a paese, la lotta contro il “proprio” governo e il “proprio” padronato, anziché trascrescere in lotta rivoluzionaria, si trasformò in una contesa con questi ultimi per una più favorevole partecipazione al bottino coloniale.
Si perde il primato, ma si resta sul podio.
Questo processo continuò dopo la seconda guerra mondiale anche quando l’Europa perse il dominio sulla piramide del sistema capitalistico mondiale. Continuò per un intreccio di cause.
Primo. Pur se l’Europa occidentale non deteneva più il “primato assoluto”, passato agli Usa, restò comunque insediata nei piani alti della piramide, alleata del dittatore mondiale statunitense, grazie al fatto che continuò a detenere per decenni il monopolio della produzione industriale, del capitale liquido, della forza militare. Ciò le permise di continuare a godere dei vantaggi assicurati da questo monopolio, ad esempio i prezzi bassissimi a cui i paesi produttori furono costretti a vendere le materie prime, il petrolio innanzitutto.
Secondo. Dopo la seconda guerra mondiale, preparato dalle distruzioni e dalle ristrutturazioni sociali e produttive del trentennio 1914-1945, un grande balzo tecnologico e organizzativo investì il processo produttivo. Questo balzo (il cosiddetto fordismo-taylorismo) comportò un tale aumento della produttività del lavoro e una tale diminuzione del valore delle merci che, pur in presenza di un aumento consistente dello sfruttamento proletario, i capitalisti ebbero i margini per far crescere i loro profitti relativi e per permettere al contempo l’aumento del potere d’acquisto dei salari (1). Anche questa volta i lavoratori dovettero sputare sangue nelle piazze per strappare altri miglioramenti economici e normativi. Senza, ad esempio, le grandi lotte operaie che scossero l’Italia negli anni sessanta e settanta (“l’autunno caldo”) mai si sarebbe avuto lo Statuto dei Diritti dei Lavoratori (e l’articolo 18) e mai si sarebbero conquistate le garanzie e le tutele che da tempo il padronato vuole azzerare. Ma anche questa volta, grazie al lungo e pimpante ciclo di accumulazione post-bellico, i governi e le borghesie ebbero le risorse materiali per dare “risposte” alla domanda che saliva dalle piazze e per utilizzare tali “risposte” per corporativizzare il proletariato, irretendolo nel sostegnodel “proprio” stato e del “proprio” capitale nazionale.
Un ciclo storico s’è chiuso.
Ora la situazione sta cambiando. C’è una crisi dell’ordine capitalistico mondiale e del suo direttore d’orchestra statunitense, e c’è l’ascesa dei popoli e degli stati del Sud del mondo (Cina innanzitutto). Non è più facile disporre in aree come l’Asia o il Sud America di forza lavoro a bassissimi salari e con zero diritti. Non è più disponibile il petrolio a prezzo stracciato. Non è più “tranquillamente” disponibile il monopolio della produzione industriale, neanche nei settori avanzati, anch’esso insidiato dalle potenze capitalistiche emergenti.
Il compromesso sociale novecentesco europeo non è più compatibile per il buon andamento dei profitti aziendali e dei listini di borsa. Dopo anni in cui le borghesie europee si erano “limitate” a erodere diritti e garanzie, ora sono costrette a passare all’attacco in profondità. I loro settori più accorti si sono resi conto che o riescono a “mettere ordine” in casa propria o rischiano di venire scalzate dal “podio” su cui ancora siedono.
“Mettere ordine” significa costruire un vero blocco economico e statale continentale, perché è almeno a questa scala che i capitalisti europei si devono attrezzare per “pesare” sul palcoscenico internazionale. Dal punto di vista borghese, Monti, Draghi e Merkel hanno ragione quando mettono l’accento su questo punto. Il capitale tedesco (nell’Unione Europea di gran lunga il più potente dal punto di vista industriale e finanziario) è l’unico intorno al quale potrebbe prendere corpo un simile progetto e, proprio per la sua posizione, è il più deciso ad andare in questa direzione. La “rude e circospetta” politica del governo Merkel è espressione di questa esigenza. Tutt’altro che semplice da attuare.
Non basta infatti una “libera” area di scambio continentale né una (a volte un po’ traballante) moneta unica. Serve anche una vera centralizzazione fiscale. Serve una politica estera realmente unitaria e forze armate comuni, che permettano all’Europa di fare la voce grossa in giro per il mondo senza necessariamente accodarsi al carro Usa o Nato. Per restare saldi sul “podio” serve investire massicciamente in nuove tecnologie, in nuove fonti energetiche e nell’ammodernamento delle infrastrutture (tra cui la Tav) per mettere in grado i capitalisti europei di spremere più a fondo il lavoro salariato e di dipendere di meno dalle materie prime importate dai paesi insubordinati.
Le politiche di riduzione dei deficit pubblici adottate dai governi dei paesi mediterranei, la recente immissione nel sistema finanziario europeo di una grande massa di denaro liquido (circa 500miliardi di euro) da parte della Banca Centrale Europea per sostenere i debiti sovrani e l’accordo inter-governativo sul varo del cosiddetto “fiscal compact” (l’obbligo cioè di adottare norme comuni di bilancio statale) sono misure che vanno nella direzione della centralizzazione economica e politica dell’Ue. L’accordo sul “fiscal compact” è fragile, ma non di pura facciata, tant’è che la Gran Bretagna, che insieme agli Usa vuole che si metta sotto torchio il proletariato europeo senza che si rafforzi una potenza europea unitaria e autonoma, ha rifiutato di firmare l’accordo sul “fiscal compact”.
Ma “mettere ordine” significa innanzitutto e soprattutto spezzare il compromesso sociale con i lavoratori che le borghesie europee hanno dovuto e potuto siglare nel XX secolo.All’oggi è difficile prevedere se le politiche che puntano a costituire una potenza continentale europea avranno esito positivo o meno. Qualunque sia lo sbocco di queste politiche, è, in ogni caso, certo che il proletariato sarà (è già) messo alle strette.
Che anche i lavoratori comincino a prendere atto, come hanno già fatto le elite borghesi europee, che un ciclo storico è finito.
(1) Sul fordismo-taylorismo si veda, tra l’altro, l’articolo “Settore auto: emblema del capitale mondializzato” apparso sul n. 73 del che fare e, come sempre, consultabile sul sito.
Che fare n.76 Giugno - Ottobre 2012
ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA