Dal Che Fare n.° 73 dicembre 2010 febbraio 2011
Il settore auto, emblema del capitale mondializzato
Negli ultimi trenta anni si è molto parlato dell’esplosione di “nuovi” settori economici e del forte peso che, in un lasso di tempo relativamente breve, questi hanno assunto a scala internazionale.
Il ruolo di grande importanza assunto per l’intera economia capitalistica mondializzata da settori, per citarne alcuni, come quello informatico-elettronico, quello delle telecomunicazioni (al primo fortemente inter-connesso) o quello agro-chimico è fuori discussione. Quello che invece non è affatto vero è che in questi decenni sia andata diminuendo l’importanza di alcuni settori “maturi” e tradizionali come quello automobilistico.
Una simile e sbagliata “idea” è stata negli anni fortemente incoraggiata da una campagna mistificatoria il cui obiettivo era ed è quello di sminuire il peso sociale (e, quindi, potenzialmente politico) degli operai industriali e che, proprio per questo, ha teso a presentare le produzioni tradizionalmente legate alla “grande fabbrica” come “vecchie”, “cotte” e “residuali”.
La realtà, soprattutto se non ci si limita a guardare la sola Italia, è profondamente diversa. La massa dei lavoratori che è impiegata nella produzione di autoveicoli continua a rappresentare di fatto un reparto di fondamentale importanza dell’intero mondo del lavoro. Un’importanza che non deriva “solo” dalla quantità degli “addetti”, ma anche dal fatto che tale massa opera in un quello che resta uno dei settori chiave per l’intera economia planetaria.
Un ruolo storico
Sin dagli inizi del novecento l’industria automobilistica ha scandito i tempi ed i modi dell’intera macchina produttiva capitalistica e delle sue innovazioni più “rivoluzionarie” in quanto a tecnica ed organizzazione lavorativa. Due esempi su tutti: uno più “antico” ed un altro decisamente più recente.
A cavallo degli anni trenta la Ford introduce nei suoi stabilimenti la “catena di montaggio”. L’operaio cessa definitivamente di essere un artigiano “padrone” del proprio mestiere per diventare un semi-automa costretto a svolgere ossessivamente solo una stessa, parcellizzata e ripetitiva mansione nell’arco della sua giornata. Gli ingenti investimenti tecnologici e la nuova organizzazione del lavoro (denominata taylorismo) conducono ad un netto aumento della produttività del lavoro, ad un parallelo incremento dello sfruttamento operaio e ad un più rigido e marcato controllo aziendale sulla manodopera. I profitti della casa di Detroit schizzano in alto e, contemporaneamente, vengono gettate le basi affinché l’automobile cominci a diventare un oggetto di largo consumo, un cosiddetto “bene di massa”.
Ben presto la “catena di montaggio” cessa di essere un prerogativa della Ford: ad adottarla non sono solo le altre aziende automobilistiche, ma anche i più svariati comparti industriali. Di fatto diventa il simbolo dell’industria del XX secolo. Mentre anche parte del settore “terziario” (cioè quello dei “servizi”) inizia ad essere pian piano organizzato sulla base di metodi e concetti che si ispirano al taylorismo.
Anni ’70 e ’80: alla Toyota viene “perfezionato” e portato all’estremo il “sistema” taylorista. Nella casa automobilistica giapponese viene sperimentato ed introdotto un tipo di organizzazione lavorativa in cui di fatto vengono quasi azzerati i tempi morti. Il minuto è fatto da sessanta secondi e nessuno di questi sessanta secondi deve essere “sprecato” dall’operaio in maniera improduttiva. Affinché tutto il tempo sia adoperato “proficuamente” (proficuamente per il padrone e l’azienda) viene controllato e codificato ogni singolo movimento del lavoratore che cessa persino di essere “libero” di scegliere “come avvitare un bullone”. I ritmi e l’intensità del lavoro crescono esponenzialmente, ma il toyotismo esige anche altro. L’operaio non deve essere “soltanto” un docile robot, ma deve anche garantire una spasmodica attenzione e concentrazione finalizzata alla “qualità totale” del prodotto. È su questo “rivoluzionario” metodo di spremitura e torchiatura dei muscoli, dei nervi e del cervello dei lavoratori che si è basata la scalata dell’azienda giapponese ai vertici del mercato automobilistico mondiale. Anche il toyotismo, come è ovvio, supera ben presto i confini della “casa madre” ed impone il suo “verbo” nei più svariati campi produttivi.
Ed oggi? La tanto pubblicizzata riconversione industriale (cosiddetta) "verde", il "green-deal" di Obama (sul cui reale significato invitiamo a leggere quanto scritto sui numeri 70 e 71 di questo giornale), non ha forse uno dei suoi perni fondamentali nella ristrutturazione e riorganizzazione dell’industria automobilistica intorno ad un (se così si può dire) toyotismo (1) spinto all’estremo?
Un traino generale
Ma, anche al di là della “storia”, l’importanza strategica del comparto è evidenziata, tra l’altro, dal fatto che esso è fondamentale per garantire l’accumulazione di profitti in altri settori. Ad esempio, l’andamento del mercato dell’acciaio, degli idrocarburi, della componentistica elettronica e di una quota della chimica è al quanto connesso all’andamento del mercato e della produzione di autoveicoli. L’auto, inoltre, continua ad essere di stimolo per lo sviluppo e l’applicazione di nuove tecnologie, tanto che nel 2008 nel settore, a livello europeo, sono stati investiti circa 20miliardi di euro in ricerca e sviluppo, record tra i comparti produttivi “privati” del “vecchio” continente.
Se si guarda poi al dato occupazionale la rilevanza dell’industria automobilistica si conferma in pieno. Nel 2000 si calcolava (tali statistiche risentono di un qualche margine di approssimazione) che circa il 20% della manodopera mondiale fosse impegnata direttamente o indirettamente dal settore.
Nel 2009 nella sola Europa “a 27” oltre 2milioni e 300mila lavoratori erano impiegati nella produzione diretta di autovetture e oltre 10milioni nella filiera ad essa strettamente collegata.
In Germania, secondo il Ministero per l’economia e la tecnologia, l’industria automobilistica ha contato nel 2009 mediamente oltre 700mila dipendenti che nei momenti di punta produttivi sono saliti ad oltre 1milione e 800mila unità. Se poi, sempre in Germania, si considera anche l’indotto in senso largo, si giunge ad oltre 3milioni e 300mila posti.
Il peso occupazionale è notevole anche in Italia dove nel 2009 (un anno particolarmente pesante per il settore) i lavoratori dell’auto, tra produzione diretta e filiera, sono stati circa 240mila.
Un mercato asfittico e decotto?
Nel 2007, anno positivo per l’automobile mondiale, i veicoli venduti furono circa 62milioni. Due anni dopo, sotto gli effetti della crisi, le vendite sono scese a 57milioni. L’unico continente in cui le immatricolazioni hanno visto il segno più è stato quella asiatico che ha segnato un incremento del 4,2% (con un +45,5% cinese, di ed un +11% indiano). Nel resto del pianeta fa eccezione il Brasile che segna anch’esso un +11%.
Se sono indubbie le difficoltà che il mercato automobilistico sta tuttora trovando in Europa ed Usa (i grandi mercati storici del settore), la vendita di autoveicoli sta avendo un deciso avanzamento (in alcuni casi si può parlare di vera e propria impennata) in tutti i principali paesi emergenti. Il loro peso sul totale delle immatricolazioni mondiali è passato in soli due anni (2007-09) dal 29% al 36%.
Nazioni come la Cina (diventata lo scorso anno il primo mercato planetario di auto), l’India e il Brasile, “grazie” alla loro crescita economica associata ad un abbondantissima popolazione, hanno le carte in regola per fornire ampie prospettive di mercato per le quattro ruote.
Uno scontro tra titani a livello globale
L’industria automobilistica continua dunque ad essere una delle colonne portanti del capitalismo mondiale: naturale che, per conquistarne o mantenerne l’egemonia, si sia scatenata da anni una guerra senza esclusione di colpi che vede protagonisti gli stati e le più grandi multinazionali del settore. La partita è di fondamentale importanza non solo per le grandissime somme in ballo (soltanto in Europa il comparto, filiera della componentistica inclusa, ha fatturato nel 2008 più di 710miliardi di euro), ma perché, a causa della strategicità del settore, al momento nessun paese che aspira a rivestire ruoli di primo piano nelle gerarchie capitalistiche planetarie può accettare di stare in “panchina” in questo match.
Uno dei primi risultati di questo gigantesco scontro è stato che il comparto è oggi molto più monopolistico di quanto non lo fosse già decenni fa. L’ondata di acquisizioni e fusioni, partita alla grande una ventina d’anni or sono, non solo ha sostanzialmente fatto scomparire i piccoli e medi produttori, ma ha portato anche all’accorpamento di aziende già di per sé gigantesche. Oggi si calcola che i primi dieci gruppi detengano l’80% della produzione planetaria.
Ma il risultato forse più importante di questa lotta è stato lo spostamento del baricentro produttivo dall’Europa e dal Nord America verso l’Asia ed altri paesi emergenti. Questo spostamento, che è allo stesso tempo espressione e concausa di un più generale movimento capitalistico in tale direzione, è dovuto al convergere ed all’intrecciarsi (spesso contraddittorio) di due fattori. Uno: gli investimenti operati da parte delle multinazionali occidentali e nipponiche nei paesi dove si trovavano condizioni di maggiore profittabilità (costo del lavoro più basso, meno diritti per i lavoratori, un’iniziale minore capacità di resistenza operaia, possibilità di imporre ritmi lavorativi “adeguati” alle grande produttività dei nuovi impianti installati). Due: l’ascesa impetuosa di nuove potenze industriali (Cina, Brasile, India…) sulla scena internazionale per nulla disposte ad essere relegate al ruolo di portaborracce dei tradizionali “campioni” del capitalismo mondiale.
La crisi “scoppiata” nel 2007 ha fornito una decisa accelerazione all’azione combinata di questi due elementi e, nel 2009, la Cina (con quasi 14milioni di vetture ed un incremento di oltre il 48% rispetto all’anno precedente) è diventato il primo produttore mondiale di automobili scavalcando in due anni l’Europa Occidentale, il Nord America ed il Giappone. Allo stesso tempo l’India si sta candidando a divenire uno dei principali produttori nel fondamentale ramo della componentistica per auto. Un ramo che da solo fattura mondialmente (le varie stime non sono concordanti) tra i 700 e 1200miliardi di dollari.
Insomma anche (e non potrebbe essere diversamente) l’industria automobilistica è parte integrante e protagonista di uno scontro globale che punta a definire chi guiderà il capitalismo mondiale nel prossimo futuro. È una partita che vede impegnati mostruosi apparati statali e gigantesche multinazionali, ma è una partita che, in fin dei conti, si gioca tutta sulla pelle e sul sudore del proletariato internazionale. Sul suo schiacciamento e sul suo incatenamento fratricida dietro bandiere nazionali ed aziendali.
Prendere consapevolezza, fare i conti e confrontarsi con un simile scenario mondiale è uno dei primi compiti di chi vuole contribuire a far si che il proletariato mondiale acquisti la coscienza della sua enorme potenziale forza e, per tal via, non venga stritolato in questa lotta, ma possa imporre la sua soluzione necessariamente ostile e contraria a tutti gli altri contendenti in campo.
(1) Alla Toyota ed in Giappone questo "nuovo modo di produrre" si poté imporre anche grazie a due fondamentali fattori. 1) La distruzione di ogni capacità di organizzazione e di resistenza indipendente dei lavoratori con la riduzione dei sindacati a mere appendici aziendali; 2) la contemporanea promessa (in buona parte mantenuta e solo oggi in tendenziale crisi) di un posto di lavoro "sicuro e a vita" per una discreta fetta di operai delle grandi industrie.
Dal Che Fare n.° 73 dicembre 2010 febbraio 2011
ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA