Home page        Archivio generale "Che fare"         Per contattarci


Dal Che Fare  n.° 73 dicembre 2010  febbraio 2011

La crisi del sistema monetario internazionale (serie di articoli sul n.73). In particolare questo articolo segue quello sulla guerra delle monete e su cammino della moneta USA  intitolato "Il primato del dollaro"

Le forze che  hanno terremotato il dominio del dollaro

 Vi è stato un enorme allargamento dell’accumulazione e della centralizzazione del capitale, sia dentro i paesi industrializzati che nei paesi usciti dalla dominazione coloniale o semi-coloniale con le lotte di indipendenza nazionale. Se ci riferiamo ai prezzi correnti, il prodotto lordo mondiale è balzato dai 1.434 miliardi di dollari del 1960 ai 42.747 miliardi di dollari del 2005, mentre il calcolo in termini di parità del potere d’acquisto (anno di riferimento il 1995) ci dà 9.572 miliardi nel 1960 e 51.182 miliardi nel 2005. L’industria manifatturiera si è mondializzata fino al punto che oggi la grande maggioranza dei circa 700 milioni di addetti all’industria si trova al di fuori dell’Occidente (incluso il Giappone). La popolazione mondiale è raddoppiata, anzi è pressoché triplicata rispetto al 1945. In essa è cresciuta in modo più che proporzionale la forza-lavoro (extra-domestica), dentro cui si è impennata la quota del lavoro salariato sul totale della forza-lavoro. Altrettanto importante è stata ovunque la crescita della produttività del lavoro, che va da un minimo (negli Usa) del 350% negli ultimi 60 anni a cifre stratosferiche nei paesi partiti, rispetto agli Usa, da dietro (in Giappone siamo al 1.081% nel solo periodo 1950-1981) o da zero.

Inoltre, come abbiamo scritto nel Dossier del n. 70 del “Che fare”, negli ultimi decenni è avvenuto un imponente processo di penetrazione diretta del capitale transnazionale in agricoltura, che ha trasformato decine e decine di milioni di piccoli produttori agricoli “indipendenti” in un enorme esercito di proletari e semi-proletari di un’agricoltura sempre più industrializzata e sempre più dipendente dall’industria e dalle grandi società di commercializzazione dei prodotti agricoli. Se la compariamo all’agricoltura del 1945, l’agricoltura dei giorni nostri è davvero irriconoscibile. Un processo di analoga sottomissione al grande capitale transnazionale hanno vissuto anche molti rami dei servizi alla produzione e alle persone, sicché “a differenza di trenta anni fa, abbiamo oggi una produzione agricola e di servizi che si avvia ad essere altrettanto mondializzata e altrettanto direttamente sottoposta della produzione industriale alle leggi della redditività del capitale, dell’estrazione di profitti dal lavoro salariato”. 

A questo grande balzo in avanti della accumulazione capitalistica su scala mondiale, della sua intensificazione e centralizzazione, si è accompagnata una modifica sempre più forte delle quote-parti del prodotto lordo mondiale, con un progressivo e crescente ridimensionamento della quota-parte dell’Occidente e un altrettanto progressivo ampliamento della quota-parte soprattutto dei grandi paesi asiatici partiti “da zero” nel secondo dopoguerra (la Cina, al 1949, era considerata uno dei paesi più poveri del mondo). L’epicentro della produzione mondiale si è fortemente spostato verso Oriente.

Per effetto di questo insieme di processi e, in un certo senso, come loro sintesi, si è verificato un cambiamento quantitativo e qualitativo di grandissima importanza anche in campo monetario con lo straordinario allargamento della moneta privata, di credito, bancaria, commerciale e la creazione di un mercato dei capitali liquidi di dimensioni ciclopiche. Per le sue proporzioni, esso è qualcosa di inedito nella plurisecolare storia del capitalismo, e rende la gestione centralizzata della moneta e del credito ardua non solo per i singoli stati, ma anche per gli stessi organismi politici internazionali.

La formazione di un mercato mondiale dei capitali liquidi di dimensioni ciclopiche è avvenuta a partire dagli anni ’60 con il mercato dei petro-dollari o euro-dollari, il primo mercato finanziario realmente mondializzato e del tutto privo di controlli nazionali. Euro-divise, euro-prestiti, azioni, obbligazioni, partecipazioni, buoni del tesoro, derivati, futures, opzioni, swaps e l’indecifrabile serie di furfanterie emerse solo in parte con la catastrofe dei mutui sub-prime statunitensi: si tratta di un mercato su cui nel 2010 c’è stato uno scambio quotidiano di valute per circa 4.000 miliardi di dollari (il pil di Giappone e Cina è di poco superiore ai 5.000 miliardi), uno scambio quotidiano di azioni e obbligazioni per un valore totale di molte centinaia di miliardi di dollari. L’epicentro di questo mercato è il Forex (Foreign Exchange Market), il mercato delle monete il cui scambio avviene con contratti di durata variabile, da pochi giorni (spot), a qualche mese (in genere i futures) a qualche anno (i forward, o gli swaps), un mercato cresciuto negli ultimi 12 anni del 261%.

A spianare delle autentiche autostrade a simili fantasmagorici prodotti della ingegneria finanziaria e speculativa transnazionale ci hanno pensato gli Stati, che vogliono apparire come “organi della società al di sopra della società” (Engels), ma sono in realtà organi privati, ossia di una sola parte della società, la parte sfruttatrice (il capitale), contro la stragrande maggioranza della società (gli sfruttati). Prima gli Stati Uniti (inizio anni ’70), poi i paesi europei (fine anni ’70), infine il Giappone (inizio anni ’80) hanno azzerato i loro controlli sui movimenti bancari e hanno, nel contempo, abbattuto le barriere tra i diversi tipi di banche. In tre, quattro decenni si è creato così un super-potente sistema finanziario “integrato” alla scala mondiale dominato da vecchi e nuovi potentati. I vecchi potentati finanziari sono le tradizionali banche trasformate e ingigantite dalla liberalizzazione delle loro attività come full service bank, e le grandi imprese industriali, anch’esse lanciatesi in attività finanziarie in proprio. I nuovi potentati sono invece le banche di investimento, i fondi pensioni, le securities houses, gli hedge funds, il cosiddetto sistema bancario ombra, le “non banche”, etc. Gli uni e gli altri sono in grado perfino di farsi beffe delle banche centrali, o almeno di agire in modo indipendente dalle loro aspettative e “direttive”. Salvo, si capisce, chiamarle in causa imperativamente a disastri avvenuti, come è accaduto di recente, affinché socializzino le loro stratosferiche perdite in nome dei debiti accumulati dalla… società.

Sarebbe di una banalità desolante considerare in blocco questo enorme mercato finanziario globale alla stregua di mera speculazione, un oceano di mero capitale fittizio. Esso è, al contrario, in primo luogo il risultato proprio di quel grandissimo allargamento del raggio dell’accumulazione di capitale di cui si è detto, della crescita e della socializzazione a scala mondiale delle forze produttive; un oceano di plusvalore, di lavoro non pagato. Dal punto di vista del capitale, una tale inaudita mondializzazione dei rapporti sociali di produzione capitalistici e degli scambi mercantili ha un bisogno vitale di una moneta mondiale ancora più solida e riconosciuta a scala globale dello stesso dollaro-1944, non solo come strumento di circolazione, di pagamento e di riserva, ma anche come unità monetaria di misura internazionale su cui stabilire le equivalenze. Un bisogno analogo lo esprime lo stesso mercato finanziario globalizzato che per quanto pulsi sempre più intorno alle aspettative speculative a breve termine con i suoi scambi frenetici e ad alto rischio, non può fare a meno di un qualche ancoraggio istituzionale di lungo periodo. Ma davanti a questo incontrollato esondare da tutti i lati di monete statali e bancarie, assecondato in primo luogo proprio dalla Federal Riserve statunitense, la forza regolatrice, la capacità di regia della moneta statunitense appare sempre più modesta e inadeguata.

Appare tale ed è effettivamente tale, anzitutto a misura che gli Stati Uniti, pur restando il gigante della produzione agricola e della produzione militare mondiale, hanno perso moltissimi colpi dal 1945, e non minori dal 1971 (se ci limitiamo alle date-simbolo), nel campo della produzione di beni strumentali, di prodotti industriali e anche di servizi. Questa perdita di colpi è impietosamente registrata dalla esplosione del debito estero statunitense, di quello valutario e di quello commerciale (a cui vanno sommati i mega-debiti privati, statali e locali). Il dollar standard ha permesso per decenni agli Stati Uniti di prosperare avendo pressoché in permanenza la loro bilancia con l’estero in deficit. Ma, come ha notato Mosconi, di cui pure non condividiamo la lettura tutta “soggettiva” del primato e della crisi del dollaro: 

«Fino al 1982 si è trattato di deficit dovuti ai movimenti di capitale: gli Stati Uniti compravano a debito le imprese del resto del mondo, lucravano alti saggi di profitto e capital gains sugli investimenti e pagavano modesti interessi sui Treasury Bills [titoli di stato a breve termine, da tre a dodici mesi] e sui Treasury Bonds [titoli di stato a lungo termine, da dieci a trenta anni]. La bilancia dei pagamenti correnti non manifestava squilibri. Principali finanziatori degli Stati Uniti, in questa fase, erano l’Europa e il Giappone. A partire dal 1982, però, il deficit ha investito la bilancia delle merci e dei servizi ed è peggiorato fino a raggiungere ratios [percentuali] del 5-7% sul pil, poco sensibile alle variazioni di cambio del dollaro (…). La spesa militare, in continuo aumento, è stata finanziata con un indebitamento verso l’estero senza un corrispondente aumento delle aliquote fiscali, che sono state invece diminuite per le classi di reddito più alte. Il governo ha così evitato di chiedere al Congresso, e al popolo americano, di sostenere il costo delle guerre. Il ‘deficit senza lacrime’, contro il quale si erano scagliati inutilmente De Gaulle e Rueff [a fine anni ‘60], ha consentito di finanziare i cannoni senza rinunciare al burro.

«(…) Principali finanziatori degli Stati Uniti, in questa seconda fase, sono diventati i paesi esportatori di prodotti industriali (…). I proventi delle esportazioni di questi paesi, depositati presso le banche americane e reinvestiti principalmente in titoli del Tesoro statunitensi, hanno fatto degli Stati Uniti il primo debitore mondiale. L’accumularsi del deficit ha reso il debito insostenibile.»

 È questo in effetti lo spettacolare rovesciamento di posizioni rispetto ai tempi di Bretton Woods: la nazione, lo stato, il capitalismo “nazionale” capace di fare anticipi insieme all’Europa (molti) e all’Asia (più ridotti), il massimo creditore della storia del capitalismo, si è trasformato in un grande debitore, in prospettiva nel più grande debitore della storia del capitalismo. E questa crescente esposizione debitoria non dipende solo, né principalmente dalle guerre d’Iraq e dell’Afghanistan, guerre – peraltro – che la superpotenza di un tempo non riesce a vincere (ciò che aggiunge ai suoi sbilanci economici un deficit di credito politico-militare); dipende in primo luogo dal progressivo indebolirsi della struttura produttiva statunitense, dalla crescente dipendenza dalle fonti energetiche estere, dalla perdita di competitività in tutti i campi, incluse le stesse tecnologie di punta in cui gli Stati Uniti parevano irraggiungibili, e infine dalla pretesa di non modificare l’american way of life pur in presenza di questo declino. Come potrebbe il dollaro, simbolo e veicolo di un imperialismo declinante, declinante anche nella sua egemonia ideologica dopo il disastro in cui s’è inabissato il trentennio “neo-liberista”, continuare a essere fosse pure solo il re costituzionale, anziché il sovrano assoluto, del sistema monetario mondiale? di un sistema monetario mondiale chiamato oggi a oliare una produzione e una circolazione di capitali e di merci di entità inaudita e a mettere sotto controllo e gestire una così debordante produzione di moneta statale e privata?

La Cina, nuova grande potenza manifatturiera e neonato attore finanziario globale, la nazione capitalistica più ascendente, ha posto esattamente questa questione. E dalla posizione-chiave di primo creditore degli Stati Uniti, ha osato ciò che nessuno aveva osato prima: mettere all’ordine del giorno apertamente il passaggio alla repubblica, la sostituzione del dollaro come moneta mondiale con una moneta-paniere contenente una pluralità di valute. Né s’è fermata a questo dal momento che nel contempo sta facendo avanzare gradualmente lo yuan come mezzo di pagamento internazionale e sta tessendo intorno a queste due mosse una fitta rete di alleanze. Sotto questo profilo tra il 2008 e oggi sembrano trascorsi non due anni, bensì un’intera epoca.

Dal Che Fare  n.° 73 dicembre 2010  febbraio 2011

ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA


Home page        Archivio generale "Che fare"         Per contattarci