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Dal Che Fare  n.° 73 dicembre 2010  febbraio 2011

La crisi del sistema monetario internazionale (serie di articoli sul n.73). I particolare questo articolo segue quello intitolato "Le forze che hanno terremotato il dominio del dollaro"

La Cina, la Cina…

La Cina ha avanzato con tempismo la proposta di una moneta mondiale costituita da un pool di monete chiamate a soppiantare il dollaro a fine 2008 all’indomani dell’esplosione della recente crisi richiamandosi, con raffinata perfidia, al Keynes di Bretton Woods. E ha incamerato un importante successo diplomatico nel giugno 2009 a Ekaterinenburg quando i capi di stato di Brasile, Russia, India e Cina (il Bric) hanno sottoscritto la richiesta di un sistema monetario “stabile, affidabile e più diversificato” (ovvero: il dollaro non è più né stabile, né affidabile, e dunque non può conservare i privilegi di quando era effettivamente tale) e di istituzioni finanziarie internazionali da riformare “per riflettere i cambiamenti avvenuti nell’economia mondiale” (ovvero: Stati Uniti ed Europa non hanno più il 75-80% della produzione industriale mondiale, dunque nel Fmi, nella Banca mondiale, etc., devono fare spazio a nuovi paesi). In nome del rafforzamento del sistema monetario mondiale il presidente russo Medvedev ha affermato perentoriamente la necessità della “creazione di nuove valute di riserva, e forse, in ultima analisi, la creazione di divise [al plurale – n.] sovra-nazionali, nuovi mezzi di pagamento e metodi di calcolo. L’economia non può funzionare [addirittura – n.] se gli strumenti finanziari sono denominati in un’unica valuta. Una simile situazione è osservabile attualmente”. Chiaro, no?

Qualche mese dopo, un summit semi-segreto coinvolgeva, oltre Cina e Russia, anche il Giappone, la Francia e, alquanto sorprendente!, alcuni paesi arabi tra i più filo-Usa. All’ordine del giorno la elaborazione dei criteri con cui sostituire la divisa statunitense e lo studio di mezzi alternativi di pagamento del petrolio e di altre merci. Alla comprensibile smentita saudita e kuwaitiana ha fatto seguito poche settimane dopo una decisiva smentita della smentita, nel momento in cui l’Arabia Saudita, il Kuwait, il Bahrein e il Qatar hanno ufficializzato la creazione di un Consiglio monetario comune, embrione di una Banca centrale comune, con il compito di procedere verso una moneta comune, il gulfo, candidata a soppiantare il dollaro nei contratti internazionali sul greggio.

Il secondo vertice del Bric tenutosi a Brasilia nell’aprile di questo anno ha dato piena copertura a questa iniziativa inter-araba sottolineando come una “nuova governance della finanza mondiale” passi di necessità per il “superamento del dollaro come divisa di riferimento degli affari globali” e per “accordi valutari regionali”, finalizzati a usare nel commercio le monete nazionali e promuovere scambi ed investimenti su base di area. Uno di questi accordi di area la Cina era appena riuscito a portarlo a termine in Asia, con la partecipazione dei paesi dell’Asean, del Giappone e della Corea del Sud, creando una sorta di Fondo monetario asiatico con una dotazione di partenza di 120 miliardi di dollari e un’attività inizialmente limitata alla sola possibilità di scambi di valuta tra le banche centrali in caso di difficoltà dei singoli paesi. Benché circoscritto, l’accordo ha costituito una sconfitta per gli Stati Uniti, da sempre ostili a simili progetti che limitano in modo diretto o indiretto il potere di azione e di disposizione di Wall Street e del dollaro.

Nell’opera di delegittimazione del dollaro come moneta mondiale i buro-capitalisti “rossi” (rossi?!) di Pechino hanno avuto un’attenzione particolare ai paesi extra-occidentali, consapevoli come sono che nella critica dello strapotere di Washington vi è con essi una reale convergenza di interessi.   Nel maggio 2009 a Mumbai, rivolgendosi proprio a loro in un seminario di esperti economici del G-20, la signora Hu Xiaolian, vice-capo della Banca centrale cinese, aveva spiegato come le cause della crisi fossero “strettamente legate al sistema monetario internazionale malato dominato dal dollaro americano”, identificando la prima anomalia di questo sistema nel fatto che “le economie emergenti e in via di sviluppo hanno finanziato la crescita delle nazioni sviluppate con enormi quantità di denaro”. Questo, aveva aggiunto, ha bloccato ogni possibile riequilibrio dello sviluppo a livello mondiale, concludendo più o meno così: bisogna aumentare la sorveglianza globale sui paesi che emettono le principali monete (e dunque anzitutto sugli Usa); bisogna rafforzare i diritti speciali di prelievo del Fmi come prima concretizzazione di una nuova moneta globale; e bisogna promuovere nuovi fondi di investimento per incanalare i capitali verso i paesi “in via di sviluppo” affinché diventino il motore della crescita mondiale. Nello stesso giro di mesi un altro alto funzionario di stato cinese, Xu Shanda, proponeva un “Piano Marshall cinese da 500 miliardi di dollari, per finanziare progetti in Asia, Africa e America Latina”; ed è proprio in tali direzioni che si sono indirizzati finora in prevalenza gli investimenti diretti all’estero cinesi, lievitati in misura impressionante dagli 1,4 miliardi di dollari del 2004 ai 56 miliardi di dollari del 2009.

Con prudente gradualità, gradualità necessaria per non subire i contraccolpi di un possibile tonfo del dollaro, la Cina sta alleggerendo le sue riserve in dollari a favore di altre valute e delle obbligazioni emesse dal Fondo monetario internazionale (ne ha acquistate a settembre 2009 per 50 miliardi di dollari). E sta promuovendo in modo sistematico lo yuan, l’uso “sperimentale” dello yuan (o renmimbi) nelle sue transazioni commerciali e negli accordi finanziari di “mutuo soccorso” conclusi con i paesi “amici” (Brasile, Argentina, Bielorussia, Malaysia ed altri). È stato avviato poi un progetto-pilota ad Hong Kong che prevede la quasi-libera circolazione dello yuan nella città-stato con uno status simile a quello del dollaro, e il progetto sta avendo grande successo. Lo yuan non è ancor convertibile, ma negli ultimi due anni la Cina, oltre a concludere accordi internazionali in yuan come stato, ha anche concesso le prime autorizzazioni a banche straniere (la Hong Kong Shanghai Bank della britannica Hsbc) e imprese straniere (la statunitense McDonalds’) di emettere proprie obbligazioni in yuan, la Hsbc addirittura per un valore di 1 miliardo di dollari. Si tratta di un cammino “pianificato” verso lo sganciamento dello yuan dal dollaro, la sua lenta convertibilità e la sua altrettanto lenta rivalutazione, e quindi la sua trasformazione in una divisa globale, a partire dal sud-est asiatico, un cammino che sta negli ultimi tempi accelerandosi.

E ha davvero le apparenze di un cammino trionfale. Per la Cina, meglio: per il capitalismo cinese, l’anno 2010 è l’anno dei record. In corso d’anno, infatti, il prodotto interno lordo cinese ha superato quello del Giappone. Sempre in corso d’anno la Cina è diventata il primo esportatore mondiale superando la Germania (non, come credono gli attardati, esportando magliette e jeans da 1 euro, ma avendo come prime voci del suo export i macchinari, i prodotti hi-tech e i prodotti informatici). È  diventata il primo produttore di auto al mondo scavalcando gli Stati Uniti, che – per ammissione di Obama – sono stati scavalcati anche nei supercalcolatori, nei treni ad alta velocità e nella quantità di brevetti annui. È diventata il terzo azionista, per quote, del Fmi, lasciandosi dietro Germania, Gran Bretagna e Francia, e trascinando Russia, India e Brasile nella top ten degli azionisti. In corso d’anno taglierà, si dice, l’impensabile traguardo dei 100 miliardi di dollari di investimenti diretti all’estero. Si è lanciata con l’agenzia privata Dagong nell’attività di rating. Ha stupito il mondo con l’Expo di Shanghai. Ha infilato un successo diplomatico dopo l’altro, il più stupefacente, forse, è l’avere ottenuto l’affiancamento della Merkel e di Schauble nelle filippiche contro gli Stati Uniti produttori di debiti e problemi per il mondo intero… se non fosse che l’asse Washington/Pentagono/Wall Street si sta saldando in una linea anti-Cina sempre più determinata che alla Cina può far male, molto male (anche se può far male, molto male, alla stessa Amerika). E se non fosse che il 2010 è stato anche, per quel che se ne può sapere, un anno-record di scioperi operai per l’altra Cina, la nostra Cina.

Dal Che Fare  n.° 73 dicembre 2010  febbraio 2011

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