Riflessioni sulla Jugoslavia

GLI AMARI SCENARI DELLA JUGOSLAVIA "LIBERATA"


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Diversi studiosi del calibro di Michel Chossudovsky e Jared Israel, ma anche degli osservatori tutt'altro che distratti, come Michel Collon o il nostro Fulvio Grimaldi, hanno fornito e stanno fornendo una messe documentaria veramente impressionante sulle modalità ed il significato del generoso "aiuto" occidentale al DOS per sbarazzarsi dell'ultimo filo di resistenza istituzionale al loro libero ingresso in Jugoslavia quali rapinatori autorizzati, e i primi due di costoro hanno anche tracciato un quadro esauriente sulle premesse di tale ingresso, acquisite già al tempo in cui Milosevic stava bene in sella e se ne faceva, in qualche modo, garante, ma, evidentemente, in maniera non ancora sufficiente. (Possiamo utilizzare qui solo in parte questi materiali, che ricaviamo dal sito web del coordinamento nazionale "La Jugoslavia Vivrà", http://www.egroups.com/group/crj-mailinglist/ al quale rimandiamo gli interessati, e non abbiamo alcuna esitazione a ringraziare il coordinamento in questione per la sua preziosa opera documentaria, pur non condividendone per nulla l'impostazione politica generale).

Chossudovsky, in particolare, ha messo bene in rilievo l'opera di manomissione e distruzione pianificata della Jugoslavia da parte degli USA sin, dice lui, dall'84 attraverso, dapprima, l'azione delle grosse associazioni finanziarie; opera culminata già nell'89 a cura del ministro delle privatizzazioni Vukotic per conto dei Fmi: "Vukotic lavorò ad un piano della Banca Mondiale per privatizzare l'industria jugoslava. Questo piano orchestrò la bancarotta del 50% dell'industria jugoslava, togliendo di mezzo 1100 aziende. Oltre 614.000 lavoratori industriali, dei 2,7 milioni complessivi, rimasero sul lastrico". Tuttavia, sotto Milosevic, la parte "sana" dell'industria fu preservata dallo smantellamento, si imposero misure di "controllo" sulla privatizzazione preservando financo, formalmente, un certo diritto decisionale operaio, non si procedette al taglio indiscriminato delle spese sociali, l'apicoltura fu preservata dallo spettro di una totale liberalizzazione etc. etc. L'attuale DOS, al contrario, rilancia la linea degli "ammodernatori" occidentali demolendo ogni barriera protettiva tendente a proteggere l'economia borghese nazionale e, tanto più ed a maggior ragione, il residuo stato sociale vigente.

Una prima esemplificazione di tutto ciò: la disponibilità a cedere la stessa Zastava, dopo averne cacciato l'invisa dirigenza burocratico-"operaia" che ne pretende la difesa, a qualche buona ditta occidentale in grado di servirsene come succursale per il proprio mercato o, sull'altro fronte, l'immediata liberalizzazione dei beni di maggior consumo vitale da parte del popolo con prezzi schizzati alle stelle da un giorno all'altro per il latte, il pane, l'elettricità, i trasporti.. . L'investimento di centinaia di miliardi a favore del DOS da parte dell'Occidente (rigorosamente documentato e persino ufficializzato dai "prestatori") comincia quindi ad essere opportunamente ripagato. Tutto questo, e molti altri dati, sono rigorosamente documentati e basta anche solo disporre come noi- di un qualche legame diretto con la situazione attuale in Jugoslavia per constatarne i riflessi immediati sulla pelle dei lavoratori.

Il senso e la portata dell'attacco occidentale sono fin troppo chiari e solo degli inguaribili "ingenui" (sino a che punto?) hanno potuto per anni vedere negli avvenimenti jugoslavi il solo riflesso di grovigli interni e addebitarne la responsabilità principale al cattivo locale di turno, prima plaudendo alle secessioni, morbide o meno (vero, Rifondazione?), poi addirittura invocando un sano intervento militare da parte della I comunità internazionale" (vero, Rossanda?), infine brindando all'esautorazione di Milosevic (vero, entrambi?). Non ci dovrebbe piovere sopra. Ma, dato questo per assodato, rimangono delle domande grosse come una casa: attraverso quali leve interne alla Jugoslavia si è potuta far largo la manomissione occidentale? Come mai (se è vero, com'è vero, che per le masse lavoratrici il dopo-Milosevic si presenta più duro di prima) il DOS è uscito vincitore dalle urne, ad onta della sua conclamata contiguità con gli aggressori occidentali? Perché non c'è stata resistenza e, soprattutto: a che condizioni e con quali caratteristiche possiamo pensare ad una ritrovata risposta di massa ad un Occidente che si appresta a continuare e perfezionare la guerra sotto forma e coi mezzi di "pace"?

Su questo punto non troveremo risposta plausibile neppure da parte di coloro che abbiamo sopra citato, con tutto il rispetto -graduato- che pur gli dobbiamo per il sicuro sentimento anti-imperialista e la capacità di raccolta, analisi e "socializzazione" di dati controinformativi indispensabili.

La prima disarmante constatazione in tal senso ci viene dal modo con cui sono stati affrontati gli esiti elettorali, in Particolare il primo: recriminazioni senza fine sull'ingerenza" occidentale nell"'affare interno" elettorale con la denunzia di finanziamenti "illeciti" al DOS, brogli ed intimidazioni. Tutto vero, beninteso, ma assolutamente ridicolo quando lo si dica rivendicando "elezioni libere", non influenzate da manovre "esterne" e via dicendo, ed assolutamente perdente, e controrivoluzionario, quando lo si dica schierandosi politicamente, in assenza di altro, come "miglior soluzione", dalla parte del perdente in partenza Milosevic. Noi marxisti non conosciamo da nessuna parte elezioni del genere, perché, in fin dei conti, la stessa macchina organica dell'imperialismo interferisce sui destini e le "libere decisioni" dei cittadini di qualsiasi paese sottoposto al suo giogo ed i rivoli di soldi destinati ai propri scagnozzi interni con tutto H resto di cui, correttamente, ci si informa, non sono, in fondo, che delle derivanti assolutamente secondarie. In secondo luogo, mai penseremmo che una ipotetica "libera scelta" possa derivare dall'esito dei numeri elettorali. Non ci abbiamo mai creduto noi (altrimenti addio Ottobre Rosso ed ogni altro tentativo di Comune rivoluzionaria!); non ci hanno mai creduto i nostri avversari (vedi il fascismo): quel che conta sono i rapporti di forza reali tra le classi; i risultati elettorali acconci vengono dopo. Per noi così come per i nostri nemici: le schede elettorali decretarono democraticamente la vittoria di Mussolini ed Hitler dopo che questi avevano già vinto sul campo.

Ed allora: Milosevic era già perdente su questo terreno di scontro prima che la contesa elettorale ne sancisse la sconfitta, e lo era non solo dal punto di vista di una semplice constatazione di mancanza di forze adeguate allo scontro, ma da quello della sua funzione di organizzatore di sconfitte per le classi lavoratrici.

"Appoggi" per il precipizio

Il sottofondo comune a simili posizioni vanamente protestatarie è il seguente: in fin dei conti, la Jugoslavia era un paese socialista con Tito, lo è rimasto in una certa misura con Milosevic, l'imperialismo ha aggredito questo socialismo, quindi noi stiamo dalla parte di esso sostenendo i suoi rappresentanti, pur se dubitabili, per "resistere" a tale aggressione. Scrive il Coordinamento La Jugoslavia Vivrà: "I comunisti dovrebbero di regola APPOGGIARE borghesie nazionali e stati capitalisti che mettono i bastoni tra le ruote dell'avanzata del capitale monopolistico transnazionale cioè dell'imperialismo... Siamo assolutamente convinti che sia stato giusto appoggiare la RF di Jugoslavia di Milosevic contro la NATO e la (sua) politica interna (SPS compreso, n.)... così come avremmo appoggiato anche gli Stati europei -capitalisti e borghesi- aggrediti dal nazismo tedesco" etc. etc. (precisando che forze raccolte attorno a Milosevic "rispecchiano, dal punto di vista sociale, gli interessi di una 'borghesia rossa' generatasi in questi anni di controriforme e cedimenti": il che non equivale propriamente ad una qualche forma di residuo socialismo, sia pur deformato).

La confusione regna sovrana.
Lasciamo pur stare la difesa dei poveri stati europei aggrediti dal nazismo: non sapevamo si trattasse di forze intente a "mettere i bastoni tra le ruote etc. etc.", e li credevamo, piuttosto, stati imperialisti entrati in guerra per difendere contro il concorrente fascismo i propri interessi (tra i quali, piccolo particolare!, il dominio su centinaia di milioni di schiavi colonizzati in ogni parte del mondo); e non sapevamo che gli USA fossero intervenuti nel secondo conflitto mondiale, accanto a simili... "compagni di viaggio", per difendere le libertà antifasciste e... l'anti-imperialismo. Continuiamo a credere che il proletariato dei paesi occidentali "minacciati" dal nazi-fascismo abbia pagato cara la sua union sacrée con l'imperialismo -se ci permettete! - "democratico" uscendone Più schiavo di prima e, soprattutto, rinviandone il conto ad una crescente massa di popoli dominati e controllati a scala mondiale, sino a quest'ultimo episodio jugoslavo, frutto amaro della "liberazione democratica" sotto l'egida imperialista più forte e più realmente aggressiva. Continuiamo ad intendere che l'unica, vera risposta al fascismo (ed all'antifascismo") imperialista consista nel disfattismo rivoluzionario nell'opposizione della guerra civile di classe contro il proprio nemico interno -il leniniano "nemico numero uno e nella fraternizzazione internazionale di classe contro i confini nazionali borghesi per l'affermazione dei socialismo.

Ma facciamo finta che questa Pessima esemplificazione sui doveri dei "comunisti non sia stata fatta e limitiamoci alla Jugoslavia.

Siamo noi per la difesa incondizionata di un paese non imperialista dall'aggressione imperialista? Certamente sì, e fino in fondo. Nonostante Milosevic? Ancora una volta sì. Ma questo nonostante indica una cosina molto chiara: il nostro appoggio ad un popolo oppresso non può poggiare che sulla base di una mobilitazione di forze proletarie a scala internazionale, e non

sul sostegno ad una qualsivoglia "rappresentanza", borghese o meno, di esso. Il sostegno ai vari Milosevic non è, in prima istanza, un "tradimento dell'ideologia comunista", ma un aperto sabotaggio della sola via immaginabile per la difesa di un popolo, di un paese aggredito: la lotta per la piena ed assoluta indipendenza politica del proletariato contro i "propri" rappresentanti ufficiali, localmente ed internazionalmente. O, altrimenti, dovremmo immaginarci un imperialismo talmente imperialista da permettere al proprio interno delle "libere" isole (capitalistiche!): la teoria del "riequilibrio" imperialista senza toccare l'imperialismo, una sorta di "capitalismo giusto", "ben ordinato"!

Il fatto, puro e semplice, è che quasi nessuno tra i nostri interlocutori d'animo sinceramente anti-imperialista crede e vede la possibilità di una simile risposta di classe e, quand'anche intende lottare contro il nemico giusto, lo fa con anni sbagliate da cima a fondo. Mai una volta, infatti, che ci sia stato dato di incontrare analisi sullo stato politico ed organizzativo della classe per intendere come rafforzarlo; quand'anche si parli di classe, il posto ad essa riservato è sempre, programmaticamente, alla coda della propria borghesia, che si finisce per vedere in sostanza quale unico soggetto oppresso e resistente "per il bene di tutto il popolo".

Riprendiamo il filo da capo

La questione andrebbe affrontata sin dall'inizio, come abbiamo fatto più volte, non interloquiti da nessuno di costoro, neppure in contraddittorio. Pazienza, ci tocca brevemente ripeterci.

La lotta di liberazione nazionale titoista, sin dai suoi esordi, si era mossa tra Scilla e Cariddi: da una parte essa si dava come autentico movimento di mobilitazione di classe dei lavoratori oppressi ad un alto grado di ebollizione sociale all'insegna di reali interessi progressivi nazional-borghesi (l'unità nazionale fraterna la conquista di postazioni economiche "indipendenti" dal predominio borghese-imperialista esterno, la possibilità conseguente di un elevamento e di una "riforma" dei rapporti i interni di classe a favore dei lavoratori, i I tutto presentato illusoriamente come "socialismo"); dall'altra, il poderoso movimento di massa titoista si inscriveva, nel fare ciò, entro la cornice della guerra imperialista nei cui interstizi. ritagliarsi un proprio spazio "socialista in un, solo paese". Per quanto segnata ab origine dallo stalinismo, la lotta di liberazione nazionale titoista, dato il potenziale di classe in essa presente, avrebbe, teoricamente, potuto rappresentare un segnale per la riscossa proletaria internazionale a patto che esso fosse stato raccolto dalle altre frazioni pesanti dei proletariato europeo, dell'Ovest e dell'Est, per superare e battere la comico di partenza di cui s'è detto, anche e necessariamente contro i limiti nazional-borghesi insiti nella variante titoista del "socialismo in un solo paese".

Così non è stato, e non per colpa primaria del proletariato jugoslavo. o neppure di Tito -che non consideriamo a sé come il corresponsabile delle catastrofi a venire-, ma, se vogliamo, proprio dei "comunisti" intruppatisi nel l'appoggio all'imperialismo "democratico, e protagonisti, al massimo, di resistenze ad uso e consumo altrui.

Non il solo Tito, ma la massa lavotrice jugoslava si trovò, nel '48, a difendere le proprie conquiste "rivoluzionarie" contro (si badi bene!) Stalin, reclamando il proprio diritto ad esistere da paese "libero" ed è certo che la scesa in campo di questa massa impresse alle rivendicazioni titoiste dei chiari accenti sociali. La famosa autogestione operaia jugoslava può essere letta come la contropartita dovuta ad essa pagare da parte della nuova borghesia nazionale titoista; ed anche questo, in sé, rappresentava un segnale della forza potenziale presente nel proletariato jugoslavo. Nel contempo, però, la resistenza a Stalin non poteva condurre che da due parti: o da quella proletaria del rilancio di un programma e di un'organizzazione comunisti internazionali contro il capitalismo e contro la cancrena del "socialismo in un solo paese", o da quella borghese di un piccolo paese costretto a difendere la propria esistenza "indipendente" da Mosca rendendosi di fatto dipendente dall'Occidente.

Per quanto si possa ammettere una certa dignità in Tito nell'aver tentato sino in fondo di mantenere una certa autonomia rispetto all'Occidente, tenendo sempre alto il prezzo della contrattazione sul mercato di scambio (in ciò facendo pesare l'irriducibilità delle masse jugoslave, appena uscite da un'epica guerra di liberazione, a tale svendita), non può negarsi che il rilancio produttivo jugoslavo venne sin da allora condizionato dagli aiuti -sempre, di per sé, ricattatori- del capitalismo euroamericano, legati a precise contropartite non solo economiche, ma politiche. Le prime erano, in qualche modo, obbligate, e non ci scandalizzano più di tanto; le seconde le dobbiamo misurare per quel che esse hanno significato di tragico, non solo per la Jugoslavia, e su di esse va tracciato un chiaro bilancio fallimentare del titoismo.

Dopo un iniziale e velleitario tentativo di contestare Stalin richiamandosi surrettiziamente a determinati principi marxisti traditi da Baffone, in particolare sul rapporto tra classe e stato (e proprio qui si giocò la carta dell'autogestione!) e persino quanto all'internazionalismo, con contributi ideologici che, in qualche caso, non diremmo né truccati a semplice uso manipolatorio della masse né insignificanti per sforzo sincero d'approssimazione alle fonti del marxismo -pensiamo a un Boris Kidricil titoismo se ne ritrasse immediatamente, sia condizionato dalla sua matrice originaria stalinista, sia dagli "spontanei" sviluppi di un'economia e di una società interna legati mani e piedi al mercato generale del capitalismo mondiale.

Sino al '52 si osò richiamarsi ad una solidarietà dei proletari e comunisti degli altri paesi con l’"eresia" jugoslava in nome di un "comune ideale" comunista, ma sempre più slittando nell'accentuare i toni del "diritto" jugoslavo a "far da sé" come "stato sovrano" e nell'ipotizzare sempre meno un'unità di fronte internazionale in senso marxista contro Stalin. Successivamente, gli iniziali accenti di contestazione da sinistra a Stalin ricaddero in una vuota petizione di autonomismo statale "equidistante" tra Est ed Ovest -in effetti legato strutturalmente all'Occidente-, che intanto significava una totale presa di distanze dal marxismo e, in secondo luogo, si sarebbe mostrato impotente a risolvere in positivo le sue stesse limitate pretese d'indipendenza nazionale. Un tale stato "equidistante" avrebbe poi impostato, una sua azione internazionale sotto la veste dell'organizzazione dei paesi "non allineati", di cui Tiro fu promotore ed anche guida di primo piano. Una rinnovata prova di originale socialismo jugoslavo? Al contrario: il "non allineamento" fu la risposta perdente alla bruciante domanda di solidarietà internazionalista dei popoli colonizzati od oppressi per la propria liberazione contro l'imperialismo sul versante di un fronte unico di stati e borghesie impotenti a condurre tale battaglia, tanto più nell'isolamento del movimento dal proletariato metropolitano, isolamento non solo subito, ma accettato e teorizzato da Tiro.

Allo stesso tempo, l'autogestione operaia per singole aziende o, al massimo, comuni territoriali non poteva, sulla trama del mercato, far altro che dar forza all'emergere di forze direttive e, di fatto, proprietarie borghesi, per di più sulla base esplosiva di una competizione e di un contrasto d'interessi "nazionali", ricacciando progressivamente indietro il proletariato da ogni seria possibilità di signoria od anche semplice controllo della situazione. Restava il suo diritto "proprietario" formale, ma coi giorni contati, per quanto il pieno rovesciamento anche giuridico dei titoli di proprietà sia avvenuto in tempi, tutto sommato, recenti, post-titoisti.

Ma, soprattutto, il proletariato jugoslavo veniva via via deprivato di ogni sua forza pesante nel partito, ridotto a puro organo di direzione e gestione dell'economia e dello Stato, pura e semplice espressione di una grigia burocrazia interna dominante al di fuori di ogni reale vita di partito, con un dibattito ideologico ristretto ai soli quadri dirigenti quale espressione dei propri -e sempre meno coincidenti- interessi.

(Indichiamo una tendenza obbligata, dati i presupposti di fondo, e non un corso rettilineo, tanto meno preordinato: la constatazione del frantumarsi degli iniziali presupposti "socialisti" e dell'erosione degli stessi presupposti nazional-unitari conquistati nel '45 non mancò di suscitare delle reazioni a tinte "classiste", sino a quella che abbiamo chiamata nel nostro libro sulla Jugoslavia l'ultima battaglia di Tito; ma se ciò può testimoniare delle radici profonde e non ancora recise di una tradizione di battaglia di classe nella società jugoslava, non confondiamo l'analgesico con la cura: per i problemi inscritti dentro il sistema internazionale dei rapporti di forza capitalistici della società jugoslava ben poco sollievo poteva dare l'aspirina strettamente nazionalista del titoismo!).

La risposta che è mancata

Inutile parlare del collasso recente del paese, della sua disgregazione sociale e nazionale con l'emergere senza veli di rapaci borghesie locali al servizio dell'imperialismo, con le sue guerre tra nazioni un tempo fraterne con l'incapacità di una pur esistente reazione proletaria a far fronte ad un attacco combinato su tutta la linea. C'è solo questo da dire: qualcuno potrà "opporre" a tale disastro il contraltare dei bei tempi del passato od anche solo il "minor male" cui aggrapparsi per evitare il peggio (nella fattispecie, Milosevic, come sopra s'è visto). Lo stesso discorso si può fare per la Russia o tanti altri paesi implosi", o sul punto d'esserlo, e la semplice ostentazione delle differenze tra prima e dopo può suonare suggestiva. Ma tutto questo non fa che celare la sostanza dei fatti: nessuna catastrofe di tal genere cade dal cielo da un giorno all'altro, ma è il prodotto di un'accumulazione di sostanze infiammabili covate da lunga pezza, di cui si devono andare a vedere e denunciare i presupposti reali qualora si voglia realmente rispondervi da posizioni di forza. Un cancro conclamato è il frutto di un'infezione preesistente e poco giova opporre ad esso il benessere di cui il corpo godeva quando c'erano solo poche cellule infette. Tanto meno pretendere di resistere al male finale "raccomandando" di ritornare ai suoi inizi. Il cancro va combattuto alla radice. Milosevic non totalmente infetto rispetto ad altre parti del corpo? Diamola per buona; in ogni caso, si tratterebbe di un residuo di per sé impossibilitato a resistere o, più, a ridare sanità all'intiero organismo. Gli anticorpi necessari non stanno qui.

(Ci stupisce uno studioso serio come Chossudovsky quando "spiega" la sconfitta di Milosevic con la presenza di "ragazzi ignoranti di politica e corrotti dal danaro, elementi secessionisti, fascisti etc." e l'assenza del "ricordo della lotta di liberazione". Vero, ma da quale tessuto sociale saltano fuori questi mostri se non da quello jugoslavo precedente che li ha coltivati? E quanto al ricordo assente della resistenza: noi non possiamo sperare ad un mondo fatto solo di "reduci" -a parte il fatto che dei bei campioni di essa, vedi Tudjman, se ne sono "ricordati" all'uopo in "una certa maniera" non proprio ortodossa-, ma pensiamo ad un mondo di giovani chiamati alla lotta nel presente, nelle sempre nuove situazioni di conflitto sociale, e per questo occorrono delle forze in grado di guidarli. Perché questo non è avvenuto? Eppure, visto il crescere di secessionisti, fascisti etc. etc., non mancava l'occasione di una mobilitazione e di lotta. Cos'è mancato? Non le occasioni, non le condizioni, ma... e qui ti vorremmo. I ricordi positivi del passato non muoiono perché lontani nel tempo, ma perché cancellati nel presente, o perché in esso capovolti e traditi o perché di per sé impotenti per loro stessa natura a svolgervisi come materiale vivo, o le due cose assieme).

Dove e come, quindi, gli anticorpi? Noi, che legittimamente ci consideriamo i primi -e per lungo tempo i soli- e gli unici conseguenti nella difesa della Jugoslavia dall'attacco capitalista sul solo terreno concepibile (quello proletario, jugoslavo ed internazionale, per il socialismo mondiale, e non per un presunto diritto di un paese borghese ad una propria nicchia equilibrata ed indipendente fuori dal contesto in cui si trova ad agire), lo indichiamo univocamente, ieri, oggi, domani.

Quando, sul finire degli anni '80, si profilava apertamente l'attuale scenario di dissoluzione dei paese lungo linee sottonazionai-borghesi sotto direzione imperialista, collidenti tra loro, ma tutte fronteunitariamente contro il proletariato, quest'ultimo doveva essere chiamato urgentemente ad una propria controrisposta politica: in Jugoslavia, col collegamento delle varie frazioni locali e nazionali, nella lotta comune contro queste forze, riacquisendo una propria autonomia antagonista di programma ed organizzazione (che nessuna delle istanze sindacali e politiche legate alla morente LCJ poteva anche minimamente assicurare); nel resto del mondo, con lo stesso richiamo al proletariato contro il proprio nemico, sfruttatore qui, sfruttatore e boia in Jugoslavia.

La nuova LCJ sorta in Jugoslavia dopo la scomparsa di quella ufficiale aveva inizialmente tentato di difendere la vecchi a unità (e fraternità) jugoslava, ma rintanandosi nel proprio brodetto l'autonomo jugoslavo", difendendo il passato sotto un puro aspetto statale, non richiamandosi alle masse per una lotta unitaria a fondo contro i suoi dominanti tratti borghesi (di cui essa stessa partecipava), ma appoggiandosi prioritariamente su determinati organi "unitari" di potere (primo fra tutti l'Esercito, supposto garante dell'unità del paese). A quanti di essa disposti ad ascoltarci dicemmo: questa strada seppellirà anche i vostri migliori propositi di partenza. E così è stato. Di lì a poco, anche la nuova LCJ si sarebbe rassegnata a parlare "serbo", ultima Thule di un supposto "socialismo" da difendere in ritirata, nell'isolamento rispetto alle frazioni proletarie delle altre nazionalità, "andatesene" per "proprio" conto.

L'unica forma residua di resistenza al pieno dispiegamento imperialista nel paese è rimasta, poi, in termini di peso, quella di Milosevic. Con le stesse, e ben più aggravate, caratteristiche: nessuna rivendicazione dell'unità jugoslava neppure nei termini borghesi pre-titoisti di "Grande Serbia", ma autodimensionamento sotto-borghese alla piccola scala Serbia-Montenegro; vane promesse di soluzione pacifica dei conflitti "etnici" ai concorrenti borghesi delle altre repubbliche in cambio di una "ragionevole" sistemazione territoriale per i serbi della "diaspora" (!), con conseguenti guerre imposte a Belgrado, ma poi gestite da Milosevic con l'abbandono al massacro dei "suoi" serbi extra-confine (vedi le Krajne!); e tutto questo come moneta di scambio col proletariato interno chiamato ad una doppia resa -sul terreno di classe e su quello della "nazione" -allettandolo col mantenimento di certi spazi di sicurezza sociale altrove in via di volatilizzazione. Un programma fallimentare su tutta la linea per lo stesso Milosevic e la sua corte di borghesi pitocchi in vena di "gioco indipendente" su questo ristrettissimo spazio in ritirata, e una pugnalata al cuore del proletariato serbo e di tutta la Jugoslavia.

Chi soppesi i soli dati statistici di "opposizione all'imperialismo" di questa realtà, confondendo in una sola cosa l'aspetto borghese di non sottomissione pregiudiziale all'Occidente del regime e quello della sua rete di persistente protezione sociale delle masse popolari (scambiata per "socialismo" o giù di li) ha certamente ragione di dire che comunque Milosevic non era la stessa cosa dei Kucan, dei Tudjman, degli Izetbegovic. Il problema, però, non sta li. Sta nell'individuare come l'aspetto di resistenza vera all'imperialismo del proletariato locale potesse definirsi ed espandersi alla sola condizione di sciogliersi dall'abbraccio mortale col milosevicismo, sbaraccandolo e sostituendosi ad esso. Cammino certamente difficile, che noi non abbiamo mai preteso si desse in anticipo, quale precondizione, ed al di fuori o nell'indifferenza rispetto al terreno di scontro determinatosi con l'imperialismo, ma cammino doppiamente ineludibile: nessun blocco interclassista con Milosevic avrebbe mai potuto salvare né il "socialismo residuo" né la stessa indipendenza borghese della neo-micro-Jugoslavia. E lo si è visto.

Ultime mosse per farsi dare lo scacco matto

Fa persino pena ricordare come le recenti campagne elettorali di Milosevic (che, stando a qualcuno, avremmo dovuto appoggiare) si siano svolte nel segno della resa. E vero: il nostro ha avuto anche dei notevoli accenti lirici nel denunciare il ruolo di manutengoli dell'imperialismo del DOS, con quel Djindjc, in particolare, disertore messosi a servizio di madame Albright e soci, e nell'affermare che non si poteva scambiare il ritiro, delle sanzioni con la svendita del paese, perché la colonizzazione della Jugoslavia è la peggior forma, e permanente, di sanzione" (vedi il riquadro a lato). Ma allora? Quando mai si è delineata la logica conseguenza di tutto ciò? Quando mai si sono chiamate le masse lavoratrici ad una lotta politica e sociale contro il parassitismo dei profittatori borghesi svenduti al nemico? Ovvio: non si poteva farlo perché ciò avrebbe significato anche una lotta contro il sistema dei padroni "socialisti" del vapore, la sostituzione al potere di una classe ad un'altra. Il programma per l'ultima tornata elettorale non è stato da meno: "cooperazione con le altre forze di sinistra e quelle patriottiche" (Seselj!); "trasformazione generale dei rapporti di proprietà" col "pieno sviluppo dei concetto di mercato", garantito contro ogni "misura amministrativa"; una "giusta e conveniente privatizzazione", comprese buone dosi di "flessibilità" ("sin dall'inizio la SPS è stata per una libera competizione di mercato fra soggetti economici", purché ... paritari); armonizzazione col sistema fiscale e produttivo europeo; creazione di una "zona di libero commercio" nei Balcani; relazioni con gli altri stati sul piano della "completa eguaglianza" (quella sperimentata con le bombe!); richiamo al rispetto delle risoluzioni Onu sull’"integrità" della Jugoslavia da essa disintegrata; rispetto, su queste basi, dei "diritti ed interessi della Serbia e del Montenegro, conquistati in lunghi secoli di attività sulla scena internazionale" (!), "popoli" "creatori della Jugoslavia e membri fondatori della Lega delle Nazioni e dell'Onu" (!!). Tutta propaganda indiretta per Kostunica.

(Notiamo, en passant, che per andare oltre questa poltiglia non occorre neppur essere comunisti. Il buon Saddam, che non è sicuramente dei nostri, ha inteso alla perfezione che la causa nazional-borghese dell'Iraq richiama una lotta aperta contro l'imperialismo estesa a tutta un'area, quantomeno, di masse sfruttate "plurinazionali" e non a caso il suo messaggio infiamma, ad esempio, gli "estranei" palestinesi od egiziani. Altro che "irachismo"! E i risultati si vedono.)

E adesso che non c’è più Milosevic vorremmo chiedere ai cosiddetti "realisti": che si fa? Vogliamo finalmente imboccare questa strada, o ci dobbiamo "realisticamente" impegnare per il "male minore" perché tutto non vada perduto? In questo secondo caso, le strade sono multiformi: in attesa di un futuro rilancio elettorale (!) di Milosevic, ci si potrebbe, ad esempio, applicare a ',sfruttare le contraddizioni interne" al blocco DOS -che sono un fatto reale da non sottovalutare, a condizione che le si sappia sfruttare sul serio-, spingere certi paesi europei (visto anche che non esiste più uno spauracchio Milosevic) verso rapporti "più equi e solidali" con la Jugoslavia da essi co-distrutta, calcare sull'acceleratore degli antagonismi in seno all'imperialismo occidentale per tentare di staccare l'Europa (buona, o bonificabile) dagli USA... Tutto, escluso un richiamo all'indipendenza di classe, là e qui. In breve, il trionfo del programma della neo-destra "sociale" o persino "comunitarista" che, su queste basi, ha sempre impostato la sua coerente battaglia ed oggi la detta all'estrema sinistra"

La lotta decisiva del proletariato balcanico (e non solo) riprenderà necessariamente in altre direzioni, quali che sia no i primi vaneggiamenti e le prime esitazioni. Non riprenderà dal ripescaggio del mito consunto del titoismo né dal ripescaggio dei rottami del milosevicismo; riprenderà (in condizioni di esistenza peggiori che nel passato, ma anche su un più chiaro e risolutivo terreno di scontro) in direzione di un'autentica lotta comunista internazionale. Non è un'illusione ottica. Dicemmo una volta: Jugoslavia è il mondo, e già oggi noi vediamo che questa verità di fatto comincia a farsi strada in ogni angolo della terra. All'ordine del giorno oggi, per chiunque e dovunque si batta per un'esistenza da uomini, è la lotta ad un l'ordine" mondiale che prepotentemente richiama ad un contro-esercito mondiale di classe, all'internazionalismo comunista. Non permettiamo che questa voce venga soffocata da "solidarietà" 'con i generali dell"'ultima trincea" da "difendere"! Le nostre forze, per chi vuol vederle ed arruolarvisi, sono in grado di sferrare un attacco risolutore su tutto il campo!