[che fare 50]   [fine pagina] 

Dalla Cina, con furore

Il bombardamento dell’ambasciata cinese a Belgrado e il conseguente, "improvviso", deterioramento nei rapporti tra Cina e Stati Uniti ha colto di sorpresa molti. Non noi, per la verità. Affermiamo da anni che un tale deterioramento è inevitabile, e per ragioni che vanno al di là del rifiuto cinese di fiancheggiare, in un qualsiasi modo, la aggressione NATO ai popoli della Jugoslavia avvenuta con il pretesto del Kosovo. E ben al di là di una passeggera burrasca diplomatica.

La Cina è di nuovo entrata nel mirino dell’Occidente imperialista. A rigore, non vi è mai uscita dal 1840, l’anno in cui iniziò la prima gloriosa guerra dell’oppio made in Great Britain, culla e specchio della civiltà del capitale. Ma, sapete com’è, dopo avere perso sul terreno rovinosamente la guerra dei 109 anni, le potenze coloniali scornate hanno dovuto passare un po’ di tempo a leccarsi le ferite. La più scornata tra esse, l’Inghilterra, il cui primato mondiale nel secolo XIX non poco dovette alle rapine e alle violenze perpetrate ai danni del popolo cinese, addirittura non si è più ripresa dalla mazzata. Le sorti dei popoli d’Europa, scrisse allora Marx, molto dipendono da quel che avviene nel celeste impero. Infatti.

Ad uno stadio diverso dell’accumulazione capitalistica, ci risiamo. L’Occidente non può trovare uno sbocco all’impasse in cui è avvolto da un ventennio e passa, senza forzare di nuovo la "via della Cina". Poiché è lì che si concentra non solo la singola sezione nazionale più estesa del proletariato mondiale (la gallina dalle uova d’oro da spennare), ma vi si concentra anche la più estesa massa di contadini ancora da espropriare, e per giunta il capitalismo globalmente più dinamico ed efficiente di tutto il Terzo Mondo. All’imperialismo, la Cina fa ancor più gola oggi di sempre. Ma il problema è che oggi è ancor più difficile di sempre riuscire a papparsela.

Ad ottobre sono cinquant’anni da quando -1949- la Cina conquistò la indipendenza politica statuale. Che non è, certo, l’indipendenza economica dal mercato mondiale, impossibilissima specie per un paese che è arrivato così in ritardo ai moderni rapporti sociali borghesi. E che, però, è tutt’altro che insignificante come pre-condizione di uno sviluppo capitalistico "nazionale" un minimo equilibrato, specie se lo stato si chiama Cina e se la sua formazione è avvenuta, come è avvenuta, per entro un formidabile rivolgimento sociale. Da allora, la Cina "popolare" insegue, tra cento zigzag empirici e ideologici, il sogno di diventare un paese capitalistico "normale". Il che vuol dire, data la sua stazza e la sua antica civiltà (congelata per un certo tratto, ma non smarrita), una delle grandi potenze del sistema capitalistico mondiale. Finora, questa perigliosissima navigazione è stata coronata da successo, grazie innanzitutto all’uso e all’abuso della sua sterminata riserva di forza-lavoro viva (la cui storia di lotta è, peraltro, ricchissima, ché non si tratta affatto dei docili iloti che si vorrebbe che fossero, per "noi").

Siamo ora in prossimità di uno svolto della massima importanza: alla prima soglia del passaggio da uno sviluppo estensivo del capitale ad uno intensivo. Di ciò ci sono già delle discrete premesse in termini di mezzi tecnici disponibili, di scienza, di formazione del mercato interno, ed infine anche di capitali liquidi (di questi un po’ meno, invero, perché la Cina non ha potuto attingerli da sé direttamente anche "dall’esterno", come le vecchie e nuove potenze coloniali). Se la Cina riuscisse a garantirsi altri vent’anni di cammino su questa strada ed al ritmo medio degli ultimi anni, date le dimensioni della sua economia, l’attuale gerarchia imperialista verrebbe totalmente terremotata. Tanto più, poi, se in parallelo con quello della Cina dovesse, sia pur in modo alquanto più scombinato, progredire anche lo sviluppo dell’India e dell’Asia non nipponica. L’intero mercato mondiale andrebbe allora completamente fuori controllo del dollaro e dell’euro.

Ecco perché nelle capitali imperialiste, a cominciare da Washington, si è fatta prepotentemente strada la convinzione che bisogna fermare la Cina prima che si faccia troppo tardi. Fermarla, se è possibile, facendo andare per aria soltanto la Cina, a beneficio dell’insieme dell’Occidente (è la riedizione, non la meccanica ripetizione, dell’assalto coloniale iniziato nel 1840). La vicenda della Tien An Men nel 1989 fu appunto un momento, piuttosto ben organizzato, di questo tentativo, compiuto in una combinazione, non riuscita, con un interno movimento borghese di occidentalizzazione. Da allora, l’Occidente se la sta vedendo, in Cina e con la Cina, sempre più brutta. Poiché Pechino, mangiata la foglia, sta lentamente "arroccandosi", dando prova di una non comune capacità di governo delle proprie contraddizioni economico-sociali. Le spinte più sregolate al decentramento sembrano neutralizzate, ed il riaccentramento avviato. Lo stesso dicasi per il rapporto tra integrazione col mercato mondiale (che si è iniziato a "frenare") ed integrazione del mercato interno tra parti ancora molto disomogenee (che viene invece implementata). La difesa della moneta nazionale pare finora riuscita, con una politica delle riserve monetarie diametralmente opposta a quella "consigliata" dal FMI. Altrettanto dicasi, finora, della ristrutturazione dell’industria di stato, piuttosto graduata rispetto alle destabilizzanti ricette "argentine" (o "russe") degli FMI-boys, nonché del funzionamento delle borse, e così via.

Più questo governo delle contraddizioni sembra riuscire a Oriente (a breve s’intende, perché alla lunga esso è impraticabile), più cresce l’inquietudine a Occidente. Non da ultimo perché la tenuta della Cina incoraggia Russia e India, per non dire d’altro, a riorientare e ristrutturare anch’esse le proprie liaisons dangereuses col super-centralizzato capitale finanziario americano, europeo, giapponese. E dal momento che una simile prospettiva da incubo va schiacciata sul nascere, ecco che la super-potenza statunitense, -suo è l’onere, dati i tanti "onori"-, mettere in agenda un nuovo tremendo assalto imperialistico ad un’Asia ormai completamente, anche troppo!, risvegliasi dal suo torpore. E, naturalmente, è soprattutto la Cina che va marcata stretta, senza farle passare liscia nessuna azione "impropria" lesiva degli interessi del celeste impero di Wall Street.

La totale disapprovazione cinese dell’aggressione alla Jugoslavia ha "meritato" un avvertimento yankee in perfetto stile mafioso. I sapientoni di certa sinistra (la cui sapienza non è che bottegaio, e miope, "buonsenso") scommettono che Pechino stia facendo la finta, e punti in realtà al sodo del WTO (l’Organizzazione mondiale per il commercio dominata dagli Stati Uniti). Ignorano, costoro, che la posta in gioco si sta alzando giorno dopo giorno perché c’è in campo un’altra forza, da loro data insipientemente per "scomparsa": il proletariato cinese ed asiatico, che sta arrivando anch’esso a un punto di svolta nel suo rapporto con i poteri locali e, in contemporanea, col potere delle centrali imperialiste. Due scontri, tutt’altro che finti, in uno. Non è un caso se accanto a giovanotti pechinesi non esattamente proletari, non più inneggiamenti alla statua della libertà, si siano visti più maturi estimatori proletari di Mao critici nei confronti della debolezza verso l’Occidente degli attuali governanti, uniti tra loro (momentaneamente) dal grido, quanto altro mai apprezzabile: "bombardare la Casa Bianca!" (International Herald Tribune, 10 maggio). E che la loro energia anti-imperialista abbia, non solo idealmente, compiuto in un baleno le diecimila e più leghe sbucando per le vie centrali di Belgrado accolta con calore dai suoi calorosi abitanti. Com’è vicina la Cina! È in Europa, è in Occidente, non meno -finalmente- di quanto Europa e Occidente siano in Cina. E davvero quel che accade in Cina incide più che mai su quello che accade in Europa e in Occidente.

La rotta di collisione non è solo tra l’Occidente imperialista e la riottosa Jugoslavia; è anche tra l’Occidente imperialista e la Cina e l’Asia capitaliste (ma non imperialiste). E dentro questa rotta di collisione, che già da sola dà la misura tangibile dell’avvicinarsi dei più sconvolgenti cataclismi della storia del capitalismo, matura un’altra guerra, la nostra guerra: la guerra di classe tra il proletariato cinese ed asiatico, tra il proletariato mondiale ed il sistema del capitalismo imperialista nel suo insieme con centro a Washington e articolazioni periferiche ovunque. Le bombe sull’ambasciata cinese a Belgrado, ben più che i mandarini del capitale di Pechino, avevano per loro target i proletari, gli sfruttati della Cina. Così come il diluvio di bombe sulla Jugoslavia, ben più che il "dittatore" Milosevic aveva per bersaglio destinato il proletariato jugoslavo. Lo stesso dicasi per l’annosa campagna che presto si farà molto virulenta, sulla presunta oppressione cinese in Tibet (già opportunamente definito "il Kosovo cinese"), e consimili pretesti buoni per aggredire di nuovo la Cina. Prepariamoci a combattere contro queste aggressioni, fianco a fianco delle masse oppresse e super-sfruttate della Cina e dell’Asia. Non per preservare il loro "diritto" ad uno equo sviluppo capitalistico nazionale indipendente, bensì per affermare la loro e la nostra necessità di farla finita con quello "sviluppo capitalistico" che è divenuto ormai sinomino di regresso umano, per aprirci la via ad un vero sviluppo umano universale all’insegna del comunismo vero. Sì, è venuto il tempo di bombardare l’infame Casa Bianca, e con essa tutte le sue dependances borghesi, messe in fila nel loro giusto ordine di potenza, da Roma fino, certo, anche a Pechino.

Da dove, se non dalla grande Cina, poteva arrivare un simile annuncio?

[che fare 50]  [inizio pagina]