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L’altra faccia del Nord-Est

Lettere dal futuro

Indice

 

Jolly, n°1

Cari compagni,

sono un infermiere professionale, e da circa due anni lavoro in cooperative di servizi.
Da tempo volevo scrivervi per denunciare le condizioni di lavoro a cui siamo sottoposti, ma il tempo è tiranno.
Prima ho lavorato alla "Codess Servizi", una cooperativa che fornisce personale di diverse qualifiche ai vari enti, pubblici o privati, che ne fanno richiesta: guardia sale ai musei veneziani, addetti all’assistenza alle case di riposo. Avendo vinto una gara d’appalto del Comune di Venezia, ha fornito per alcuni anni il personale per il servizio di assistenza domiciliar agli anziani e ai disabili. In questo settore è iniziata la mia esperienza con le cooperative. Qui ho conosciuto altri colleghi con il mio stesso titolo professionale (VI livello), ma, come me, assunti come operatori. A noi infermieri toccavano i casi più difficili e delicati, ma come "operatori sociali" (II livello) percepivamo una paga mensile di circa 918.000 lire nette a fronte di ben 118 ore e mezza, cioè 7.750 lire l’ora.

La flessibilità era la più spinta possibile. Chi viveva a Spinea (mezz’ora d’autobus da Venezia) spesso iniziava il servizio ai Giardini o al Lido (due ore di percorso circa) e il più delle volte il servizio successivo era dalla parte opposta di Venezia, anche a distanza di alcune ore.

I "buchi" non venivano riconosciuti come tempo lavorativo, al meglio si poteva telefonare in ufficio e mettersi a disposizione. L’orario settimanale assegnato non era mai rispettato a causa delle continue modifiche; tanto che venivamo definiti dal capo del personale "jolly". Alla fine del giorno, pur essendo rimasti fuori da casa 10-12 ore, le ore riconosciuteci erano solo 5, al massimo 7! Di tutte le malefatte inflitte ai dipendenti (questa azienda allora "occupava" circa 900 soci dipendenti), la stampa locale una sola volta ha fatto affiorare, velatamente, il livello di ricattabilità e di precarietà a cui eravamo sottoposti. La "Codess Servizi" aveva licenziato, infatti, un suo dipendente disabile motivandolo con il suo basso rendimento, guarda caso nel periodo in cui subentrò la nuova agenzia che ci assunse tutti come dipendenti, grazie alla mobilitazione e alla compattezza che riuscimmo ad esprimere.

Il periodo in cui rimasi nella nuova cooperativa fu breve poiché fui chiamato presso l’USL Veneziana per un periodo di sei mesi come infermiere professionale. Sempre precario!, ma almeno percepivo uno stipendio che mi permetteva di pagare l’affitto mensile e di vivere.
I problemi più grossi si sono presentati alla fine di questo periodo quando sono stato costretto a ritornare a lavorare con le cooperative.
Dopo vari tentativi sono stato assunto dalla "Veneto assistenza". Questa fornisce personale infermieristico a molte case di cura di alcune provincie venete.

Sono stato assunto in agosto ’97 e ho iniziato a fare i turni, notte compresa. Il primo stipendio arrivò con tre mesi di ritardo. Notti e festività erano pagati come i giorni feriali, 8.500 lire all’ora. Nonostante inizialmente mi avessero garantito il rimborso per il viaggio Mestre-Padova, questo non è mai avvenuto. Dopo soli tre mesi, a causa delle condizioni di lavoro insostenibili, mi sono licenziato. Tuttora non ho ancora percepito gli assegni familiari.

Non ho ancora trovato un posto fisso e mi rendo conto che moltissimi giovani oggi vivono come me una situazione di massima precarietà e flessibilità. Proprio perché sono consapevole che la mia condizione è comune a molti, ho voluto scrivere questa lettera al Che fare affinché anche altri possano essere stimolati ad utilizzare il giornale come tribuna da cui poter far sentire la propria voce e a reagire contro questo "uso" selvaggio dei lavoratori.

Andrea

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Jolly, n°2

Sono un lavoratore di Marghera,

scrivo questa lettera per descrivervi la situazione dei lavoratori in questa zona; in particolare di chi lavora nelle sempre più numerose cooperative.
La mia esperienza con le cooperative è iniziata a 15 anni e vi ho lavorato fino a quattro mesi fa (ora ho 24 anni).
Tutto iniziò con un classico colloquio di lavoro durante il quale mi vennero impartite istruzioni sul comportamento e il modo di presentarsi al datore di lavoro. Mi fu chiarito da subito che per avere uno stipendio decente era necessario accettare tutte le condizioni e ambienti di lavoro. Negli anni seguenti ho sperimentato di cosa si trattava.

Ho girato per molte fabbriche e ho dovuto svolgere tutte le mansioni che mi venivano richieste: dall’utilizzo di macchinari, mobili e non, a compiti di responsabilità nell’organizzazione del lavoro, alla manutenzione ordinaria e straordinaria. Quando utilizzavo i macchinari, raramente mi veniva data una spiegazione "decente" del loro funzionamento.

Tra i tanti possibili, vi faccio solo due esempi della mia esperienza, ma emblematici del modo in cui viene organizzato il lavoro nelle cooperative.

Per circa un anno ho lavorato presso la "Plurionda" di Zerobranco (TV), una fabbrica di imballaggio. Si lavorava per 8, 9 ore al giorno, più 5 ore al sabato. Per alzare i ritmi, venivano rimosse o manomesse le protezioni ai macchinari, vecchi e malfunzionanti. La dotazione antinfortunistica era a spese del lavoratore. Gli infortuni erano numerosi, circa uno a settimana, spesso gravi. Io stesso mi sono infortunato e ne ho informato la cooperativa, questa si è scaricata d’ogni responsabilità dicendo che nessun lavoratore della cooperativa è autorizzato a utilizzare i macchinari.

Era quasi impossibile parlare con gli altri lavoratori della coop., sia perché c’era un continuo turn-over di personale in fabbrica, sia perché la cooperativa non consultava mai insieme tutti i suoi dipendenti.
Terminato il lavoro in questa fabbrica, sono stato spostato alla "Decorconf", piccola impresa che aveva in gestione il confezionamento e le spedizioni della Tognana (fabbrica di ceramica). E’ il sempre più diffuso sistema degli appalti, in questo modo la Tognana obbliga la piccola impresa a rimanere in un ambito di spesa prevista, risparmiando così sui costi di produzione.

Qui il ritmo del lavoro era serratissimo e impediva qualsiasi pausa. I dipendenti della Decorconf erano una decina, quasi tutte donne, alle quali spesso veniva richiesto di effettuare straordinari senza nessun preavviso e con una retribuzione inferiore alla paga oraria normale.
C’erano poi i dipendenti diretti della Tognana e i lavoratori delle cooperative. Noi eravamo in numero soverchiante rispetto ai dipendenti ed eravamo impiegati in tutte le attività: rifornimento, stoccaggio, imballaggio e spedizione. Svolgevamo tutti la stessa attività, ma la retribuzione oraria era diversa.

Adesso lavoro come meccanico a Marghera e posso dire che in 9 anni di lavoro ho fatto veramente di tutto. La flessibilità viene spesso presentata, anche dalla "sinistra", come qualcosa di positivo, il "futuro" mondo del lavoro. Io posso solo dire che ho conosciuto molti giovani che lavorano nelle cooperative e nessuno è soddisfatto del proprio lavoro, anzi è diffuso un sentimento di frustrazione e di incertezza. Ma c’è anche tanta rabbia e io vi scrivo soprattutto affinché altri lettori, come me, del Che fare siano stimolati a esprimere questa rabbia e a dire NO alla flessibilità e alla precarietà.
Non possiamo accettare questo "futuro", dobbiamo PRETENDERE una vita migliore. Far valere le nostre sacrosante ragioni non è impossibile, e quanto ciò sia vero ce lo hanno dimostrato i dipendenti della UPS degli Stati Uniti. Sta a noi raccogliere l’esempio.

Giovannino

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Lavoratore interinale

Cari compagni,

nei giornali di questi giorni c’è la notizia che stanno per entrare in funzione le prime agenzie di lavoro interinale. Se ne parla come modello del "futuro" mondo del lavoro. Le aziende vi potranno attingere manodopera secondo le proprie necessità, stabilendone orari e mansioni. Il tutto viene definito vantaggioso, sia per le aziende che per i lavoratori. Le prime potranno risovere i problemi inerenti il personale (eccedenze, momentanei sottorganici, assenze per malattie, assenteismo, massima flessibilità dell’orario), i secondi non saranno più legati a un posto di lavoro fisso, ma avranno il "privilegio" di cambiare spesso e, magari, quando non ne hanno voglia, potranno anche stare a casa senza perdere il lavoro.

Io sono un operaio metalmeccanico assunto a tempo indeterminato dopo due contratti a termine, il 1° di 4 mesi, il 2° di 8. Questo periodo di precarietà l’ho vissuto con il timore di non poter ottenere il posto fisso.
Volevo farvi conoscere la mia esperienza sul lavoro interinale o quello che sinora era svolto dalle Cooperative di servizi. In tre anni, sono stato socio dipendente di tre di queste, 2 presso il magazzino di distribuzione merci della Domenichelli. Ho lavorato nei 4 turni escluso il giornaliero; questi gli orari: 6-13, 14-22.30, 19-4, 21-6. Il 2° turno di norma staccava alle 23.30, il 3° e 4° spesso si prolungavano di un’ora e a cavallo di Natale anche di 2, il tempo libero era praticamente inesistente o non sfruttabile. Se i dipendenti fissi erano in sciopero, noi della cooperativa si lavorava! Al magazzino della Traco lavoravo dalle 4 alle 10 del mattino!

Ho poi lavorato al deposito distribuzione della Billa per il Veneto, l’orario era "normale", ovvero i due turni giornalieri, 6-13 e 13-21, con 5 ore il sabato mattina. Qui addirittura pretendevano un cottimo (ovvero in un tot di tempo dovevi completare una distinta di carico a prescindere dagli articoli!), ma la paga oraria era sempre la stessa, in pratica si doveva correre solo per dimostrare di essere più bravi e veloci degli altri, innescando un infame processo di gelosie e rivalità tra lavoratori fissi e della cooperativa e tra gli stessi della cooperativa. I fissi percepivano dei premi legati alla produttività. La dotazione antinfortunistica mi fu messa in conto sulla busta paga, così come la divisa. Per entrambe le cooperative veniva versata una quota mensile come socio o socio-dipendente, la quale veniva restituita al momento delle dimissioni.

Una terza cooperativa dove ho prestato servizio avrebbe dovuto distribuire gli utili a fine anno, ma ogni volta aumentava la quota sociale, così gli utili non venivano distribuiti ai soci ma andavano ad aumentare il capitale sociale in una spirale senza fine. In seguito seppi da alcuni compagni di lavoro che questa coop. fallì e poi si ricostituì; a distanza di 5 anni moltissimi soci dimissionari ancora non hanno visto una lira! In questa cooperativa (Saturno) dovevi passare in ufficio la sera dopo il turno giornaliero, aspettavi anche un’ora e poi erano capaci di mandarti per altre 2 o 3 ore alla Gondrand, da Castelletti o Piccin a fare altri carichi. Alla fine del mese potevi trovarti dalle 230 alle 260 ore di lavoro, naturalmente non pagate come straordinario!

Per tutte valevano queste regole: ferie non pagate e date in base alle necessità delle aziende dove si lavorava e del piano ferie dei dipendenti fissi, il giorno di malattia era pagato 10.000 lire, la tredicesima non esisteva. La gran parte delle cooperative prestava servizio presso i magazzini merci delle aziende di trasporto, o facchinaggio in genere, le prime ad aver superato il problema del lavoro, dandolo spesso in completo appalto. Sovente si lavorava nelle fabbriche, in catena di montaggio, anche se le normative lo vietavano. L’elemento che accomunava tutte le aziende che richiedevano prestazioni di servizio era la massima flessibilità sull’orario di lavoro, in pratica quando gli serviva personale lo richiedevano e lo lasciavano a casa appena gli veniva meno la necessità.

So di molti lavoratori che hanno fatto turni assurdi, forse difficili anche da immaginare, tipo dalle 4 alle 10 e dalle 18 alle 24.
Questo sarebbe il futuro "mondo del lavoro" che si prospetta per i giovani -e non solo-, indissolubilmente legato alle spietate leggi del mercato. Il giusto termine sarebbe "generalizzazione della precarietà e della flessibilità", annullando completamente la vita del lavoratore, il quale si troverebbe totalmente subordinato alle necessità delle aziende, aumentandone il senso di precarietà e di insicurezza più di quanto già non lo sia ora.

Paolo

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Lettera dalla Zanussi sul "modello partecipativo"

Nel mese di giugno ’97 la Zanussi, una azienda in cui si sperimentano le nuove forme di relazioni sindacali, definite "partecipative", sferra un attacco, sia fisico che culturale, al già debole sindacato del nord-est. Una compagna, Antonella Susana, delegata storica e membro del comitato centrale della FIOM, viene licenziata; a suo carico il fatto di aver rimosso un comunicato aziendale che aumentava i carichi di lavoro e di averlo posto sul tavolo del caporeparto per chiederne informazioni: per questo, secondo Zanussi, esiste la giusta causa di licenziamento in quanto "si interferisce con arroganza e disprezzo delle aspirazioni aziendali nella gestione interna dello stabilimento".

La FIOM non concede il nullaosta e Antonella, non solo rientra nel reparto, anzi viene eletta con molte preferenze al recente rinnovo delle Rsu (settembre).

Fin qui la vicenda. Tralasciando alcuni fatti "disdicevoli" (allo sciopero dello stabilimento di Mel non partecipano le Rsu-Uilm) è corretto fare alcune considerazioni sul sistema di relazioni partecipative e sul contenuto di classe che manca ad una buona parte del sindacato confederale.

Innanzitutto è necessario specificare che il licenziamento di Antonella giunge nel mezzo delle trattative per scrivere i nuovi modelli "partecipativi" di relazioni sindacali. È per imporre la voce del più forte che la Zanussi, di volta in volta, licenzia qualcuno dei suoi operai: è capitato durante la trattativa che ha introdotto il turno di notte per cinque lavoratori e lavoratrici che avevano superato il limite massimo di malattia: succede di nuovo ora con il licenziamento di una delegata.

A questo sistema di ricatti come reagisce il sindacato? A livello locale con due ore di sciopero mentre a livello nazionale la paura di interrompere la trattativa in corso consiglia solamente l’apertura di una vertenza per il reintegro in fabbrica di Susana. Quest’ultima posizione, ossequiosa di una unità sindacale con Cisl e Uil, mai così moderate, non è condivisa da Alternativa Sindacale che promuove una sua manifestazione. Importante non era solo solidarizzare con Antonella, ma riportare all’esterno della fabbrica il bisogno di uno scontro di classe che le attuali condizioni di lavoro nel nord-est, ed in Zanussi in particolare, rendono necessario e non più, se mai lo può essere stato, contenuto nei soli luoghi di lavoro.

La sconfitta subita nell’introduzione dei turni di notte proprio a Mel, in cui un ruolo fondamentale venne esercitato da opinione pubblica, curia, comunità montana, sindaci e benpensanti, i quali definirono gli operai che si ribellavano come "incoscienti, sfaticati ed egoisti", derivava proprio dal non essere riusciti a rendere partecipe tutto il territorio di una battaglia per una migliore vivibilità del lavoro, della fabbrica e quindi della vita sociale intera. Quest’esperienza non è dunque servita e la dissociazione dai contenuti e dalla partecipazione alla manifestazione per Antonella da parte di Fiom e Cgil venete dimostra come il sindacato sia molto distante dal conoscere realmente i bisogni e le aspettative reali dei lavoratori: la ricostruzione del sindacato di classe non può partire da trattative che in sostanza sanciscono solo la sopravvivenza della sua forma burocratica e di autoreferenzialità, ma attraverso la rinascita del protagonismo dei lavoratori nelle scelte di tutta la società, partendo dalla fabbrica ma non rimanendone isolati.

Alcuni lavoratori della Zanussi

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