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Contro la crociata
anti-araba e anti-islamica

Contro l’embargo ONU all’Iraq!

Indice

Per qualche giorno, la crisi irachena dell’autunno ha rotto il silenzio calato sul lento genocidio che l’embargo dell’ONU sta compiendo da sette anni in Iraq. Le stesse agenzie dell’ONU tipo UNICEF, FAO sono arrivate ad ammettere che le conseguenze alimentari, sanitarie ed economiche dell’embargo hanno ucciso ottocentomila iracheni e condannato alla malnutrizione il 27,5% dei bambini.

Qui in Occidente, c’è stato chi ha detto: "Qualunque cosa si pensi del governo iracheno, va riconosciuto che è giunto il momento di revocare l’embargo. Perché l’Iraq ha ottemperato agli obblighi impostigli con la 687. Perché con esso ci si accanisce gratuitamente contro una popolazione innocente".

Il mantenimento di esso non è in realtà un atto di ferocia gratuita: corrisponde all’applicazione di un calcolo delle potenze capitalistiche ben soppesato. Qual è questo calcolo? Chi ne paga le conseguenze? Come opporsi ad esso? Ecco gli interrogativi su cui intendiamo richiamare l’attenzione e a cui cerchiamo di fornire alcuni elementi di risposta. È necessario, a tal fine, lasciare per un momento la "cronaca spicciola" e tornare brevemente agli antefatti (immediati) della situazione attuale. E cioè, alla guerra del Golfo.

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A cosa è realmente servito il "Massacro nel Deserto".

"Ci rendiamo conto di uccidere tanti innocenti, ma è un male necessario per liberarli dalla minaccia del dittatore Saddam, e per preparare il terreno al nuovo ordine, più giusto e benefico per tutti, che intendiamo stabilire in Medio Oriente". Fu con queste parole flautate che nel 1990 i governanti occidentali giustificarono davanti al mondo lo scatenamento del bombardamento sull’Iraq. Il paradiso che essi, dopo di ciò, hanno fatto fiorire è sotto gli occhi di tutti.

Il primo fiore lo hanno fatto spuntare in Algeria, dove nel 1992 l’integralismo... della finanza internazionale ha deliziato gli sfruttati col dono della dittatura militare. Poi è toccato alla Palestina, dove gli accordi di Oslo ("pace in cambio dei territori") hanno spianato la strada -come dovevano- all’incrudimento della guerra contro i palestinesi e all’accelerazione dell’espropriazione delle loro terre da parte di Israele. Quindi è sbocciata la Turchia, dove nel luglio scorso la democrazia retta dai generali e dalla NATO ha spazzato via il governo di coalizione comprendente la formazione islamica del Refah, perché troppo ostile all’Israele di Netanyahu e troppo arrendevole verso la popolazione e le organizzazioni curde. La mano fatata dei signori della Terra è stata così generosa che non ha risparmiato nessuna zona dell’area, tant’è che oggi si ritrova sospinta verso il basso e costretta a scioperare contro le cure imposte dalla finanza internazionale persino la parte sfruttata della popolazione ebrea d’Israele. (Ne parliamo nella pagina accanto.)

Davvero un ordine più giusto e benefico per tutti! Che dovrebbe rivelare, a chi non se ne fosse ancora accorto, lo scopo fondamentale del "Massacro nel Deserto": la repressione della ribellione antimperialista delle masse arabo-islamiche. L’invasione del Kuwait aveva, infatti, catalizzato la loro mobilitazione e l’aveva estesa oltre i confini dell’Iran e della Palestina in cui essa s’era accesa in precedenza. La punizione esemplare del popolo iracheno fu lo strumento con cui l’Occidente cercò di terrorizzare gli sfruttati dell’area, in modo da poter tornare a rapinarla a proprio piacimento.

Quando, nel 71 a.C., l’esercito di Roma riuscì a reprimere la grande rivolta guidata da Spartaco, 6.000 schiavi furono lasciati crocifissi ai lati della via Appia a monito dei superstiti. Gli schiavisti del Duemila non sono stati da meno. Distrutto l’Iraq con la bazzecola di un milione e trecentomila tonnellate di ordigni, essi ne hanno sezionato il territorio in tre parti, lo hanno inchiodato sulla croce della fame e dell’isolamento, lo hanno mantenuto sotto il mirino di un’armata imponente, lo hanno lasciato sofferente in questa condizione davanti agli occhi dell’intero mondo arabo-islamico. Affinché alle masse lavoratrici e povere della regione giungesse il monito seguente:

"Guardate cosa vi aspetta se non accetterete l’ordine più giusto e benefico che stiamo instaurando nei vostri paesi! Guardate cosa vi succederà se vi azzarderete a usare il petrolio a condizioni diverse da quelle stabilite da noi, cioè dalle esigenze di profitto delle imprese occidentali; se provate a ribellarvi al nostro dominio, quello che il linguaggio giuridico chiama legalità internazionale."

Ecco perché il mantenimento dell’embargo non è un atto di ferocia gratuita. Ecco perché, a novembre, l’ONU ha fatto scattare nuove sanzioni contro l’Iraq, quando Saddam, nell’entusiasmo popolare, s’è azzardato a sollecitare, con il blocco delle ispezioni dell’UNSCOM, l’allentamento o la revoca dell’embargo.

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"Bello o brutto che sia, non può essere violato"

Le masse lavoratrici dell’area non hanno visto nel gesto di Saddam una "provocazione", come purtroppo è invece accaduto tra i proletari europei. Esse lo hanno giustamente accolto con un "evviva", proprio perché hanno imparato che l’embargo contro l’Iraq è il simbolo della sorte riservata loro dall’Occidente e dal suo capobanda yankee. Stanti così le cose, le potenze capitalistiche potevano lasciar correre?

Non che non fossero emersi contrasti tra Usa, CEE e Russia su come dividersi la torta del petrolio mediorientale (e dell’Asia centrale) e su come usare a tal fine anche la pedina Saddam. Ma la politica di ognuno di essi presuppone comunque la salvaguardia della sottomissione dei paesi e degli sfruttati della regione al dominio dell’imperialismo. Una cosa con cui il gesto di Saddam non ha rimato affatto. E quindi: punizione!

"Le sanzioni potremo anche allentarvele, ma quando lo vorremo noi -hanno mandato a dire a Saddam i veri dittatori del mondo. Lo faremo, e te ne abbiamo dato un assaggio con la risoluzione oil for... nothing, quando avremo bisogno di pompare più petrolio sul mercato mondiale per deprimerne i prezzi o quando vorremo accollarvi le ulteriori spese richieste dalla macchina bellica con cui dominiamo il vostro territorio. Potremo essere anche più generosi, e arrivare anche a revocarle le sanzioni, se, richiedendotelo, ti farai usare come ascaro nella nostra crociata contro il mondo arabo-islamico e contro l’Oriente. Ma mai e poi mai, accetteremo di fare l’una o l’altra cosa sotto una tua (benché finta) minaccia. Sarebbe come invitare all’insubordinazione l’intero mondo dei proletari e dei diseredati della regione, contro di noi ma anche contro di te. E quindi: che tu sia colpito con nuove sanzioni!".

Con la propria "opinione pubblica", per dire la stessa cosa, le potenze occidentali hanno usato un linguaggio più accorto. Hanno mandato ai mezzi d’informazione un comunicato nel quale è scritto: "Bello o brutto che sia, l’ordine internazionale non può essere violato impunemente". E cioè: pur se lascia nella fame e nel supersfruttamento masse sterminate di uomini; pur se continua a privare due popoli, quello palestinese e quello curdo, di un loro stato; pur se permette che si compiano nefandezze di ogni genere, non possiamo farci niente, perché questo è quello che richiedono le leggi del profitto. Da parte nostra, noi comunisti internazionalisti preferiamo il parlare chiaro di questi banditi, ai lamenti delle anime belle che vorrebbero mantenere le leggi di mercato senza le inevitabili conseguenze che esse comportano nel Medio Oriente o che vorrebbero superare queste leggi con le prediche e gli appelli agli "uomini di buona volontà" invece che coll’unico mezzo possibile: la violenza rivoluzionaria degli oppressi contro la violenza contro-rivoluzionaria degli sfruttatori.

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Verso nuove devastazioni in Medio Oriente. E nuove dosi di reazione politica in Occidente.

Anno dopo anno, il pugno di ferro dell’Occidente è riuscito a riportare la vittoria. Non che le masse lavoratrici dell’area si siano ricredute sugli effetti della sua politica. Si sono invece ancor più convinte -a ragione- che esso è il nemico secolare da abbattere. E la lezione è stata appresa anche laddove, come nelle monarchie della penisola arabica, nel 1990 si brindò all’arrivo dei soldati a stelle e strisce. La stessa presa di posizione della Lega Araba contro l’ultima risoluzione dell’ONU sull’Iraq, è in parte il riflesso dell’umore nientaffatto rassicurante per l’Occidente che serpeggia tra le masse lavoratrici dell’Egitto, della Siria e dell’Arabia Saudita.

Il fossato d’odio con l’Occidente si è quindi approfondito. Nello stesso tempo, però, la lotta antimperialista è stata ricacciata indietro e disorientata, come indicano emblematicamente i casi dell’Algeria e della Palestina. Sta pesando su di essa il fallimento storico della direzione panarabista e l’impotenza dell’alternativa nel frattempo fattasi avanti (l’islamismo radicale). Ma ha pesato e sta pesando su di essa soprattutto la nullità politica del proletariato dei "paesi ricchi", la sua indifferenza al dramma e al grido di protesta delle masse lavoratrici mediorientali, la sua strisciante (ignobile) ostilità verso gli immigrati.

Mai l’Occidente aveva goduto di una così favorevole congiuntura politica. Eppure, neanche questo gli è sufficiente. Potrà continuare a dettare legge solo al prezzo di nuovi massacri e nuove devastazioni. Non importa se non li metterà in atto in prima persona e lascerà il ruolo di macellai a Israele e/o alla Turchia, come lasciano intravvedere da ultimo le manovre militari congiunte svolte da questi ultimi (con "ostili" intenzioni, neanche troppo velate, verso la Siria-Libano). Non importa neanche se questi ultimi partiranno lancia in resta calcolando i tempi dell’azione sulle proprie necessità e non su quelle delle centrali occidentali: sono le relazioni economiche e diplomatiche internazionali, il cui centro di comando è qui in Occidente, che li stanno oggettivamente spingendo a usare le armi (anche nucleari) contro i paesi e le popolazioni arabo-islamiche. (Per quanto riguarda Israele ne accenniamo nell’apposito riquadro.) Nell’uno come nell’altro caso, il dominio imperialista nell’area richiede la generalizzazione del "modello-Iraq". Lo mostra anche quanto è maturato attraverso la stessa crisi irachena dell’autunno scorso.

Primo. Da un punto di vista sociale e politico, essa ha indebolito i puntelli locali del dominio occidentale, tanto è vero che scricchiolano i rapporti con i fidi alleati di ieri, Egitto, Siria e Arabia Saudita, come è risultato dalla mancata partecipazione di essi al vertice economico organizzato in novembre da Israele e dagli Usa in Qatar.

Secondo. Gli USA sono riusciti a far rimettere all’Iraq la coda tra le gambe, ma a costo di dover accettare il ritorno dell’orso russo. Ce ne rallegriamo, non perché esso possa rappresentare un argine all’imperialismo. Ma solo perché, oggettivamente, indebolisce il primo polo della controrivoluzione mondiale, va ad esacerbare i contrasti imperialisti e potrebbe, quindi, avvicinare il momento in cui le popolazioni sfruttate e povere del Medio Oriente troveranno la forza per superare l’attuale depressione politica, per costituire una direzione antimperialista realmente rivoluzionaria, e per unirsi, sull’onda di ciò, contro i loro nemici interni ed esterni (Russia compresa).

La vittoria riportata dall’Occidente ha, dunque, reso più instabile l’ordine in Medio Oriente e avvicinato il momento in cui sarà costretto a sferrare (direttamente o indirettamente) un nuovo attacco anti-arabo e anti-islamico. Giustamente Le Monde Diplomatique di dicembre titola: "Venti di guerra sul Medio Oriente".

Non è un caso che il nuovo attacco all’Iraq sia stato accompagnato, nei paesi occidentali, dalla recrudescenza della campagna sciovinista e razzista anti-araba e anti-islamica. Essa mira a conquistare quel consenso proletario senza il quale i paesi imperialisti non sono in grado di portare più a fondo la loro crociata.

Che cosa i lavoratori dei "paesi ricchi" ricaveranno dall’adesione a una prospettiva del genere, lo si può prevedere anche solo riflettendo su quello che è loro toccato in sorte in questi ultimi sette anni. Non gli dissero, i rispettivi governi, che la guerra del Golfo sarebbe servita a difendere anche il loro benessere? Cosa è invece successo dopo la carneficina di allora? Le loro condizioni di esistenza e la loro forza politica sono paurosamente arretrate, come mai era accaduto dalla seconda guerra mondiale. A conferma del fatto -già mostrato tante volte dalla storia- che l’esportazione dell’ordine imperialista nelle periferie del mondo è tutt’uno con l’imposizione di una catena più stretta e pesante intorno al collo dei proletari delle metropoli. La sorte di questi ultimi, piaccia o meno poco importa, è legata a filo doppio a quella delle masse arabo-islamiche. O si avanza insieme contro chi opprime -pur se in modo diverso- gli uni e le altre. O insieme si verrà soggiogati.

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