Il secondo congresso del PRC doveva essere, stando alle promesse, quello della ridefinizione teorico-programmatica e politica di un "progetto comunista". E' stato, invece, un congresso pre e pro-elettorale, tutto giocato in chiave parlamentaristica.
Sin dalla nascita, il PRC ha apertamente dichiarato quel che era e voleva essere: una slavata ripresa del togliattismo e addirittura del berlinguerismo classici (democrazia progressiva e relativi compromessi interclassisti) con la rivendicazione dei "diritti" operai all'interno della società capitalistica, che ci si propone di "riformare", giammai di sovvertire.
Il "comunismo" del PRC stava, sin dagli esordi, tutto qui, nella difesa degli interessi e del "punto di vista" dei proletari in quanto classe del capitale. Una posizione, per dirla con Marx, da filantropismo piccolo-borghese degno di appellarsi al mazzinianesimo, non certo al comunismo.
Data, però, l'acutezza dello scontro di classe in atto, era logico che dietro le bandiere del PRC si raccogliessero in autodifesa alcuni dei reparti più combattivi dell'esercito (disarmato) del proletariato, in quanto, di fronte alla conversione liberal-democratica del PDS, questo partito rimaneva l'unico a tener alta in modo visibile questa bandiera minimale.
Non abbiamo mai sputato su questo "minimo"ritenendo che esso, a determinate condizioni, poteva e può rappresentare un efficace punto di ripartenza in direzione del comunismo autentico e delle sue integrali rivendicazioni di rivoluzione, dittatura proletaria, riorganizzazione sociale della società sulle ceneri dello spezzato dominio capitalista.
Primaria tra queste condizioni è l'esistenza di un indirizzo politico in grado di dirigere questo movimento di resistenza di classe, poiché anche il più alto dei movimenti non può surrogare questa funzione vitale di partito (a cui è pur indispensabile e con cui entra in feconda dialettica). Orbene, nulla di simile ci si poteva attendere dal PRC date le sue solide tradizioni riformistoidi, sottostaliniane e persino sottoturatiane. Né un'inversione di tendenza poteva venire dall'ingresso di tradizioni sessantottine e "trotzkiste" che nel PRC hanno travasato i cascami più smaccatamente piccolo-borghesi di quelle esperienze, senza neppure quel tanto di ribellismo autentico che, in passato, s'era potuto alimentare delle fiamme di lotte sociali e politiche vere.
Il 2° congresso ha disegnato un'ulteriore curva catastrofica in questo percorso che dalle origini togliattiane precipita verso il più slavato "progressismo" in veste "operaia".
In assenza del lievito di poderose lotte proletarie le imminenti "decisive" elezioni hanno, per forza di cose, catalizzato l'interesse del congresso, mettendo a nudo l'intrinseca fragilità del progetto originario del PRC.
Delle abborracciatissime tesi e contro-tesi non s'è neppur discusso. Teoria? Programmi? Inutili orpelli, data l'urgenza della contesa elettorale (da cui tutto viene fatto dipendere). All'ordine del giorno, dunque, la formazione di un cartello elettorale al quale non si chiede nemmeno di fondarsi su un accordo programmatico (impossibile), bastando ad esso il compito di costituire "intanto" un argine all'avanzante svolta a destra.
L'opposizione interna ha potuto a ragione obiettare che non ha senso un accordo di tal genere che sfugga pregiudizialmente alle questioni di fondo, del con chi e come si costruisce un progetto alternativo. Ma non diremmo proprio che, in proposito, sia venuta anche da qui chiarezza.
Il documento Salvato-Vinci dà per scontato che già si sia raggiunta un'"alleanza politico-programmatica delle forze di sinistra e progressiste" e che essa costituisca la base per una più profonda e completa unità. Ma il senso di quest'alleanza si riduce a ben vedere al puro frontismo anti-destra e al "comune" impegno a combattere contro lo "stravolgimento della democrazia e delle sue regole istituzionali". Ammesso (e non concesso) che su queste basi si riesca a impedire la vittoria elettorale alla destra, che ci mettiamo nel piatto del governo? Quel Ciampi o, comunque, quel ciampismo contro cui il PRC chiamava in piazza i lavoratori? Al di là dei nomi dei capi di governo, la questione è: a quali leggi ubbidirebbe un governo progressista? Occhetto lo dice chiaramente: alle leggi oggettive del capitale, del capitale "in generale", in quanto sistema, e di quello nazionale in particolare, con tutti i corollari che discendono dal fatto incontrovertibile che questo capitale è entrato in una crisi profonda. Con aggiustamenti a favore delle classi sfruttate? Vada pure. Ma in cosa si concretizzerebbero poi questi aggiustamenti se (parola di Bertinotti) "non esistono più margini per vere riforme"? Non più che nel filantropismo piccolo-borghese di cui sopra, per giunta irresistibilmente in discesa. E, in questo quadro, che fine farebbero la democrazia e le sue regole istituzionali se non quella del loro progressivo venir meno col venir meno delle basi sulle quali la finzione di una "egual" rappresentanza delle classi all'interno della società borghese si era potuta sin qui mantenere?
Si ritorna al nodo di fondo, che per i comunisti autentici è uno solo: come uscire dalla crisi capitalistica non all'interno di (rifondati) meccanismi capitalistici, ma spezzando regole e forze del presente sistema di oppressione.
Solo su queste basi si può parlare coerentemente di "alleanze" (noi diciamo: di fronte) e di progetti.
E proprio qui la "sinistra" del PRC scantona allegramente, dicendo sì alle alleanze elettorali, ma ponendo dei paletti fittizi sulla questione del governo. Ovvero, governo progressista sì, purché "sorretti da un forte movimento di massa in grado di intaccare le basi strutturali del potere dei gruppi economici dominanti" senza accedere ad alcun "patto tra produttori". Nientepopodimeno. Sennonché, è proprio in nome di un autentico patto tra produttori (padroni da una parte, schiavi salariati dall'altra) che un governo di queste "sinistre" andrebbe a costituirsi. Diamo atto alla banda di Occhetto di avere un programma chiaro in questi termini, proprio grazie al quale si sono conquistati la non-ostilità o persino la benevolenza di "gruppi economici dominanti" non trascurabili.
Un "forte movimento di massa" potrebbe sorreggere un tale governo o non dovrebbe piuttosto contrapporsi ad esso? Oppure ci si immagina che per virtù propria il "movimento" riuscirebbe a riorientare correttamente una "sinistra" altrimenti pronta a capitolare? Noi crediamo che al massimo un tale movimento possa condizionare la portata dell'attacco borghese "da sinistra". Ma anche per arrivare a tanto occorrerebbe precostituirne le premesse non chiamandolo qui ed ora a subordinarsi alla prospettiva di presunte vittorie elettorali e relativi pateracchi governativi.
Una domanda "maliziosa", in materia, a Rifondazione: perché non far scendere per le piazze ora le masse che in precedenza avete chiamato a raccolta contro Ciampi? Non sarebbe un ottimo sistema per far sentire la voce dei proletari in vista delle elezioni, per lanciare un opportuno messaggio di "sostegno" ad un possibile governo futuro delle sinistre? Cosa ve lo impedisce? Noi crediamo di saperlo: la paura di disturbare il manovratore e di spaventare gli "altri" produttori e...improduttori che dovrebbero consacrare il successo elettorale della sinistra. Non stupitevi, però, se poi domani le truppe che voi stessi avete disarmato oggi, faranno fatica a scendere in campo per il secondo tempo dell'operazione progresso che avete in mente!
Bisogna riconoscere che la maggioranza del PRC si dimostra più coerente della sua opposizione di sinistra. Nel suo basso pragmatismo, essa afferma in pratica: di comunismo non è il caso di discutere per il momento; nessuno lo vuole e nemmeno noi sappiamo che cosa sia, né maggioranza né opposizione; l'essenziale è, al momento, battersi per il meno peggio (su ciò tutti d'accordo) e il meno peggio è la vittoria elettorale delle sinistre quali che ne siano i programmi (poi si vedrà); ma sarebbe incoerente accettare di fare un pezzo della strada che ha per meta il governo per poi ritrarsene. Che ne direbbe il nostro elettore se dopo averlo invitato caldamente a votare per Visentini, La Volpe, Ciccardini etc., rifiutassimo di accollarci le responsabilità di governo derivanti da quel voto? Ci sospetterebbe, giustamente, di averlo truffato.
Il discorso non fa una grinza. Perlomeno se si parte dalla premessa del "meno peggio" difensivo che, in Rifondazione, costituisce il tessuto comune di riferimento.
Se si vuol marciare su altre gambe, è precisamente questo luogo comune che va rimesso in causa.
Un lettore ha scritto al "Manifesto" interessanti cosucce in proposito: "L'ondata di destra, di cui molti sembrano accorgersi solo oggi, sono anni che cresce e non solo grazie alla forza dell'avversario, ma anche grazie alla subalternità culturale e politica della cosiddetta sinistra"; partecipando all'"orgia mistificatoria di chi vuole andare a governare (per governare e non per cambiare le cose) senza mettere in discussione le compatibilità imposte (ben detto!) dalle logiche del mercato e del profitto", "fingete di ignorare ciò che la storia insegna (almeno da Weimar in poi): ossia che è il riformismo a spalancare le porte alla reazione e alla vittoria della destra".
Questa questione è stata, a dire il vero, sollevata nel congresso anche dai rappresentanti della frazione "trotzkista". La mozione Ferrando recita: "Un generico governo progressista, non in grado di mettere in discussione le compatibilità politico-sociali, è destinato a gestire politiche moderate che proseguirebbero nella azione di frammentazione dei lavoratori e di peggioramento delle condizioni di vita delle masse popolari"; tra noi e il PDS esiste una "divaricazione strategica" in merito e non parliamo poi delle altre componenti del cartello elettorale, che sono "forze borghesi assai poco progressiste nella pratica".
Bene. E allora? E allora, con schizofrenia perfetta, si dice che mentre va respinta la proposta strategica di "unità della sinistra", perlomeno "in questo quadro" (il futuro è sempre incerto!), "siamo consapevoli che è necessario affrontare anche sul difficile terreno del nuovo sistema elettorale la minaccia rappresentata dalla crescita delle forze di destra e fasciste" e qui l'accordo, non strategico, ma tattico, va benissimo per "difendere le condizioni di vita e di lavoro delle masse lavoratrici" che... un governo di queste sinistre andrebbe -leggi sopra- ad attaccare!
Ferrando si è persino voluto sprecare dichiarando: tralascio la questione di Togliatti e della strategia da lui indicata (ed ereditata in peggio dal PRC, aggiungiamo noi) e "preferisco" richiamarmi a Gramsci che, com'è noto, combatté... l'estremismo di Bordiga. Bene ha fatto ad esorcizzare il vecchio fantasma (di Bordiga, del partito di Livorno, del comunismo dell'Internazionale di Lenin, e di Trotzkij). Era la carta di credito necessaria per riscuotere il plauso dei nostalgici del "grande PCI di Togliatti" che vorrebbero rieditare tale e quale senza mai chiedersi nulla sulle ragioni che hanno portato alla sua catastrofe coinvolgendo in essa le sorti del proletariato.
Il richiamo antibordighista è piaciuto, anche altri lo hanno fatto proprio, Cossutta per ultimo nel discorso conclusivo. E' un piccolo segno del fatto che i nodi della situazione attuale (che non è solo di "fase") oggettivamente richiamano questioni "antiche" (e "linguaggi antichi"). Prendiamo atto che nel PRC tutti hanno dichiarato d'aver abiurato per sempre dal comunismo, in linea di teoria, di programma, di azione politica e di organizzazione.
Non ci soffermiamo a polemizzare su quanto di mistificatorio è stato detto al congresso sul tema Bordiga. Ci limitiamo a riproporre, qui a lato, dei passaggi delle Tesi di Roma (2° Congresso del Partito Comunista d'Italia, 1922) sui quali, per chi ne abbia la volontà, c'è abbastanza da meditare proprio rispetto al presente e facendo tesoro delle esperienze vissute allora, quando si verificò nei fatti come era proprio "il riformismo a spalancare le porte alla reazione e alla vittoria delle destre" e come ogni concessione "tattica, non strategica" al riformismo da parte dei comunisti si dimostrasse esiziale. Ci potremmo divertire un bel po' quanto al "settarismo" di Bordiga nei confronti degli effimeri -e dai vertici ultraequivoci- "Arditi del popolo" cui impedì d'inghiottire e dissolvere le forze militarmente inquadrate del partito (oggi siamo agli "arditi elettorali" Occhetto-Adornato-Ferrando!). Meglio ancora sul "concretismo" dei traffici aventiniani di Gramsci. Lo faremo in altra occasione, ad uso di chi vuole sinceramente avere qualcosa a che spartire col comunismo.
Ritorniamo al punto di partenza.
Questo 2° congresso del PRC si può sintetizzare come segue. Primo: i risultati elettorali sono decisivi; una vittoria elettorale dei "progressisti" costituisce la premessa di un eventuale rilancio della lotta sociale; se si perde siamo fottuti. Approvato all'unanimità. Secondo: la nostra peculiarità di partito "comunista", cioè "realmente riformista" c'impegna al cartello elettorale sulla base di un accordo programmatico comune per battere la destra senza con ciò doverci confondere coi partner (anche su questo unanimità). Terzo punto. Versione a): questo accordo è solo il primo passo per costruire l'unità della sinistra al governo e fuori. Versione b): una diretta partecipazione al governo da parte del PRC non si pone perché "questa" sinistra per la quale chiamiamo a battersi... nell'urna farà inevitabilmente una politica moderata e di destra.
E c'è infine un quarto punto, da noi spesso richiamato a testimonianza della coerenza dei rifondatori "di sinistra". Il punto relativo al sindacato.
Tanto sono unitarie sul piano politico ed elettoralesco, altrettanto le varie "sinistre" di Rifondazione sono scissioniste sul terreno sindacale. Dice la Salvato: il sindacato va rifondato partendo da "Essere Sindacato" per arrivare ai "sindacati classisti extraconfederali", lasciando appena da parte le masse che stanno altrove. E Ferrando: "Va combattuta una politica di alleanze sindacali funzionali...agli schieramenti di governo, compreso quello dell'eventuale governo progressista". Questo genere di alleanze va riservato ai soggetti politici, di partito, cui è demandabile ogni tipo di pateracchio. I sindacati, invece, devono rimanerne indenni. Un vero "sindacato rosso" non deve sporcarsi le mani con Trentin e chi lo segue (come se un eventuale sindacato rosso potesse prescindere dal frontunitarismo verso le masse inquadrate nei sindacati confederali, e come se un tale sindacato potesse surrogare l'assenza di un partito rivoluzionario...impegnato in patti elettorali e parlamentari!).
Unitarismo elettoralesco e scissionismo sindacale. Esemplare "leninismo rifondato"! Da un lato si tira la volata elettorale ai rappresentanti dei De Benedetti, dei Benetton e magari degli Agnelli, dall'altra si passa il testimone della "rivoluzione" ad un sindacatino duro e puro pronto a siglare solo contratti... socialisti.
Cercate conforto in Lenin contro il "settarismo" bordighiano (o, più semplicemente, di chi, nelle vostre file, non è troppo convinto della qualità della merce che gli offrite)?
Ebbene, parole di Lenin: "Il comunismo nega il parlamentarismo come forma della società futura. Esso lo nega come forma della dittatura di classe del proletariato. Esso nega la possibilità di conquistare per sempre il Parlamento. Esso si prefigge come meta la distruzione del Parlamento". E, quanto alla questione sindacale, ricordate l'imperativo di lavorare anche nei sindacati reazionari?
Cossutta, Salvato, Ferrando: prendete e portate a casa!
L'attuale "svolta" del PRC in materia di elezioni (che è la logica conseguenza di tutta una lunga e disastrosa "tradizione") porterà inevitabilmente agli esiti seguenti.
Primo: ad intralciare proprio la vittoria dei "progressisti" (per le ragioni già esplicitate nelle "Tesi di Roma" del '22), dal momento che anche il minimo accenno a misure a favore dei proletari da parte dei "comunisti" avrà per effetto di spaventare la massa del "centro che guarda a sinistra".
Secondo: indurre sconforto tra le proprie fila proletarie di fronte ad una sconfitta elettorale e moltiplicare le difficoltà a rimetterle in moto sul terreno dell'azione diretta dopo di averle illuse e spostate tutte attorno al baricentro elettoral-parlamentare.
Terzo: nell'eventualità di vittoria alle urne dei "progressisti", scontrarsi da subito con l'indisponibilità di costoro a largheggiare in concessioni ai lavoratori, ma con, alle spalle, un esercito scompaginato e demoralizzato nel suo doloroso risveglio da un'illusione su cui s'era puntato tutto.
Su questo è bene riflettano i compagni di Rifondazione scontenti della "svolta", pronti a combattere sul serio e che s'interrogano sul come e con quali obiettivi farlo.
Ora. Prima che sia troppo tardi.