La classe operaia davanti alle ennesime "storiche elezioni"
L'offensiva borghese si appresta ad un salto di qualità. Le forze della destra affilano a tutto campo le loro armi e chiedono dalle elezioni un consenso "popolare e di massa" alla propria politica. Il riformismo -additando la via dell'assunzione piena delle ragioni dell'"economia nazionale", della rincorsa al "centro", del "rinnovamento" dello stato, della assoluta centralità del terreno elettorale- indica al proletariato la via della disfatta. La classe operaia, di contro, può risalire la china solo attraverso la riaffermazione della necessità di un proprio programma, di una propria politica, di un proprio partito di classe.
"Al voto, al voto": questo il titolo d'una trasmissione televisiva, quasi a sottolineare l'enfasi con cui si chiamano alle urne i cittadini in occasione di questa tornata elettorale.
Elezioni "decisive", "storiche" addirittura. Così recita la demagogia imbonitrice di tutte le parti politiche in corsa (e non escludiamo che qualcuno tra quelli che si sprecano in tali aggettivi ci creda davvero). "Decisive e storiche" anche, ed in primo luogo, per le classi lavoratrici, si affretta ad aggiungere l'imbonitore "di sinistra". L'importanza fondamentale di tali elezioni, il dato che conferirebbe ad esse un significato "ineditamente storico", risiederebbe nel fatto che esse stanno a sancire il passaggio dalla prima repubblica (con il suo carico di consociativismo e di ruberie) ad un modo "nuovo" di fare politica imperniato sulla trasparenza e sull'efficienza. Fatto fuori l'ultra-quarantennale regime "partitocratico" ad egemonia democristiana si tratta adesso di procedere a passi spediti verso la "ricostruzione" e la "rigenerazione" dello Stato e delle sue strutture politiche finalmente "liberate" dai lacci e lacciuoli di consociativa memoria. Il popolo-elettore è chiamato, tramite l'espressione della sua "suprema volontà", a sancire tale "radioso" passaggio.
Levatrice e iniziatrice di tanto cambiamento (della "originale rivoluzione" italiana...) sarebbe stata la magistratura con l'operazione "mani pulite". Di Pietro e soci vengono raffigurati come autentici alfieri di una non meglio precisata opinione pubblica che a un dato momento avrebbe deciso, nauseata dagli eccessi, di dire basta alla corruzione, al ladrocinio, all'affarismo personalistico degli uomini e delle istituzioni della prima repubblica. I magistrati, novelli Zorro protettori e difensori degli umili e degli "esclusi", appaiono quindi -in questa visione ampiamente dominante- come autentica avanguardia di questo "impeto morale", di questo "fremito rinnovatore", che indistintamente attraversa ed accomuna l'intera società. Dunque da Fini ai vertici di Rifondazione Comunista, passando per Bossi, Pannella ed Occhetto, ecco salire alte le lodi all'operato delle toghe nere meritevoli per aver disintegrato il vecchio sistema di potere e per aver aperto le porte e predisposto il terreno al "risanamento" complessivo dello Stato e del "vivere civile".
IL rinnovamento "etico, morale e materiale" delle istituzioni è presentato in tale ottica come interesse comune di tutta la società nel suo complesso, senza distinzioni di ceto e di classe: a tale processo si è tutti chiamati a concorrere speranzosi e collaborativi.
Sgombrato il campo dalle camarille dell' "ancien régime", sarà effettivamente possibile metter mano agli innumerevoli guasti provocati dalla prima repubblica e per tal via procedere alla risoluzione dei più gravi problemi che affliggono la nostra nazione in un ricostruito rapporto di fiducia tra cittadino ed istituzioni: questo, in estrema sintesi, il martellante messaggio proveniente dalla grancassa della propaganda borghese; questo il messaggio fatto proprio (ahinoi, a volte in convinta buona fede) dalla "sinistra" progressista. Una tale lettura degli accadimenti, se non fosse portatrice di micidiali illusioni per il proletariato, meriterebbe esclusivamente di essere liquidata come buffonesca e ridicola. La magistratura, la sovrastruttura giudiziaria dello Stato borghese, ha per decenni lavorato efficacemente e fedelmente al servizio del cosiddetto "vecchio regime", organicamente inserita in esso e pienamente partecipe della sua vita e del suo operare. Tale rapporto (organico, ripetiamolo) è andato incrinandosi allorquando il precedente "sistema di potere" ha iniziato a manifestare la sua inadeguatezza ad ottemperare alle attuali (e ancor di più alle future) esigenze capitalistiche.
Di fronte al parossistico acutizzarsi della concorrenza internazionale, di fronte alla necessità di una politica estera sempre più "muscolare", dinnanzi alle accresciute e "nuove" necessità di concentrazione e centralizzazione dei capitali, di fronte alla necessità di procedere ad un attacco contro il proletariato senza precedenti, la borghesia italiana nel suo complesso ha iniziato a vedere nelle istituzioni e nel personale politico della prima repubblica un elemento di negativa vischiosità da cui urgeva sbarazzarsi. L'operazione "mani pulite", a prescindere dagli intendimenti dei protagonisti formali, risponde di fatto a tale oggettiva esigenza della classe capitalistica: fungere da (molto transitoria, stiamone certi) testa d'ariete in un'operazione di portata più complessiva mirante a ridisegnare e ristrutturare le istituzioni statali in maniera più aderente, più rispondente alle esclusive necessità del capitale.
In sè stesso il sistema capitalistico è furto e corruzione e la politica borghese, sua fedele ancella, non può che seguirne il modello. Tutto sta a vedere se una politica per forza di cose ladrona e mezzana sia in grado o meno di favorire gli interessi complessivi del capitale. E' appunto su questo terreno che la prima repubblica ed i suoi uomini hanno ad un dato momento cominciato a zoppicare; ed è solo a causa di ciò che ai suoi fedeli servi di ieri la borghesia ha riservato un funerale di terza classe chiamando i magistrati a fungere da becchini.
L'alternativa sarebbe potuta essere la pulizia delle stalle da parte del proletariato, da parte del suo partito (se esso ne avesse veramente uno). In questo caso, veramente l'"immoralità" sarebbe stata attaccata a fondo, alla radice, e cioè rispetto al capitalismo come sistema ed anche sì, ma di conseguenza, rispetto ai suoi fedeli politicanti a servizio. Ai vari Craxi un processo proletario -molto sommario, c'è da crederci- avrebbe imputato certamente i soldi cacciatisi in tasca, ma assai più e prima tutti i servizi resi al proprio padrone (a cominciare, ve lo ricordate?, dal taglio della contingenza: una tangente di miliardi a fiumi andati a finire tranquillamente nelle tasche dei padroni del vapore senza che nessuno di parte borghese abbia mai trovato a ridire; un furto "legale" per sanzionare il quale non ci sarà mai, in questo sistema sociale, nessun Di Pietro ad aprire istruttorie).
Così non è stato e non lo è stato innanzitutto perchè per il vecchio PCI, così come per il nuovo PdS o la nuovissima Rifondazione, è assolutamente impensabile mettere in causa il presente sistema capitalista, che va, al massimo, razionalizzato e "modernizzato", nella speranza che da quest'opera di ripulitura possa derivare alle classi lavoratrici qualche briciola in più (noi sosteniamo esattamente il contrario: un capitalismo del genere si rivelerà ancor più rapace). E, soprattutto, perchè il "riformismo" era troppo intimamente invischiato in pratiche "consociative", e cioè di scambio tra sostegno al capitalismo e richiesta di contropartite per i lavoratori salariati. Certo, adesso Occhetto e Bertinotti giurano sulla fine del "consociativismo" sbracciandosi a promettere che mai più tale pratica sarà perseguita. Con Craxi o Berlusconi? Vada. Ma con Agnelli, per esempio? La trattativa alla FIAT non è forse proprio un bell'esempio di consociativismo riformismo-padronato via Stato? Lo Stato al servizio della FIAT (senza bisogno di pagare tangenti di intermediazione a chicchessia: moralissimo!) e, se tutto va bene, qualche minuscola (in perdita) briciola di rimando per i lavoratori.
Stando alle dichiarazioni dei propugnatori, il nuovo sistema elettorale avrebbe dovuto favorire il costituirsi in Italia di un sistema rigidamente bipolare con una destra "moderata e moderna" ed un'altrettanto "moderata e moderna" sinistra impegnate a contendersi il governo del paese in un clima di idilliaca alternanza. Entrambi gli schieramenti si sarebbero dovuti cavallerescamente confrontare nel pieno rispetto delle regole avendo come obbiettivo la conquista dell'ormai mitico "centro".
Al di là di queste bucoliche e buffonesche maniere di presentare lo scontro politico, la riforma elettorale mirava intimamente a due finalità. Spingere ulteriormente il PdS ed il riformismo in genere a mettere sempre più in secondo piano il proprio legame con la classe operaia nel tentativo di avvicinare e rassicurare i "ceti moderati". Spingere dall'altro lato i riottosi ed indisciplinati partiti borghesi a fare i conti con il proprio deleterio particolarismo e a confrontarsi con l'esigenza di un suo superamento in avanti. Senza nulla rimpiangere della prima repubblica e delle sue mefitiche sbornie elettoral-proporzionalistiche, va chiaramente detto che, lungi dall'essere un insieme di "regole neutrali" (quasi si trattasse del regolamento calcistico) a cui i contendenti devono attenersi, la riforma elettorale ha anch'essa rappresentato un tassello della ristrutturazione autoritaria delle istituzioni statali.
Nell'acutizzarsi della crisi capitalistica internazionale (al di là di possibili e transitorie "boccate d'ossigeno") la borghesia italiana sconta negativamente l'attuale assenza di un proprio partito capace di rappresentare in maniera unitaria e complessiva gli interessi del capitale nazionale. Più volte ci siamo spesi su questo tema evidenziando come non di poco conto siano gli ostacoli e gli impedimenti che si frappongono al superamento dell'odierno frastagliamento delle rappresentanze politiche borghesi. Se in questa tornata elettorale sembra emergere la necessaria presa di coscienza da parte padronale dell'urgenza di superare tale handicap, al pari viene evidenziandosi come il particolarismo delle attuali formazioni della destra e del "centro" abbia cause estremamente profonde, tali da non poter essere rimosse effettivamente solo da una manciata di accordi elettorali e di programma. La mancanza di una forza politica capace di sintetizzare efficacemente le necessità della borghesia italiana è materialmente collegata alla strutturale relativa debolezza del capitalismo imperialista nostrano: per ovviare a tale assenza sarà necessario ben altro piglio, ben altra determinazione, ben altro personale umano che quello messo in campo dall'odioso e impomatato cavaliere di Arcore.
Una simile situazione potrebbe essere sfruttata con favore dal proletariato solo se esso avesse un proprio partito di classe capace di indicare senza tema la strada dello scontro aperto contro il capitalismo, capace di aggredire sul reale terreno dei rapporti di forza (rapporti che si determinano ben lontano dalle cabine elettorali) l'avversario, capace d'incalzarlo senza tregua. In tale eventualità le frazioni borghesi sarebbero immediatamente costrette a fare fronte contro il pericolo operaio, ma tale ricomposizione avverrebbe in un mutato, a nostro vantaggio, contesto di rapporti tra le classi. Nella situazione attuale invece le difficoltà (molto relative) della borghesia rischiano di tramutarsi in micidiali difficoltà per il proletariato. L'assenza di un partito borghese egemone apertamente militante può infatti indurre da un lato ad una sottovalutazione drammatica e pericolosissima dell'offensiva generale capitalistica in corso e dei suoi virulenti passaggi prossimi venturi, dall'altro lato non facilita certo l'acquisizione della necessità impellente per il proletariato di marciare verso la ricostruzione della propria indipendenza organizzativa, politica e programmatica, di incamminarsi insomma verso la riconquista del partito di classe.
Una situazione sociale in cui lo scontro di classe non assume anche sul versante "squisitamente politico" connotati chiari e determinati con forze in campo apertamente collocate su fronti nettamente contrapposti e immediatamente individuabili rischia di tramutarsi in un autentico pantano. Ma se nella melma gli interessi capitalistici prosperano, se la borghesia può proseguire la sua offensiva, al contrario i lavoratori rischiano di restarne mortalmente immobilizzati. Chi -come il riformismo- presenta la lotta politica come un civile "confrontarsi tra idee e programmi" da cui deve essere bandito l'odio di classe, indica di fatto la via delle sabbie mobili alla classe operaia.
Da ogni dove si afferma che la novità fondamentale e la stessa ragion d'essere della costruenda seconda repubblica e del "modo nuovo" di far politica che ad essa si accompagna è da ricercare nello svincolamento dell'economia dagli interessi "partitocratici", nel liberarla dalla morsa d'uno statalismo succhione e nel restituire con ciò lo Stato alla sua "naturale" funzione di regolatore e garante super partes degli interessi della società civile (ovviamente le classi e le loro "differenze" scompaiono da tale palcoscenico).
Se è vero come è vero che questo è il succo del trapasso dal "vecchio" al "nuovo", in effetti è solo la destra del paese ad avere ragione di proclamare le ragioni di questa "svolta storica" ben sapendo di poterne lucrare. Coerentemente essa dice cosa sta all'ordine del giorno. Non meno, ma più politica di classe (borghese ovviamente); non minore, ma maggiore subordinazione delle istituzioni statali all'economia (capitalistica ovviamente). La partitocrazia che va spazzata via è quella "consociativa" che, a suo modo (il peggiore dei modi possibili, anche se per ragioni diametralmente opposte ne conveniamo pure noi), garantiva una rete di protezione per il proletariato che ci si appresta a spazzare via senza troppi complimenti. Idem per lo statalismo.Ma veramente si può immaginare che gli "alfieri del nuovo", i Bossi, Berlusconi e Segni vari, si apprestino a confinare lo Stato fuori dall'economia? Al contrario, ad esso si chiederà di trasformarsi in un più spietato ed efficace strumento di raccolta di capitali e di loro destinazione agli "investimenti produttivi", cioè all'impresa, dismettendo attività "parassitarie" in proprio, vale a dire, in primo luogo, il welfare-state da esso sin qui garantito anche attraverso un'impresa statale elefantiaca ed ingoia-risorse a vuoto (nuovamente ne conveniamo, ma non è che qui ci si prospetti di dismettere questi apparati per garantire al meglio in loro vece le previdenze sociali, al contrario! Si tratta di lasciar via libera ai licenziamenti, di chiudere col capitolo cassintegrazione, di privatizzare thatcherianamente la scuola, la sanità etc. per la semplice ragione che ogni protezionismo operaio significa minore protezione all'accumulazione capitalistica, ed è a garantire quest'ultima che lo Stato "rinnovato" deve con decisione intervenire).
O veramente si può pensare che i sullodati "nuovi" signori fungerebbero da semplici e bravi "amministratori" lasciando da parte, in politica, gli interessi privati? In una società divisa in classi l'"amministrazione" non è un'operazione neutra, di natura contabile, ma è un'amministrazione di classe dei rapporti sociali tra le classi. Anche ammesso che nessuno di costoro abbia a rubare per ingrassare il proprio personale portafoglio, è sicuro, ed anzi da essi stessi altamente dichiarato, che le risorse fiscali si convoglieranno verso l'accumulazione privata al massimo d'intensità (ammesso che sappiano e possano farlo) e ciò sta nella logica del capitale, al quale ogni "buona amministrazione" ubbidisce.
In questa campagna elettorale campeggia alto ed insistente il richiamo al federalismo, al regionalismo, all'autonomismo. Si assiste ad un'autentica gara nel rivendicare la paternità di simili parole d'ordine. Dalla Lega al PdS, dai "Pattisti" a Rifondazione Comunista, tutti (certo con accentuazioni diverse) saltano sul cavallo del "decentramento delle funzioni e delle competenze statali"; anche l'"iper-centralista e statalista" Fini è, a sua volta, pronto a dimostrarsi dialogativo su tale punto. Il federalismo (in qualsiasi salsa lo si voglia intingere) è costantemente presentato come uno dei fondamentali tasselli della seconda repubblica, come un suo "naturale" portato, senza il quale la transizione al nuovo resterebbe monca. La lotta contro lo Stato "burocratico, accentratore e accaparratore" passa necessariamente -così da ogni dove si sente ripetere- attraverso una valorizzazione delle competenze regionali e territoriali, che, non solo assicurerebbero un'amministrazione a "buon mercato", ma garantirebbero anche il reale controllo democratico dei cittadini sulle funzioni di governo.
Il nostro punto di vista sulla questione è diametralmente opposto. Il federalismo risponde a delle precise ed esclusive esigenze capitalistiche. Lo Stato non deve più distogliere delle risorse per assistere aree geografiche "improduttive", non deve più rivestire, tra l'altro, alcuna funzione di cassa di compensazione tra diverse realtà territoriali. Lo Stato "rinnovato" deve, anche da questo punto di vista, operare per convogliare al massimo tutte le risorse finanziarie a supporto delle aree trainanti del capitalismo nazionale. Decentramento federalistico e accentramento del capitale sono fenomeni che vanno a braccetto.
Ma federalismo sta anche a significare una maggiore libertà per i capitalisti di lucrare, a proprio vantaggio e contro il proletariato, sulle differenze sociali ed economiche a scala territoriale. Significa, ad esempio, avere ancor più mano libera nell'utilizzare la fame di lavoro del Sud per contrapporre i lavoratori meridionali a quelli settentrionali indebolendoli entrambi, significa procedere nell'opera di divisione e balcanizzazione della classe operaia.
Dalle versioni più estreme proprie di settori leghisti che vedono nel federalismo un ponte verso la secessione; a quelle più edulcorate e "ragionevoli", avanzate dai "progressisti" e dalla sinistra tutta, vagheggianti un (illusorio!) "federalismo solidale", nulla di buono potrà venire per i lavoratori. Al contrario la classe operaia deve rigettare e battersi contro tali ipotesi in qualsiasi colore esse si presentino. "Decentralizzazione" non significa poter "contare di più" o poter esercitare un maggiore controllo sui "pubblici poteri". Per la nostra classe essa si può tradurre solo ed esclusivamente in un potente fattore di divisione interna, di generale indebolimento, di contrapposizione tra proletari.
Ma se ogni prospettiva federalista e secessionista deve essere vista come la peste da parte dei lavoratori, allo stesso tempo va respinta ogni (futura?) ipotesi di alleanza con settori borghesi in nome dell'unità della nazione. Percorrere una siffatta strada (per quanto la si volesse presentare come transitoria e strumentale) finirebbe inevitabilmente proprio per preparare al meglio il terreno ad una balcanizzazione del proletariato. L'unitarismo borghese, al pari del secessionismo borghese, presuppone la frammentazione e la divisione della classe operaia. Lotta dunque al federalismo ed al secessionismo in nome dell'unità di classe, e non certo in nome di una "risorgimentale" unità nazionale. Lotta al federalismo ed al secessionismo sul terreno dei reali rapporti di forza tra le classi e non inseguendo alla "meno peggio" la Lega sul proprio terreno illudendosi con ciò di contenderle consensi elettorali.
Come già si era andato evidenziando nelle recenti amministrative autunnali, la conquista del "centro" condiziona sempre più profondamente ed esplicitamente l'operato e le prospettive delle "forze di sinistra". Per poter governare è indispensabile ottenere il consenso dei "ceti moderati", quindi compito ineludibile è rassicurarli e sfornare programmi che tengano in primo piano le loro esigenze, mettendo sempre più la sordina alle "settarie e corporative" necessità operaie: sul piano elettoralistico questo ragionamento ha una sua coerenza, e di ciò agli Occhetto di turno va dato atto. Così, mentre i tanto ambiti "ceti intermedi" vanno, ogni giorno di più, radicalizzandosi a destra in funzione anti-operaia, il riformismo si getta al loro inseguimento spostandosi verso il "centro".
Diciamolo subito a scanso di equivoci. Fin tanto che la questione del governo e del potere sarà affrontata all'interno della logica istituzionale ed elettorale (logica da cui il riformismo non potrà mai emanciparsi) questa deriva "verso destra" sarà inevitabile. E' assolutamente inconsistente la posizione di chi, come i vertici di Rifondazione Comunista, afferma di voler combattere lo scivolamento centrista della sinistra e poi indica come privilegiato (sarebbe più corretto dire: unico) terreno di battaglia quello delle urne. Su questo versante, con buona pace dei Bertinotti e dei Cossutta, ha ragione il tanto vituperato Occhetto; ed infatti i "terribili rifondatori" abbaiano tanto, ma alla fine finiscono inevitabilmente per adattarsi alla intima (e fetida) coerenza del ragionamento esplicitamente proclamato a Botteghe Oscure. La sinistra "irriducibile" (bum!) che insegue la sinistra moderata che insegue il "centro": un bel quadretto, non c'è che dire.
Il riformismo, nell'epoca della massima putrescenza imperialista, per accreditarsi quale forza "credibile" deve necessariamente espungere dal suo seno ogni, sia pur annacquatissimo, riferimento al proletariato in quanto classe a sé. Certo, i lavoratori vanno "protetti", non devono essere lasciati alla mercé del "liberalismo berlusconiano", ma vanno difesi in quanto "cittadini deboli", "esclusi" dalle leve del potere e della ricchezza. Al posto della rivendicazione della lotta di classe subentra quella nauseabonda della "solidarietà", che presuppone che i "deboli" tali siano e tali debbano restare. Dietro questa pretesca "nobile" parola si nasconde solo ed esclusivamente l'accettazione piena ed incondizionata delle leggi e delle regole del capitalismo. Si evidenzia il progressivo (ed avanzato) abbandono di ogni richiamo alla lotta della classe operaia non solo e non tanto per distruggere il sistema borghese (cosa che mai il riformismo ha rivendicato a sé), ma sinanche per strappargli "aggiustamenti" e concessioni. Dalle "riforme di struttura" di togliattiana memoria al "solidarismo" occhettiano: questa la parabola inevitabile del riformismo.
La costituzione del "cartello progressista", opera in cui il PdS si è speso anima e corpo, costituisce un ulteriore passaggio nel cammino di sganciamento di questo partito da ogni, sia pur minima, tutela operaia. Stando ai commenti della stampa, con questa operazione il "furbo" Occhetto sarebbe riuscito ad imporre l'egemonia del PdS su un vasto arco di forze, riuscendo, tra l'altro, a subordinare a sé anche settori dell'area "liberal-democratica" rappresentati da Alleanza Democratica. Ci permettiamo di dissentire da una simile lettura. La vera egemonia politica e di programma all'interno del "polo progressista" appartiene proprio ai settori "liberal-democratici": altro che "cavallo di troia" di Occhetto e D'Alema! Non è forse vero che è stata Alleanza Democratica ad imporre al PdS il nome di Ciampi come papabile per la guida del futuro governo? Non è stata forse sempre A.D. a pretendere ed imporre una più netta presa di distanza del PdS da Rifondazione Comunista? Non è stata forse A.D. a dettare una netta impronta (appunto "liberal-democratica") al programma di governo del "polo"? Sembra paradossale, ma un pugno di insignificanti e fastidiosi bambocci alla Bordon e alla Adornato si permettono di bacchettare arrogantemente la "quercia" e di mettere in castigo nell'angolo Rifondazione (un paradosso nient'affatto inspiegabile, naturalmente, dacché questi insignificanti "personaggi" sono il tramite della forza sociale impersonale ben altrimenti "significante" del "capitalismo nazionale"). Per la via degli Occhetto e dei Cossutta non si giunge, dunque, all'egemonizzazione del "centro" da parte della "sinistra", ma al suo esatto contrario.
Intanto il vento "liberal-democratico" spira forte ben oltre gli ambiti del cartello elettorale. Il programma economico di governo del PdS (programma di "affiancamento ed arricchimento" a quello dei "progressisti" lo ha definito Occhetto) ne rappresenta un'ulteriore conferma. "Risparmio indirizzato verso la capitalizzazione delle aziende", "privatizzazione delle industrie pubbliche", "regionalismo di ispirazione federalista" (il tutto ovviamente corretto con la magica "solidarietà"). A ragione il buon Achille ha detto : "non vogliamo nasconderci: il programma è stato elaborato da una forza di sinistra. Ma l'obiettivo non è dar vita ad un governo di sinistra. Piuttosto ad un governo di ricostruzione morale, civile, economica. Gli obiettivi sono tali che possono essere condivisi anche da chi è favorevole solo ad una ricostruzione sana" (Unità 16/2/94). Occorre aggiungere altro?
Nonostante la vorticosa caduta libera del PdS e di Rifondazione Comunista, sarebbe sbagliato affermare che non esiste alcuna differenza tra le opzioni "riformiste" e quelle della destra, non fosse altro perchè le prime in una certa qual misura (calante) sono espressioni e dipendono dalla propria base sociale d'appoggio. Ma la differenza è solo nel grado e nella distribuzione dei benefici e dei carichi sociali all'interno delle ferree leggi economiche capitalistiche: nel presente stadio di sviluppo imperialista e tanto più in una fase di crisi economica strutturale particolarmente acuta, i margini da "amministrare" non possono assolutamente essere sufficientemente ampi tanto da garantire le "acquisizioni" precedenti per il proletariato, fosse pure in quanto classe del capitale. Lo diceva anche il Bertinotti di qualche tempo fa, senza, ovviamente, trarne le dovute conseguenza.
Si, è vero: la crisi capitalistica è inevitabile, ma non è inevitabile per il proletariato doverne pagare i conti, anche prima che sia suonata l'ora del risolutivo scontro di classe per il potere. Solo che per prepararsi a ciò occorre che il proletariato si dimostri autonomamente organizzato su posizioni, sindacali e politiche, incompatibili con le ragioni dell'amministrazione borghese. In parole povere: non esiste una ricetta "operaia" per salvare capra e cavoli, la macchina del capitale ed una propria rete di protezione. Su questo punto i centro-destri parlano brutale ed a buona ragione.
A sentire Bertinotti (parliamo del più "estremista" del blocco "progressista"), le due cose invece potrebbero benissimo conciliarsi: da una parte imprese competitive modello, dall'altra occupazione e benessere per i lavoratori. Come? Presto fatto. Lavori pubblici straordinari, risanamento ecologico, diminuzione dell'orario di lavoro a parità di salario. Siamo alla moltiplicazione dei pani e dei pesci, ma dubitiamo che tale miracolo possa essere compiuto da chicchessia. Il nostro amico, richiamandosi evidentemente alle ricette del New Deal, dimentica che il volano della domanda pubblica per rilanciare l'insieme dell'economia non è oggi riproponibile, e che anche allora esso mise capo ad un rilancio economico risoltosi nella corsa al secondo conflitto mondiale. Ma il vero crimine da imputare al riformismo non sta nella utopia di poter salvare "capra e cavoli" (che può essere anche generosa e sincera in certi casi), ma nell'aver predisposto in anticipo tutti gli strumenti atti a ritrarre il proletariato dal decisivo terreno: quello della lotta per la difesa intransigente dei propri distinti interessi di classe, quello della lotta per affermare -contro il capitalismo- il proprio esclusivista potere.
Di fronte all'arroganza e all'aggressività della destra è più che "ovvio" che i settori più consapevoli e meno disposti a piegare la testa del proletariato vedano nel "polo progressista" una sponda a cui rivolgersi. "Per governare la sinistra un prezzo dovrà pure pagarlo, ma se ciò servirà a farci continuare a lavorare, allora che lo si paghi pure": questa la dichiarazione di un lavoratore metalmeccanico allo sciopero del 10 dicembre scorso; questo in sintesi il pensiero operaio. La classe operaia, nel suo tremendo "realismo", percepisce come i rapporti di forza siano decisamente a suo sfavore e come questi non possano essere ribaltati dall'oggi al domani come se nulla fosse. Dinanzi a questa diagnosi più che esatta il proletariato, imbottito per decenni di morfina riformista, è portato "spontaneamente" a vedere nella (sempre più annacquata) "sinistra di governo" la ciambella di salvataggio più a portata di mano.
Certo, una vittoria elettorale dei "progressisti" non avrebbe gli stessi effetti immediati di una vittoria della destra. Gli aspetti più odiosi dell'offensiva capitalistica potrebbero essere per un attimo (ma solo per un attimo) mitigati e ritardati, ma tale dilazione verrebbe, a breve, pagata amaramente e con gli interessi dalla classe operaia. Un governo "progressista" immediatamente chiamerebbe i lavoratori ad un maggior senso di "responsabilità" verso l'"economia nazionale", ad una piena e "consapevole" assunzione delle "ragioni" della "propria" impresa e del "proprio" capitale, ad un costante vassallaggio verso i ceti medi. Il proletariato sarebbe immediatamente chiamato a dismettere ogni suo, anche minimo, protagonismo sociale per non intaccare la delicata e precaria "fiducia" (comunque "a termine") concessa dalle altre classi sociali. Senza contare che nel caso la borghesia fosse "costretta" (più a causa della incompiutezza dello schieramento di destra, che per la "forza" della sinistra) ad "accettare" un governo "progressista", essa lo tollererebbe solo nella misura in cui questo servisse ad immobilizzare i lavoratori. Una volta assolto tale compito, siamone certi, i "progressisti" si vedrebbero recapitare un repentino, quanto "inaspettato" benservito.
La "ciambella di salvataggio" diventa così una vischiosa rete in cui la classe operaia rischia di restare impigliata offrendosi impotente all'offensiva nemica.
L'unica possibilità per rovesciare i rapporti di forza tra borghesia e proletariato risiede nel perseguire la via diametralmente opposta a quella indicata dal riformismo. Non meno, ma più lotta; non meno, ma più organizzazione distinta e separata di classe; non minore, ma maggiore intransigenza nella difesa degli interessi operai; non "superamento", ma pervicace riaffermazione della indispensabilità di una politica di classe.
Solo così il nostro fronte di classe potrà superare le proprie divisioni e rafforzarsi, solo così si potrà sfaldare e scomporre il "blocco" dei ceti medi intorno al grande capitale, solo così -anche sul piano immediato- sarà possibile rintuzzare efficacemente l'offensiva borghese.
Basta con le illusioni sulla centralità del "terreno elettorale" e con l'immaginare di poter riconquistare nelle urne ciò che si è perso altrove. Le elezioni sono solo lo specchio dei rapporti di forza tra le classi sociali. Esse li riflettono, non li determinano. La borghesia ha strappato le nostre posizioni nelle fabbriche, sui luoghi di lavoro, nella società. E' su questo terreno che essa ha aumentato il suo potere: è su questo medesimo terreno che va preparata e data la nostra battaglia.
Piaccia o meno, il proletariato è chiamato a prendere atto che la tutela dei propri interessi di classe non è conciliabile con la salvaguardia del capitalismo; che una vera lotta per la difesa delle proprie esigenze di fronte ai colpi della crisi non è conciliabile con la risoluzione di questa crisi stessa, ma ne richiama l'aggravamento e porta lo scontro in direzione di una lotta "ad eliminazione diretta" per il potere.
Solo per questa strada, che passa per la riacquisizione della capacità di guardare agli operai degli altri paesi come parte del proprio esercito e per l'indispensabile ricostruzione del partito di classe, il proletariato potrà realmente imporre il proprio governo sulla società.