Questo numero del "Che Fare" si presenta con una novità nell'intestazione: non più giornale dei Nuclei Leninisti Internazionalisti e del Centro di Iniziativa Marxista, ma giornale di un'unica Organizzazione Comunista Internazionalista.
La "novità" sta nella formalizzazione di un fatto già da tempo compiuto: l'integrazione dei due gruppi precedenti e, con essi, di nuove forze venute ad aggiungersi nel corso del lavoro al loro progetto, in una sola - e per certi versi nuova - organizzazione. Nuova sì, perché essa non si presenta come il frutto di un'aggregazione tra gruppi e realtà separate pre-esistenti, ma come risultato di una lunga opera di confronto, elaborazione ed intervento collettivo che, nel suo risultato oggi definitivamente acquisito, supera quantitativamente e qualitativamente le precedenti realtà frammentate e parziali e rappresenta un passo in avanti nel lavoro verso la costituzione del Partito rivoluzionario.
Formalizziamo questo dato di fatto prima ancora di un cosiddetto "normale congresso" e persino prima che sia varato un "completo" corpo di tesi. A decidere della costituzione dell'OCI non abbiamo delegato, nel corso di questi anni, un'"assemblea sovrana", ma la maturazione, pazientemente ricercata e conseguita, del contenuto reale su cui l'organizzazione si è venuta definendo e la verifica, a tutti i livelli, dell'acquisizione di esso da parte di tutte le fibre del tessuto precedente. In quanto alle tesi, esse - da un punto di vista anche formale verranno senz'altro, ma sulla base di un filo già acquisito e che percorre sin d'ora ogni nostra singola presa di posizione teorica, politica ed organizzativa. Esse saranno la sanzione, per l'appunto, di quello che sin d'ora definisce l'OCI come realtà politica complessiva, e ben lo vedono quanti mostrano di condividere il nostro percorso e quanti vi si oppongono da svariati punti di vista: gli uni e gli altri sanno quali sono le nostre tesi (per quanto formalmente ancora da scrivere) e di fronte ad esse prendono coerentemente posizione.
Non ci definiamo Partito, come molti esagerati hanno voluto o persistono a voler fare nel campo dell'"estrema sinistra rivoluzionaria", perché non intendiamo confondere, neppure nel nome, il traguardo strategico che ci poniamo e la realtà presente. Al Partito non manca solo, e principalmente, il numero degli aderenti, l'immediata forza materiale su cui basare il proprio intervento; mancano tuttora le condizioni di un decisivo superamento della frammentazione e delle debolezze teoriche, programmatiche e politiche che caratterizzano l'attuale situazione di iniziale uscita dal tunnel pluridecennale della controrivoluzione. Un tale superamento comporterà sì il riallacciarsi delle nuove forze rivoluzionarie emergenti dalla società alle lezioni (cui per primi ci dichiariamo debitori) consegnateci da chi ha saputo coerentemente resistere e contrapporsi alle devastazioni staliniste preparando così le condizioni della futura ripresa, come nel caso della Sinistra comunista "italiana"; ma comporterà, del pari, il superamento delle debolezze e delle contraddizioni connesse a quel ciclo di resistenza controcorrente e spesso assunte a caratteristiche distintive dalle organizzazioni formali che alla Sinistra si sono richiamate (come dimostrano le vicende del, o dei tanti Partiti Comunisti internazionali ed Internazionalisti).
Non Partito, dunque, ma organizzazione sì. Organizzazione e non club di amici e compagni, non aggregato informe di gruppi marcianti per conto loro, non accolita di pensatori od agitatori individuali od agenti con spirito ed indirizzi limitati al "proprio" campicello immediato. Non un insieme di entità separate, tenute malamente insieme da una sigla "comune", ma un'organizzazione reale, con una disciplina capace di legare tutti ed ognuno ad un indirizzo ed un metodo di lavoro collettivi, perché solo a questo patto sarà possibile compiere ulteriori passi verso ulteriori approssimazioni al Partito.
In una situazione apparentemente buia, vi è una miriade di gruppi e semigruppi che ambiscono a tenere o riacquisire il filo rosso del marxismo. Tradiremmo noi stessi questi sforzi se non indicassimo ad essi, in via prioritaria, sia sul piano teorico che su quello pratico, che a tale scopo occorre superare con decisione la fase "settaria" del piccolo gruppo informale o, peggio, delle singole individualità impegnate nella "ricerca", e dare un quadro organizzato allo studio, alla discussione, all'intervento politico. La centralizzazione delle forze in campo non è un fatto di addizione, bensì di moltiplicazione di esse in termini di qualità prima ancora che di numero. Noi intendiamo rafforzare ed estendere questa capacità di organizzazione, avendone per primi registrato il valore nel nostro passaggio dalla fase precedente di ridotti aggregati spesso condannati, per forza oggettiva di cose, ad una pratica di elaborazione ed intervento settoriali, spesso locali o persino individuali. Prova a contrario ne è la rapida degenerazione in cui incorrono tutti i gruppi incapaci di darsi questa disciplina non burocratica, ma sostanziale, che trascende ed ingloba le singole spinte parziali: quando non vi è organizzazione, può al massimo esaltarsi il ruolo degli individui con la sua incapacità di inquadrare e dirigere la realtà, di pari passo con la degenerazione verso analisi e prospettive riflettenti l'angustia e le miserie dellio privato piccolo-borghese.
Perché la rottura violenta dei ceppi capitalistici e la riorganizzazione della società nel senso dell'impiego collettivo delle capacità produttive acquisiteci dal lavoro ininterrotto delle generazioni precedenti, per i bisogni della specie umana e non per le esigenze del profitto che quei bisogni negano, è un compito reso ormai stramaturo dallo sviluppo raggiunto e dal livello delle contraddizioni sociali che questo sviluppo accompagna, nella fase senile del capitalismo imperialista. Una società senza merci, senza proprietà privata, una società che abbia cancellato dal suo vocabolario la parola profitto non è, oggi, né un ideale utopico né un programma per i tempi futuri; è un imperativo irrimandabile, pena - proprio - la messa in discussione della sopravvivenza della stessa specie umana. Socialismo o barbarie; socialismo o "civiltà" capitalista della distruzione sistematica delle risorse naturali e della specie umana, sino all'olocausto, che si va preparando, di una terza guerra mondiale giocata sull'intero globo e stellarmente al di sopra di esso.
La parola comunismo è stata vilipesa, col rovesciamento controrivoluzionario dell'Internazionale di Lenin, a significare l'apologia di un capitalismo "riformato", a base "popolare", che è poi il programma dello stalinismo in tutte le sue varianti, per non parlare della socialdemocrazia classica. La parola comunismo è stata appiccicata alle categorie della produzione mercantile e del "giusto" profitto ed oggi, proprio mentre il capitalismo senile è entrato con tutti e due i piedi nella sua fase estrema di decadenza ci sono "comunisti" che dichiarano esaurita la spinta propulsiva dell'Ottobre rosso, che negano si possa "fuoriuscire" dal capitalismo (per entrare dove?, si chiedono, visto che del capitalismo sono ormai parte integrante e soddisfatta dei relativi utili). Con il precipitare della crisi, però, a mostrarsi coperto di fango non è lesigenza del comunismo, bensì l'inganno di quanti ne hanno usato il nome per esorcizzarne il contenuto eversivo. Sotto l'inesorabile pressione delle contraddizioni oggettive del sistema capitalista viene meno ogni progetto di riforma di esso. La lotta torna ad imporsi sul classico terreno dello scontro di classe, la cui posta è il seppellimento di un sistema ormai putrido. Il becchino storico del capitalismo esiste da tempo, ed è il proletariato da esso stesso generato. L'"alternativa" sociale lo è del pari, ed è il comunismo, che il capitalismo ha tenuto sin troppo a lungo nel sottosuolo della civiltà e che reclama oggi di venire alla luce. Tocca ai rivoluzionari strappare il nome stesso del comunismo ai rappresentanti della borghesia in seno al movimento operaio; tocca ad essi restituire a questo nome il suo significato autentico e farne una bandiera per le sterminate masse oppresse di tutto il mondo.
La qualifica di internazionalista, aggiunta a quella di comunista, è in certo qual modo pletorica. Il comunismo è per sua natura internazionale. I suoi confini non sono quelli degli stati borghesi, ma quelli di classe. Il comunismo, sin dai tempi del "Manifesto" di Marx-Engels e perfino prima, o è internazionale o non è.
Noi riprendiamo questo aggettivo per sottolineare una volta di più questo concetto fondamentale e per rimarcare quanto sia tuttoggi necessario battere e sradicare la "correzione" del concetto marxista di comunismo sotto la veste, dichiarata più "realistica" sul piano strategico e poi innalzata a scala di principio, del "socialismo in un solo paese", della pluralità delle vie nazionali al socialismo, della loro indipendenza reciproca (sino ad arrivare, alla fine di questo ignobile percorso, alla conflittualità aperta e alla guerra tra "paesi socialisti").
Il pericolo che questa velenosa eredità di riformismo nazional-popolare contagi la ripresa rivoluzionaria è tutt'altro che campato in aria. Non abbiamo forse visto, prima e dopo il '68, tanti ribelli scendere in campo contro le "multinazionali" e l'"imperialismo" con una concezione in fin dei conti nazionalistica? Non abbiamo forse assistito alla costituzione di un "Movimento rivoluzionario internazionalista" che ripropone, con il maoismo, pratica internazionalista come semplice somma di nazionalismi? Non vediamo forse perfino organizzazioni che pure ripudiano tale eredità (come il Pc d'Ira rischiare di essere risucchiate dentro una pratica determinata in via quasi esclusiva dalla propria realtà nazionale?
Ecco perché l'aggiunta (internazionalista), in teoria superflua, non è tale nei fatti. Del resto i primi episodi dello scontro aperto tra il fronte proletario e quello borghese (Polonia, Inghilterra, Sud Africa) o tra le masse oppresse e l'imperialismo (Palestina, Nicaragua), hanno visto il campo a noi nemico ben più unito, nonostante le contraddizioni, del nostro, ben più "internazionalista", a suo modo, del nostro. Vi è quindi un ritardo specifico da recuperare e che non sarà colmato spontaneamente.
Chiamandoci internazionalisti, vogliamo dichiarare da subito che il nostro lavoro, per ridotto che possa essere, non si restringe al terreno nazionale con la presunta giustificazione che prima di passare a un'Internazionale occorre costituire e rafforzare dei partiti localizzati nazionalmente. Se ammettessimo un tale criterio già ci predisporremmo ad una riedizione "migliorata e corretta" del vecchio modello stalinista. La fase storica della costituzione di partiti nazionali è definitivamente tramontata col passaggio dalla Seconda alla Terza internazionale ed oggi, anche riprendendo il filo con esili forze, non si può che ripartire dal più alto gradino raggiunto.
Non vogliamo con questo pensare alla nostra organizzazione come immediatamente estesa, sul piano fisico, a scala internazionale. Indichiamo un piano e un metodo di lavoro perché la nostra organizzazione possa integrarsi nell'opera di ricostruzione di quello che sarà il Partito Comunista Internazionalista. Il "Che Fare" e gli altri organi di stampa danno la misura di cosa intendiamo concretamente affermare con ciò.