SUD AFRICA. 
Oltre Mandela alla ricerca di… Lenin


Oltre seicento morti e migliaia di arresti dall'inizio dell'anno non sono bastati al regime di Pretoria per bloccare la rivolta delle masse nere contro il sistema dell'apartheid e le conseguenze di una crisi economica che rende questo sistema ancor più inumano ed insopportabile. La marea montante della ribellione è oramai inarrestabile: quando migliaia di uomini inermi affrontano quotidianamente una delle più efficienti polizie del mondo incuranti della propria vita, niente potrà più fermarli.

Botha ha messo in campo tutte le armi a sua disposizione: il tentato compattamento di tutti i bianchi contro la minaccia della "sovversione" nera, il monopolio delle armi nelle mani di un esercito e di una polizia pronti a farne "buon uso" senza scrupolo alcuno; lo sfruttamento delle divisioni e rivalità etniche e tribali all'interno della popolazione nera e tra essa e gli altri "colorati" presenti nel paese; la complicità, diretta od indiretta, dei settori di borghesia e piccola-borghesia nera "moderata" (dal principe degli Zulu Buthelezi rivendica "tempi lunghi" per la conquista dei "diritti civile integrali e si dichiara contrario alle sanzioni perché "danneggerebbero i negri" sino ai vari Tutu, premi Nobel della pace sociale predicata sul sangue di centinaia di martiri); persino una mezza disponibilità "riformista" (quella che consiglia al nostro Andreotti di seguire con "attenzione e disponibilità" e "senza saccenza" i passi "innovatori" del regime)...

Perfettamente inutile. La diagnosi comune a tutti i commentatori è una: troppo tardi, "I problemi sul fronte economico — scrive Il Sole 24 Ore del 18/19 settembre — riducono i tempi per una soluzione della crisi razziale" e se è vero che "le dirompenti tensioni che stanno portando il Paese sull'orlo della guerra civile non dipendono precipuamente da una crisi economica, d'altra parte non è certo casuale il fatto che esse siano esplose in un momento particolarmente difficile per l'economia", tanto che tra le organizzazioni nere radicali è ormai diventata comune la convinzione che "il vero nemico da combattere è il capitalismo, di cui l'apartheid è solo una delle espressioni". Un solo dato: per tenere il passo con il tasso di occupazione nera attuale la crescita del PNL sudafricano dovrebbe marciare al 5,5%, mentre per 1'85 siamo ad un misero 1%, "e secondo stime non ufficiali, già ora circa la metà dei 6,13 milioni di neri economicamente attivi sono disoccupati". Ecco perché il movimento di rivolta è talmente intriso di rivendicazioni economiche e sociali da far sì che la fine dell'apartheid sia associata nelle aspettative delle masse ad un sostanziale mutamento di rapporti economici e sociali, per l'appunto, nel paese. Ed ecco perché vasti settori della borghesia nera, con in testa i dirigenti dell'ANC, si affannano a predicare la "moderazione", temendo un'esplosione sociale che metterebbe in causa anche i suoi interessi e privilegi acquisiti entro il sistema dell'apartheid: in quanto borghesi, questi neri si riconoscono alla bisogna della stessa razza dei bianchi!

Un interessante "dossier" di Newsweek (16 settembre) mette in rilievo come "ciò cui stiamo oggi assistendo è una polarizzazione nel corso della quale si rafforzano sia le posizioni di destra che di sinistra, il che è un grosso ostacolo alla ricerca di una soluzione". La rivista documenta bene le modificazioni intervenute in questi anni nel fronte di lotta nero: a) perdita di prestigio delle vecchie leadership moderate e dei loro strumenti ed obiettivi di lotta;

b) emergere di giovani generazioni sempre più radicalizzate, il cui luogo deputato di lotta sono oramai le strade, e che, nella presente situazione di duplice crisi del sistema nei suoi aspetti di discriminazione razziale e di struttura economico-sociale capitalista, vanno decisamente spostandosi verso il marxismo. È quanto ammette lo stesso Oliver Tambo, leader dell'ANC in esilio: "I giovani entrati nelle file del movimento dopo la rivolta di Soweto nel '76 sono molto più radicali e coscienti, rispetto alla generazione degli anni cinquanta vi è stato uno spostamento verso il marxismo". E Newsweek, sulla base di una ricca documentazione, così conclude: "Nelle attuali circostanze, questa generazione di giovani neri può anche essere uccisa o incarcerata, ma un'altra generazione, ancor più radicale, prenderà il suo posto. (...) Per il presente, coloro che si battono nelle strade operano senza coordinamento od una ben definita leadership. La loro rivoluzione aspetta il suo Lenin. Egli può venire da un'organizzazione esistente o semplicemente emergere dalla strada". Dalla strada: ovvero, dall'esperienza dell'impraticabilità delle vie riformiste e dalla coscienza della strada da prendere perché un’autentica rivoluzione s'imponga, a cancellare non solo l'apartheid, ma con esso il pericolo di una provvisoria stabilizzazione di un regime "democratico" che, all'insegna delle raggiunte libertà politiche, si proponesse di esigere dalle masse dei lavoratori neri la prosecuzione e l'intensificazione dei sacrifici necessari a rimettere in sesto la macchina capitalista passata ad esse di mano.

Dove metterà capo questa inesorabile tendenza alla radicalizzazione? Qualcuno teme che lo "spostamento verso il marxismo", nella sua forma spontanea ed immediata, possa fermarsi a suggestioni pro-sovietiche, in nome di un anti-imperialismo a sfondo nazionalistico. A nostro avviso, questo pericolo è molto relativo in prospettiva. Mosca può benissimo tuonare contro il regime di Pretoria e le complicità con esso dell'Occidente, ma non può né vuole scatenare una "guerra santa" anti-imperialista a partire da un paese come il Sud Africa a forte sviluppo capitalistico, con un consistente e sperimentato proletariato, con un livello di contraddizioni di classe altissimo. Una cosa è "aiutare" (per controllare) paesi come l'Angola e il Mozambico, tra l'altro "permettendo" che in essi continui a fare il suo gioco il capitale occidentale; altra dare la stura ad un movimento le cui caratteristiche di classe incendierebbero le stesse regioni d'influenza sovietica circonvicine. E non a caso Eduardo dos Santos, presidente dell'Angola, ha dichiarato alla recente Conferenza dei non-allineati che col Sud Africa bisogna dialogare. Le prese di posizione ufficiali, ed alla distanza, di Mosca non vanno al di là della solita ricetta stalinista: blocco tra le classi nazionali, democrazia progressiva, via di sviluppo nazionale, indipendenza e sovranità, non ingerenza…

Se, dunque, le sirene di Mosca possono provvisoriamente attrarre qualche ala del movimento nel processo di distacco dalla palude "riformista" nera legata mani e piedi al capitalismo occidentale, il rapporto tra rivoluzione sudafricana e Mosca è strutturalmente destinato ad essere verificato dalla realtà delle cose e a diventare conflittuale.

Gli stessi "riformisti" neri mostrano di non essere troppo preoccupati del pericolo di un "angolizzazione" del Sud Africa da parte di Mosca. Il pericolo comunista, essi lo sanno bene, viene dall' interno, dalle stesse condizioni di strutturazione e sviluppo capitalistico del paese. Ed è per far fronte a questa minaccia che essi si rivolgono ansiosamente all'Occidente "libero" perché esso condanni concretamente il regime di Botha e prepari un cambio della guardia al massimo indolore, rendendosi solvibile per esso in termini di afflusso di capitali. Ma anche qui si incorre in contraddizioni di non facile risoluzione: in primo luogo, è difficile per molti paesi rinunciare alla gallina oggi dei buoni affari con Pretoria per un improbabile uovo domani. L'Inghilterra e la Germania hanno quantità enormi di capitali investiti in Sud Africa che una rottura di punto in bianco con Botha metterebbe in forse. L'Italia, poi, oltre ad essere fornitrice di merci di ogni tipo al Sud Africa, pare esserne anche il primo partner in assoluto in quanto vendita d'armi e vi mantiene insediamenti produttivi a diretto controllo o a partecipazione statale (Snam-progetti, Agip, Alfa Romeo, Montedison più svariate altre aziende IRI) che non si sente affatto di rischiare alla roulette di una rivoluzione nera che si sa da dove comincia, ma non dove può andare a finire...

In secondo luogo, già ora la situazione di crisi determinatasi nel sistema capitalista sudafricano, in connessione alla crisi internazionale (si pensi alle continue ed imprevedibili tensioni cui sono sottoposte le materie prime, tra cui l'oro, sul mercato internazionale), ha consigliato un ritiro di capitali da questo paese da parte dell'Occidente. Stando all'Economist del 30 marzo "più di 30 società USA hanno lasciato il Sud Africa dall’80, ben prima che la "coscienza civile" dell'Occidente si risvegliasse a minacciare sanzioni. "È il forte abbassarsi del tasso di profitto e non la campagna di boicottaggio degli investimenti in Sud Africa, sono le leggi capitalistiche che portano le compagnie straniere a ritirare i loro capitali da questo paese", annota Inprecor (22 luglio), in perfetta sintonia con le rilevazioni di Newsweek.

Per andare incontro ai sogni "riformatori" di Tutu & C., il capitale occidentale dovrebbe poter contare su un trapasso indolore e su un regime post-apartheid in grado di rivalorizzare il capitale attraverso un ulteriore sfruttamento della mano d'opera locale in assenza di ogni sua significativa manifestazione di classe. Un insieme di condizioni altamente improbabile, specie nel momento in cui persino dei settori di capitalismo afrikaner devono — nel tentativo di mantenere il controllo sulla situazione, almeno a breve termine — aprire i cordoni della borsa di fronte alle rivendicazioni economiche dei proletari neri per scongiurare un più accelerato precipitare dello scontro economico sul versante politico e proprio mentre questa situazione "paradossalmente" rafforza, anziché indebolire, la coscienza e l'organizzazione di questo proletariato, come si vede dalla crescente partecipazione delle masse nere ai sindacati ed al tentativo dl controllarli e determinare le direttive del basso. Potrebbe, un domani, bastare uno straccio di riforma ed una manciata di spompati diritti civili a ricacciare indietro questa marea montante?

Pretoria, San Francisco, Torino

Il problema del Sud Africa sta cominciando a scuotere il mondo, poiché i problemi che ivi si pongono travalicano obiettivamente i confini statali e regionali. Un movimento di massa, anche se — per ora — soprattutto a livello di opinione, si sta determinando anche in Occidente. Con due possibilità dinnanzi a sé: o trasformarsi in un reale movimento di classe, internazionalista, a fianco delle masse proletarie sudafricane o, dietro le bandiere infami della "democrazia", servire da supporto all'isolamento ed alla sconfitta della rivoluzione in Sud Africa.

La posizione dei riformisti di casa nostra è esemplare nel tentare di promuovere questa seconda soluzione. Il PCI ha abbastanza buon fiuto per intuire che sul problema ci si deve muovere a far muovere "la gente", ma non ha dubbi quanto agli scopi su cui il movimento dev'essere incanalato. Sentite come l'esperto-esteri del PCI, Romano Ledda, rimprovera Andreotti nell'editoriale dell'Unità del 21 agosto:

"All'onorevole Andreotti non sembra che gli avvenimenti sudafricani di questi giorni abbiano parlato — diciamo pure gridato — abbastanza per indicare quale deve essere la condotta europea verso il regime dell'Africa del Sud? E ciò (...) non solo per ragioni morali (...), ma per ragioni politiche. Per impedire o almeno concorrere ad impedire, che l'inevitabile disfacimento nel tempo del potere bianco a Pretoria sfoci in una sanguinosa guerra civile e in una disgregante crisi regionale, di immediate ripercussioni mondiali".

Non si poteva essere più chiari. Il partner razzista è diventato oramai storicamente inaffidabile e l'Europa (non l'Europa dei proletari, ma quella dei capitali e degli arsenali d'armi, che un Andreotti non saprebbe rappresentare a puntino!) deve predisporsi al cambio della guardia per evitare una rivoluzione sudafricana che — qui il PCI ha perfettamente ragione — non resterebbe limitata all'ambito nazionale o regionale. Reagan e i reaganiani nostrani sono accusati dal PCI di essere "miopi"...

A questa linea i comunisti devono contrapporsi quotidianamente nel movimento per farne emergere una linea di classe, perché i destini della rivoluzione sudafricana dipendono precisamente da quel che saprà fare il proletariato d'Occidente, e viceversa.

Una dichiarazione di principi utopica? No. E quello che sta già delineandosi, sia pure ad uno stadio iniziale, nei fatti. Come si può essere contro il regime dell'apartheid di Botha senza essere contro la politica anti-immigrazione che esiste in Francia, Inghilterra, Svizzera e che si profila anche per l’Italia (dove un milione di immigrati vive di fatto in condizioni di schiavismo capitalista di tipo apartheid)? Come si può essere per le "sanzioni" contro il regime di Pretoria senza sganciarsi dalla logica della difesa degli "interessi nazionali" secondo la quale i traffici in atto con mille ed un regime reazionario nel mondo, principalmente in materiale bellico, torna utile alla "nostra" industria, alla "nostra" occupazione etc.?

No, la solidarietà coi rivoluzionari del Sud Africa non può essere una solidarietà di Stati, di regimi "democratici", di "cittadini". Può e dov'essere una solidarietà di classe che si cementa nella lotta comune contro il sistema capitalista a scala mondiale in tutte le sue manifestazioni.

Solidali con la rivoluzione sudafricana sono i minatori inglesi che hanno stabilito, nel corso stesso della loro lotta, un ponte con i minatori di colore sottoposti allo knut di Pretoria; sono i dockers statunitensi che si sono rifiutati di effettuare le operazioni di carico e scarico per il regime di Botha in barba alle diffide reaganiane ed hanno portato il loro appoggio al movimento di solidarietà degli studenti che già vede nella sola Berkeley 156 compagni sotto inchiesta; sono i 45, per ora, disertori dall'esercito di Pretoria e i proletari bianchi di laggiù che si riconoscono coi loro fratelli neri come compartecipi di un'unica battaglia di classe; lo sono soprattutto le ancor ristrette avanguardie comuniste che, ovunque nel mondo, lavorano per trarre da lotte come queste un'ulteriore spinta verso la formazione di un programma e di un'azione rivoluzionaria internazionale. Legare ed estendere queste prime manifestazioni molecolari è il compito al quale ci sentiamo vincolati ed è su questa linea che siamo impegnati ad intervenire ovunque esista una spinta in questo senso e dovunque su di essa, e contro di essa, operi la mistificazione riformista che presenta come programma la pace sociale, a Pretoria come a Torino, Milano, Genova, con padroni e schiavi assieme uniti.

Boicottare gli affari Occidente-Pretoria significa boicottare il sistema capitalista, qui come laggiù; significa separare gli interessi proletari da quelli dei padroni e contrapporli ad essi; significa ricercare e stringere tutti i contatti possibili tra l'avanguardia comunista in Occidente e quella che è già con un piede dentro la rivoluzione in Sud Africa!